C’è chi rompe il silenzio e chi persevera nell’omertà

C’è chi rompe il silenzio e chi persevera nell’omertà

 

Come comitato La tortura è di Stato! Rompiamo il silenzio avevamo immaginato di far uscire il nostro appello anche su Il Manifesto. Credevamo, evidentemente in maniera ingenua, che il risalto che in questi giorni il quotidiano aveva dato alla questione dell’amnistia andasse nella stessa nostra direzione, in quella cioè di creare dibattito e mobilitazione anche attorno alle vicende della tortura di Stato contro i compagni rinchiusi nelle carceri. E invece, apparentemente inspiegabilmente, Il Manifesto ci ha censurato, impedendo all’appello di aggiungere quella certa visibilità che il quotidiano poteva dare (altra prova di ingenuità, visto che ormai viene letto solo dalla redazione che lo produce e dai loro familiari). L’appello non è stato pubblicato, senza alcuna risposta se non un laconico rimando a problemi di spazio. La motivazione reale è come sappiamo ben altra. La loro è una posizione politica, e come tale va denunciata.

Certo, il nostro appello è fortemente politico. Non c’è margine alcuno alle facili concessioni delle attuali retoriche contro il sadismo delle “guardie”. Il nostro tentativo, crediamo sia ormai palese, è denunciare lo Stato, e non solo i comportamenti illegali dei suoi agenti in divisa. Il nostro obiettivo è quello di smascherare la continuità politica che si cela dietro alle torture e alle legislazioni repressive. Dal fascismo agli anni Settanta e fino a Genova, appena nella scena delle lotte di classe sono emerse posizioni e mobilitazioni non più gestibili, lo Stato ha sempre adeguato il proprio atteggiamento repressivo. Appena la lotta di classe avanza in maniera significativa, anche lo Stato si conforma. E questo adeguarsi, questo combattere specularmente in maniera illegale, in certi casi è avvenuto addirittura con gli stessi apparati e gli stessi uomini. Una continuità politica ed umana che smaschera definitivamente ogni retorica sulla legalità ripristinata contro ogni tentativo rivoluzionario. Affermare che negli anni Settanta era in corso una guerra civile, e che le due parti contendenti si combattevano reciprocamente nell’illegalità, è un’affermazione politica ben precisa, che analizza quel periodo storico da una definita posizione di classe.

Non avevamo certo in mente una possibile condivisione politica da parte del Manifesto. Anzi, consapevoli della sua storia e delle sue posizioni, sapevamo benissimo che negli anni Settanta e Ottanta quel giornale non era certo fra gli amici di quei tentativi rivoluzionari, e che anzi riproponeva pedissequamente la logica “piccista” della legalità statale contro l’illegalità rivoluzionaria. Ma noi non chiedevamo un appoggio politico. Pretendevamo, invece, visibilità. Perché, nonostante tutto, credevamo che ci fosse ancora una qualche forma di solidarietà verso quei militanti politici che sperimentarono sulla propria pelle la “legalità” dello Stato. Un giornale che ancora si definisce “comunista” non può non assumere questa solidarietà come punto politico dirimente. Oggi scopriamo che non è così. E lo scopriamo nel peggiore dei modi. Nessuna risposta degna d’attenzione, nessun tentativo di giustificare la loro posizione. Una qualche forma di scusa per il mancato spazio e via. Un atteggiamento che non solo li descrive per quello che ormai sono diventati, e cioè uno spazio inutile destinato al riformismo illuminato (spazio peraltro ormai occupato stabilmente dal Fatto Quotidiano), ma che recide definitivamente ogni loro contiguità col mondo dei movimenti di classe. Una posizione che perpetra l’omertà che da più parti si cerca di stabilire attorno a quegli eventi.

Avremmo voluto anche tentare di aprire un possibile dibattito con una parte di quei lettori ancora sensibili all’argomento. Un dibattito che non fosse chiuso alle solite posizioni precostituite, ma che fosse effettivamente capace di produrre una sintesi condivisa attorno alla questione della tortura e della repressione statale. Non volevamo, ripetiamo, l’appoggio politico del giornale, ma almeno la possibilità di discuterne. D’altronde, a questa campagna aderiscono in molti, da posizioni politiche diverse e con storie personali altrettanto eterogenee. Non è necessario appartenere alla stessa area per portare la propria solidarietà militante ai compagni e avere una visione comune delle illegalità di massa compiute dallo Stato nei momenti in cui si è sentito più sotto attacco.

Non è certo possibile recuperare un atteggiamento che si commenta da se e che non ha bisogno di ulteriori dettagli. Ci chiediamo però se non sentano il bisogno di giustificare questa loro posizione politica. Siamo aperti a tutti i chiarimenti, anche se qualcosa ci dice che il silenzio e l’omertà saranno la loro linea anche questa volta. Ma di certo, la denuncia di questa posizione non terminerà con un semplice articolo su di un blog.