Amazon, un nuovo modello produttivo?
Tra le lotte più combattive che si sono palesate in quest’autunno, e in alcune casi e città anche in inverno, dobbiamo sicuramente annoverare quelle nate per iniziativa dei lavoratori e le lavoratrici delle multinazionali della logistica. TNT, DHL, Bartolini, tutte aziende che, grazie alle mobilitazioni di chi vi lavora sfruttato e senza diritti, sono oggi esempi paradigmatici del nuovo mercato del lavoro e delle contraddizioni che in esso vivono. Chi abitualmente legge il nostro blog sa che non stiamo parlando di una novità; da queste colonne abbiamo più volte raccontato le cronache di quanto accaduto, visto che proprio come Collettivo ci siamo impegnati nel supporto di alcune vertenze che, anche qui a Roma, hanno interessato gli stabilimenti di queste aziende. I più solerti, inoltre, ricorderanno anche che lo scorso 7 dicembre organizzammo un’iniziativa al Lucernario Occupato con i compagni e le compagne di Sapienza Clandestina: la presentazione del libro-inchiesta di Jean-Baptiste Malet, free lance francese che si fece assumere dal colosso dell’e-commerce Amazon durante le festività natalizie dello scorso anno. Tra gli scaffali dello stabilimento Amazon di Montélimar, Malet ebbe modo di sperimentare sulla propria pelle le condizioni di sfruttamento cui sono sottoposti i dipendenti: mantenimento di standard produttivi, negazione dei diritti elementari sul lavoro, mobbing agli iscritti al sindacato (laddove questo riesce ad interagire coi lavoratori), un accurato e soffocante sistema di controllo, paghe da fame. Caratteristiche che non sono proprie del solo sistema Amazon, ma che oggi sono il leit motiv che vige nella stragrande maggioranza delle aziende multinazionali del comparto logistico. Comprese quelle presenti in Italia. E per questo, nel presentare il testo di Malet (En Amazonie. Un infiltrato nel “migliore dei mondi”, Kogoi edizioni, 15 euro), ci sembrò utile e interessante sperimentare una forma di interazione tra l’autore e i lavoratori degli hub romani della TNT e DHL: confronto diretto sulle politiche padronali e sugli strumenti del profitto capitalista, che non ha nazione e confini geografici, come la manodopera che viene assunta in questa “tratta degli schiavi” del terzo millennio. Quello che invece oggi vorremmo provare a fare, ad alcune settimane di distanza da quella interessante chiacchierata a viso aperto, è provare a mettere a fuoco il sistema Amazon. A partire sì dal libro di Malet, ma cercando anche di andare oltre alcuni stereotipi comunicativi che – ci sembra – hanno imbrigliato la comprensione di questo semplice modello di profitto, idealizzato e analizzato come fosse una nuova frontiera produttiva. Quello che vorremmo sottolineare, invece, è che il sistema Amazon non è il prodotto malato dell’economia virtuale, finanziaria, quell’economia che secondo i più è l’esclusiva causa della crisi odierna del modello capitalistico – ma è la riedizione 2.0 del classico modello di sfruttamento fordista su cui si è basata l’estrazione di plusvalore dal XX secolo fino ad oggi.
C’è una premessa doverosa da fare: l’auge di Amazon, del suo fatturato e della sua espansione virale nei mercati è dovuta al fatto che il comparto logistico, la spedizione delle merci e il trasporto su gomma sono oggi il settore maggiormente strategico per le politiche capitalistiche; e lo sono a tal punto da rendere necessario un forte investimento come quello ideato da Jeff Bezos, patron di Amazon. La mobilità del capitale, oltre la sua veste virtuale di transazioni finanziarie, è oggi la chiave d’accesso ai profitti globali. Rispetto ai modelli produttivi conosciuti nella seconda metà del secolo scorso, oggi la produzione dei poli industriali è costantemente delocalizzata: la ricerca di zone di produzione a basso capitale di rischio, la manodopera sottopagata a causa delle gabbie salariali a livello globale, sono elementi che hanno trasformato il modo di produzione capitalistica adattandolo alle nuove frontiere dei mercati, senza per questo dismettere l’impianto di lavorazione tradizionale. Questo, infatti, è stato solo frazionato, disperso, atomizzato. E con esso anche la combattività dei lavoratori: alienati, costretti a lavorare in unità monocefale, spesso isolate, senza coscienza di ciò che il mondo del lavoro è e dovrebbe essere.
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Uno degli aspetti più importanti per capire il sistema Amazon è quello dell’informatizzazione della catena produttiva. Conosciamo il gigante dell’e-commerce prima di tutto per il suo sito. Milioni di utenti ogni giorno cliccano sulle pagine e sui menu del sito orange. Quello che invece non viene percepito dai fruitori del servizio online è che dietro lo schermo, dietro lo stoccaggio, lo smistamento dei pacchi, l’imballaggio e la preparazione della spedizione, non c’è nessuna meccanica robotica, nessuna intelligenza artificiale. Le uniche macchine complesse che abitano gli hangar di Amazon sono gli uomini e le donne che ci lavorano. In parole povere, dietro l’apparente e scintillante sistema di economia digitalizzata si nasconde la più cruda delle realtà: tre turni da 8 ore, 20 km a turno percorsi dai pickers che devono preparare il materiale da imballare per la spedizione, obiettivi di produzione dichiarati ad inizio turno ma nessun premio produttività e, soprattutto, due mini pause da 20 minuti comprensive del lungo tragitto per raggiungere l’unica area adibita al break. Non un discorso da poco. È lo stesso Malet, d’altronde, a fare una breve considerazione su questo scippo camuffato ai danni dei lavoratori. «L’ingiustizia più evidente in merito al tempo di lavoro è data dalla distanza tra il luogo dove si trovano il timbratore e i tornelli dai quali si entra e su esce. Sei volte al giorno questa traversata di dieci minuti è a carico del lavoratore. Perché il timbratore non viene messo all’entrata del magazzino? È molto semplice: perché i tempi di attraversamento sono presi dal tempo libero dei lavoratori, sia prima sia dopo il passaggio dal timbratore, così come le pause, che non iniziano al tornello di uscita, e non sono pagate da Amazon. Se si tolgono dodici minuti al giorno, moltiplicati per mille lavoratori al giorno, solo su questo sito, si ottengono dodicimila minuti, cioè duecento ore di lavoro al giorno non pagate. Moltiplichiamo questo risultato per trentun giorni. Otteniamo un totale di seimila e duecento ore di lavoro non pagate da Amazon ai dipendenti».
L’inchiesta presentata nel volume di Malet presenta poi un’altra riflessione molto interessante. Nel 2012 il giornalista Richard L. Brandt, a proposito di uno studio sull’esponenziale crescita di Amazon, affermò che «l’espansione della capacità di distribuzione di Amazon è la più rapida che sia mai esistita in tempi di pace». L’Osservatorio dell’economia del libro, stando alle stime di fine 2012 (quando fu approntato il progetto d’inchiesta di Malet), ha affermato che la quota del mercato della vendita di libri su Internet era di oltre il 13% del totale (contro il 2.2% del 2002). Allo stesso tempo, la Federazione dell’e-commerce francese faceva notare che l’editoria indipendente necessitava di una quantità di lavoratori 18 volte superiore a quella delle vendite online, preconizzando l’immediata crisi del settore del cartaceo e della vendita nelle librerie tradizionali. La riflessione che viene proposta chiama a testimoniare l’economista Joseph Schumpeter, secondo cui la definizione di un fenomeno economico ha come conseguenza la scomparsa di settori di attività, congiuntamente alla creazione di nuove attività economiche. Si parla a tal proposito di distruzione creatrice, una fenomenologia tipica del capitalismo, modello di produzione che non è stazionario ma che tende a procedere seguendo la sua indole fagocitante mettendo in crisi le reti economiche di prossimità. A ciò si aggiunga che, sebbene tra lo Stato francese e il colosso dell’e-commerce ci sia un contenzioso aperto sugli sgravi fiscali che l’azienda di Bezos ha compiuto in Francia (parliamo di 198 milioni di euro nell’autunno 2012), gli ultimi due stabilimenti di Amazon apparsi sul territorio francese sono stati sovvenzionati dalla spesa pubblica in nome di una nuova politica di occupazione. Anche per questo, quindi, è facile spiegare la tendenza che vede il volume di affari di Amazon in crescita di un 40% annuo; ma a partire da questi dati è possibile invece scorgere un’altra contraddizione insita nel sistema economico della multinazionale. Con le sovvenzioni pubbliche versate (in forma finanziaria) per l’apertura di nuovi stabilimenti, le politiche di sviluppo del governo Hollande non solo falsano la libera concorrenza con un gettito fiscale pubblico, ma soprattutto mettono in moto in maniera irreparabile un processo di depauperamento e disoccupazione di massa rispetto alla promessa di nuovi (ma numericamente inferiori) posti di lavoro dequalificati e dequalificanti. Cos’è dunque che spinge a sostenere questo modello economico “rivisitato” e adattato al commercio digitale? La ragione che ha permesso ad Amazon di essere il colosso che oggi è va ricercata nella natura dell’attuale crisi capitalista; una crisi che da molti è stata bollata solo come effetto collaterale di un’economia in salute ma drogata dalla speculazione finanziaria. La verità che dimostra il paradigma Amazon è invece un’altra. Facendo leva su un sistema di produzione tipicamente fordista, esclusivamente basato sul lavoro salariato, il progetto Amazon si è imposto all’attenzione globale nel giro di un decennio. Nei primi anni non generava profitti di rilievo; era anzi un laboratorio in cui veniva testata la “vendita in perdita”, ovvero che mirava direttamente alla spedizione gratuita senza poter applicare ulteriori sconti alla vendita di un libro (in Francia la legge del “prezzo fisso” è la legge Lang, che limita la possibilità di sconto sui libri al 5% del prezzo di vendita stabilito dall’editore). Questa politica di perdita nel breve periodo era dovuta essenzialmente al fatto che Amazon non si qualificava sulla scena globale come produttore ma come semplice intermediario di commercio. La proposta della spedizione gratuita, dell’acquisto con il “clic” – insomma il cambio delle abitudini del consumo, resero però questo ruolo sempre più necessario nella nuova ristrutturazione del mercato globale. E nonostante i primi anni in perdita, furono proprio gli speculatori finanziari a continuare ad investire sulle azioni del gruppo di Bezos. Il motivo è presto detto. Secondo quanto detto in precedenza sulla distruzione creatrice di Schumpeter, Amazon stava effettivamente fagocitando il mercato delle reti di prossimità, aggiudicandosi di lì a poco il totale monopolio nel settore di vendita di libri. Un’intuizione fiutata dai colletti bianchi di Wall Street e che oggi, grazie alla virtualità di un modello economico centrato anche sulla speculazione finanziaria, ha permesso al colosso di fiorire ed espandersi. Detta altrimenti, senza la retorica della bolla finanziaria e la forza che ha indirettamente assunto, il modello Amazon non si sarebbe sviluppato così come lo conosciamo.
Un’ultima nota sui molteplici spunti offerti dal testo è poi quella sulla genesi del modello di produzione di Amazon. Abbiamo detto della non-informatizzazione, dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, del lavoro quasi esclusivamente manuale che si volge negli hangar della multinazionale. Perché allora Amazon viene oggi presentato come un nuovo modello economico? In una recente intervista Malet ha dichiarato in proposito che «Amazon utilizza in modo nuovo vecchi modelli di gestione della produzione, tipici del XX secolo. Ma i poli industriali del Novecento, seppur legati a un’idea di massimizzazione del profitto, permettevano ai dipendenti un’autonomia relazionale, un’autogestione dei rapporti personali. Questo in Amazon non accade, anzi; c’è un forte controllo, invasivo, sia rispetto ai rapporti personali che alla performance lavorativa dei dipendenti». Secondo Malet, quindi, il modello Amazon sarebbe una catena ancor più stringente, dove le dinamiche di controllo sui lavoratori si caratterizzano per essere ancora più brutali e nocive rispetto a quanto subìto dai lavoratori nei decenni passati. Pur condividendo (come abbiamo scritto in precedenza) l’analisi secondo cui il modello produttivo sia sostanzialmente lo stesso (ad esempio, Amazon ha mutuato da Toyota il modello delle 5 “S” per migliorare la produttività ed ottenere un alto gradi di soddisfazione del personale), non possiamo nascondere che l’analisi sull’autonomia relazionale e l’autogestione dei rapporti ci lascia un po’ perplessi. Malet sembra infatti dimenticare la premessa secondo cui una maggiore possibilità di autorganizzazione nei posti di lavoro, con conseguente inversione e/o cambio dei rapporti di forza tra padrone e dipendenti, non è un fattore arbitrario, octroyée, dipendente dalla volontà o dall’umanità del padrone; si tratta piuttosto di una conquista frutto dei cicli di lotta che hanno caratterizzato i luoghi della produzione nel XX secolo, ottenuta a suon di scioperi, picchettaggi, licenziamenti e battaglie portate avanti collettivamente da quella massa critica che ne è stata è protagonista. A partire da queste considerazioni non solo si può inquadrare il sistema Amazon nel modello produttivo capitalistico tradizionale, ma possiamo anche porre le basi per un ragionamento che sia capace di indagare quali debbano essere gli strumenti di lotta di cui devono dotarsi i lavoratori e le lavoratrici per affrontare la nuova offensiva padronale in un clima di frammentazione e atomizzazione del nuovo proletariato metropolitano.