Il “soft power” israeliano e l’atomica iraniana
Quando parla un ex direttore del Mossad, sebbene in forma sintetica e stringata quale l’intervista di ieri sul Corriere della Sera a pagina 15, è bene leggere attentamente ogni singola parola. Ogni singola allusione, infatti, proviene da chi concorre a determinare la politica israeliana nella regione, e di conseguenza quella statunitense, al di là degli sterili battibecchi fra i due stati buoni per qualche titolo giornalistico.
Inevitabilmente, l’accordo fra Iran e stati occidentali è un passo ancora da digerire per Israele, che infatti non solo ha espresso tutta la propria contrarietà, ma confermato che l’opzione militare resta la più plausibile, perfino adesso che la tensione fra gli stati sembrerebbe scemare. Non fosse altro che Israele, da diversi anni, sta combattendo sul suolo iraniano una guerra strisciane fatta di attentati, uccisioni mirate, bombardamenti a siti logistici e condizionamento della politica interna iraniana, che all’inverso avrebbe già scatenato una guerra mondiale. Negli ultimi quattro anni sono stati assassinati almeno cinque scienziati organici al programma nucleare iraniano; il viceministro dell’Industria; il capo del servizio segreto iraniano operante nell’ambito della cosiddetta cyberwar; una quantità indefinita di bombe e attentati in luoghi pubblici e/o strategici dello stato iraniano, quali l’università di Teheran e uno dei siti di accrescimento dell’uranio. Il tutto senza che dalla comunità internazionale, la stessa che si premura nel contenere la violenza iraniana, si sia sollevata qualche voce che abbia chiesto spiegazioni allo stato israeliano e al suo comportamento terroristico.
E’ evidente che in una fase economica di stagnazione prolungata, l’opportunità di tornare a commerciare a prezzi ragionevoli il petrolio iraniano dev’essere stata una delle molle che hanno spinto anche gli stati più riottosi (ad esempio la Francia), ad assecondare le necessità dell’accordo. E infatti il petrolio è l’unico strumento che permette all’Iran di sopravvivere, visti i quasi cento (100) miliardi di dollari statali bloccati dalla comunità internazionale nei vari conti e patrimoni all’estero posseduti dallo Stato ma impediti all’utilizzo. Pensiamo solo a quanti possano essere per uno Stato non certo ricco, quando in Italia, ad esempio, per racimolare i due miliardi necessari alla copertura della seconda rata IMU, si sta andando avanti da mesi in inutili e inconcludenti dibattiti. L’Iran ha un patrimonio del valore di un quinto del suo PIL bloccato dalle banche internazionali, ed è evidente quanto anche allo stato mediorientale convenga un allentamento della morsa entro cui gli stati canaglia dell’occidente lo stanno stringendo.
Vediamo invece come legge la situazione Shabtai Shavit, ex capo del Mossad, e ancora oggi attivo, dietro le quinte, nella politica israeliana. Secondo Shavit, l’obiettivo di Israele e di tutta la comunità internazionale è quello di “far fuori tutte le strutture nucleari iraniane”. Così, a inizio intervista, l’ex direttore chiarisce che, accordo con Iran o meno, l’obiettivo di breve periodo dev’essere quello, e Israele, come vedremo fra poco, farà di tutto per realizzarlo. Infatti, l’obiettivo politico israeliano è da intendersi realizzabile solo in termini militari. Alla domanda del giornalista (Francesco Battistini), su “Cosa cambia nei piani militari di Israele”, Shavit risponde così: “Niente.[…]Queste cose non vengono messe da parte perché c’è un accordo politico”. Anche qui, la chiarezza di chi è abituato a ragionare in termini militari è evidente. Non sarà un (qualsiasi) accordo politico a cambiare i piani militari di Israele. Dunque, si consegue che nessun accordo politico potrà mai darsi davvero, visto che non è sul piano politico che ragiona Israele in questo momento.
La parte più interessante però non è questa. Fino a qui, la linea strategica di Israele di annientare in qualsiasi modo ogni problema politico e militare nella regione era evidente anche ai meno attenti di cose mediorientali. La parte interessante arriva alla domanda del giornalista se è in previsione “un’alleanza con l’Arabia e le monarchie del golfo, scornate quanto Israele dall’accordo con l’Iran”. La risposta è questa: “Forse succederanno cose utili a tutti, ma senza vere alleanze: si lavora insieme sottotraccia , mica si firmano accordi o si aprono ambasciate”. Le dinamiche imperialiste della regione, e cioè l’accordo politico fra Israele e gli stati sauditi emissari della politica statunitense, smascherata da decenni dai compagni e sempre negata da Israele, viene qui confermata in tutta la sua evidenza. Israele lavora sottotraccia insieme ad Arabia Saudita e gli altri stati controllati dai petrodollari del golfo, e contro quegli stati che rappresentano per esso un problema. Alla faccia dell’unità araba e della formale difesa dei diritti palestinesi assunta da tutti (nessuno escluso) gli stati arabi.
Si dirà che il rischio di un paese come l’Iran in possesso dell’atomica sia effettivamente un problema per il mondo, un problema che trasforma in secondario qualsiasi altro genere di dinamiche. Un paese cioè in cui non avvengono controlli internazionali, in cui non si conosce effettivamente la potenzialità atomica, in cui il potere politico si confonde col potere religioso, contraddistinto da profondi conflitti interni quanto internazionali. La descrizione però coincide con lo stato israeliano molto più che con quello persiano:
Giornalista: “E l’atomica israeliana? Non è l’ora di chiudere con la politica dell’ambiguità e ammettere che esiste?”
Shabtai Shavit: “La politica nucleare israeliana è la stessa da quarant’anni. E sarà la stessa nei prossimi quaranta”.
Ad buon intenditor, poche parole.