Lezioni egiziane
Tre anni fa le speculazioni sui futures e il balzo dei prezzi dei generi alimentari avevano funzionato da miccia facendo esplodere la rabbia popolare sulla sponda sud del Mediterraneo, sempre più banlieue d’Europa. Le imponenti mobilitazioni avevano spazzato via i rappresentati di un ceto politico da tempo degradato al ruolo di pallida ombra di quelle borghesie nazionaliste che furono comunque protagoniste delle lotte anticolonialli, e più di qualcuno si spinse a parlare, secondo noi impropriamente, di rivoluzione. Nei giorni scorsi piazza Tahrir, l’epicentro simbolico delle “primavere arabe” è tornata a riempirsi innescando le reazioni che poche ore fa hanno portato l’esercito, tra il giubilo della piazza, a rimuovere il presidente Morsi e a sospendere la costituzione assegnando i pieni poteri al presidente della corte costituzionale egiziana Adly Mansour. Non conosciamo a fondo la realtà egiziana ma anche da semplici osservatori esterni una lezione importante siamo in grado di trarla: la piazza, da sola, non basta. Senza una direzione politica, senza una strategia, senza un progetto… senza un’organizzazione la mobilitazione spontanea delle masse si risolve in un nulla di fatto. Se accendi un cerino vicino a una pozza di benzina ottieni un incendio, se fai la stessa cosa dentro ad un cilindro di una macchina fai muovere un pistone. Chimicamente le reazioni sono identiche, ma con la prima dissipi energia mentre con la seconda sei in grado di compiere un lavoro. Anni addietro queste affermazioni sarebbero risultate banali, oggi farle ritornare centrali nella discussione fra i compagni è invece un compito politico ineludibile.