L’Europa e la psicopatologia della sinistra italiana: come perseverare nell’errore senza imparare dai propri fallimenti
Per alcuni anni, questi più recenti, la dinamica elettorale di parte del movimento è stata sempre simile: a un astensionismo crescente, la risposta era creare l’ennesimo contenitore “alternativo” dei movimenti e delle lotte sociali, volto a colmare in qualche modo l’istinto astensionista di larga parte della popolazione. Se l’offerta politica ufficiale non soddisfa più, creare l’alternativa elettorale sembrava il modo migliore per recuperare questo distacco politico sempre più ampio e quasi maggioritario. I continui fallimenti di questo percorso evidenziano soprattutto una cosa: non è la bontà o meno di questa o quella lista ad essere determinante, ma il costante distacco delle masse dal momento elettorale, visto come legittimazione di un quadro politico ormai sempre più “altro” e opposto ai bisogni delle stesse. Continuare a candidarsi non sposta l’atteggiamento di questa popolazione, ma al contrario identifica in questa l’eguaglianza di fatto esistente tra mondo della politica “ufficiale” e quella parte dei movimenti che ancora insistono a legittimare quel mondo. Perché in maniera a-politica e inconscia, probabilmente assolutamente inconsapevole, quella parte di popolazione sempre più astensionista una cosa la sta percependo: non c’è più alcuno spazio per la mediazione, e dunque per il riformismo. L’attuale sistema, cioè, non può essere riformato sotto la spinta dei movimenti antagonisti attraverso il momento elettorale.
Ieri a Roma abbiamo avuto l’ennesima dimostrazione di questa voglia di sconfitta, quando al cospetto del “nuovo salvatore” di turno, Alexis Tsipras, si è riunito l’intero corpo di quel ceto politico che porta la responsabilità di oltre vent’anni di fallimenti e sconfitte della sinistra italiana. Ad applaudire il golden boy della sinistra greca c’erano tutti: da Ferrero a Flores D’Arcais, da Agnoletto e Furio Colombo, da Paolo Cento alla Castellina. E chi non c’era in corpo era comunque presente con lo spirito. Ci riferiamo agli endorsement ricevuti negli scorsi giorni dai vari Bertinotti, Vendola, Casarini e compagnia cantante. Tutti in fila come al banco dei pegni a cercare l’ennesima soluzione elettoralistica ad un problema di cui fanno indissolubilmente parte
Questo discorso, valido per il contesto italiano, è moltiplicato per quello europeo. L’Unione Europea non ha alcun margine di riformabilità, proprio perché processo in atto della costruzione di un nuovo polo imperialista, concorrente a quello statunitense, e basato non più sull’integrazione delle masse nelle proprie istituzioni attraverso la mediazione politica, ma sull’esclusione e il controllo di quote di popolazione sempre più maggioritarie. Non è presente cioè una guerra per accaparrarsi l’adesione popolare, come avvenuto per una larga parte del Novecento: non sono presenti forze politiche contrapposte che si giocano la propria legittimità sul terreno del consenso, ma tutte le forze politiche riconosciute concorrono a promuovere l’esclusione di parte della popolazione dal consesso legittimato a prendere le decisioni. Economicamente, questa parte di popolazione esclusa è esattamente quella da cui il capitale estrae le principali quote di profitto.
Da questa premessa emergono dunque alcune considerazioni conseguenti. L’Unione Europea non si riforma ma si combatte senza mediazioni. Come detto recentemente da un compagno in un’assemblea, lottare contro il proprio imperialismo è sempre più difficile che combattere l’imperialismo opposto. Finchè l’imperialismo era solo quello statunitense, era in fondo facile per il mondo della sinistra opporvisi senza cedimenti. Ma quando l’imperialismo costituisce l’essenza del proprio contesto politico, quando se ne fa parte, diventa molto più complicato comprendere il livello della posta in gioco. La storia della Seconda Internazionale e delle vicende politiche che portarono all’adesione socialista della Prima Guerra Mondiale stanno lì a confermarlo. Oggi in prospettiva non c’è una nuova guerra mondiale simmetrica, ma l’appartenenza a uno dei due campi che inequivocabilmente il capitale ha posto davanti a noi nella costruzione di questa Unione Europea: o si aderisce a questo progetto, anche in maniera critica, o lo si combatte. Candidarsi a riformare questa Unione Europea, legittimarne le istituzioni prive di potere effettivo, dare prestigio a un gioco elettorale ormai sempre più marginale, significa appoggiare la costruzione del polo imperialista europeo. Anche in maniera profondamente critica, come può esserlo questa ipotetica “lista Tzipras”, significa accettare non solo quel piano di gioco, ma soprattutto le sue premesse politiche.
A dire il vero, questa lista Tzipras non raccoglie alcuna adesione concreta. Frutto più di un intellettualismo provocatorio fine a se stesso, per fortuna non ha convinto nessuno all’interno dei movimenti di classe. E non è un caso che un appoggio esplicito a questa presunta lista radicale venga dal mondo di Repubblica: perché con tutte le sue contraddizioni e i suoi mal di pancia, questa lista concorre a cementificare il progetto europeista neoliberale, e non certo ad abbatterlo, neanche in via teorica. Esattamente la posizione politica del giornale-partito: appoggiare senza dubbio questa Unione Europea, e provare a riformarla in senso keynesiano dal di dentro. Ma questo, come più volte detto, è una contraddizione in termini. Questa architettura politico-economica è concreta dal momento che abbatte ogni possibilità di mediazione politica, non se la promuove attraverso un riformismo radicale. Del resto su questo Tsipras è sempre stato abbastanza chiaro. In un passaggio dell’intervista pubblicata oggi dal Manifesto suggerisce che “la soluzione non è distruggere il quadro europeo, ma cambiarlo. L’egemonia di Merkel in Europa porterà alla distruzione della UE. La realtà e che noi siamo l’unica forza filo-europea. Perchè vogliamo un cambiamento capace di mutarne le caratteristiche per tornare ai valori che avevamo: la democrazia e la solidarietà”. Gli fa il coro Vendola, il cui partito ha già deciso di aderire alla lista unitaria, quando ribadisce che “sta nascendo a sinistra una contestazione ragionevole contro l’Europa dei tecnocrati”. Dove sia questa natura originariamente virtuosa sinceramente stentiamo a comprenderlo: la CEE prima e l’UE dopo nascono e si sviluppano, seppur in maniera contraddittoria, come tentativo di costruzione di un polo imperialista autonomo e in concorrenza con quello nordamericano. Non comprenderlo significa appunto non comprenderne la natura stessa. Non subiamo il monetarismo e l’austerità perchè la Merkel è cattiva e Hollande fa il vago, ma perchè questa è la matrice stessa dell’UE e come tale va combattuta e, auspicabilmente, distrutta
Per questo motivo, la lista Tzipras fa parte di quel mondo da combattere. Al di là della sincerità e della bontà di alcuni suoi appartenenti, a cominciare da Tzipras stesso, che certo non può essere definito corresponsabile di questo modello d’Europa. Ma la sua sostanza politica, la sua natura oggettiva, lo portano ad essere dall’altra parte della barricata ideale, barricata che – si badi bene – è l’Unione Europea che ha costruito. Insomma, oggi il movimento di classe, anche di fronte al sempre più evidente allontanamento delle masse da questa rappresentanza politica, ha il dovere di relazionarsi a questo distacco, organizzarlo, giocare sulla contraddizione. Non imbrigliarlo in atteggiamenti intellettualoidi, anestetizzarlo per riproporre l’ennesimo cartello riformista mirante ad essere rappresentato in luoghi privi di qualsiasi potere d’indirizzo o di controllo. Oggi sono quelle masse astensioniste ad indicarci la strada, e sono le strutture politiche a doverla metabolizzare e organizzare. Ed è per questo che noi lotteremo per un abbattimento dell’Unione Europea, che passerà anche attraverso una astensione cosciente e un tentativo di dialogo con quella popolazione che già ha percepito quali sono i propri nemici. Si tratta oggi di capire chi sono i loro amici.