Il misterioso legame tra femminicidio e movimento No Tav
Approfittando della calura estiva, che rende tutti un po’ più disattenti, giovedì scorso il Consiglio dei ministri ha approvato un decreto legge – che, in quanto tale, è immediatamente attuativo, anche se dovrà essere approvato dal Parlamento entro 60 giorni – intitolato «Disposizioni urgenti in materia di sicurezza e per il contrasto della violenza di genere, nonché in tema di protezione civile e di commissariamento delle province». Tale decreto, il cui testo completo non è ancora stato reso noto (vedi) ma di cui è stata diffusa una sintesi, costituisce un vero e proprio «pacchetto sicurezza» che, come i suoi illustri predecessori, è stato presentato all’opinione pubblica sotto tutt’altra veste.
In questo caso, Letta e il suo governo – seguiti acriticamente da tutti i principali media e anche da personaggi celebrati da una certa “sinistra”, come la presidente della Camera Boldrini, che con un tweet si è dichiarata soddisfatta del dl – hanno presentato questo insieme di misure come l’inizio «di una lotta senza quartiere contro il femminicidio», come «un intervento duro di contrasto al femminicidio». Una serie di misure che – agli occhi dell’opinione pubblica – potrebbero apparire come frutto di un nobile intento ma che, in realtà, dimostrano ancora una volta come il tema della violenza contro le donne venga utilizzato strumentalmente ai fini delle politiche securitarie e repressive. E se, nel passato, alcuni orribili stupri erano stati utilizzati come volano per promuovere legislazioni restrittive e razziste contro gli immigrati, ora il governo sussume l’obiezione che le compagne e i compagni gli hanno più spesso mosso negli anni, ovvero che la violenza contro le donne avviene nella stragrande maggioranza dei casi tra le mura domestiche, o comunque a opera di parenti, partners, amici o conoscenti e non per mano del «barbaro» e dello «straniero». È così stato approvato questo pacchetto di misure che, dietro il paravento della prevenzione e della repressione di tali violenze, cerca di far passare norme che reprimono le forme più forti e vitali di mobilitazioni politiche e sociali di questo periodo: prima tra tutte, ovviamente, la lotta contro il Tav in Valsusa.
Se teniamo conto che, secondo l’articolo 77 della Costituzione, il Consiglio dei ministri può emanare decreti legge solo «in casi straordinari di necessità e d’urgenza», si capisce infatti immediatamente che non sono tali per il governo né il femminicidio (di cui non si è mai curato finora), né i furti di rame (attività che prosegue indefessa dall’immediato dopoguerra), né le rapine ai danni degli over 65 anni, né il furto informatico di identità, né tanto meno il prolungamento della possibilità di arresto differito per gli ultras, ma proprio la lotta contro il Tav in Valsusa. Del resto è stato lo stesso Letta ad affermare in conferenza stampa che il pacchetto riguarda «alcuni aspetti che riteniamo in questo momento fondamentali» e la stessa sintesi sul sito del governo parla di un’iniziativa legislativa mossa «dalla unitaria esigenza di porre mano alle più evidenti necessità di prevenzione e contrasto di fenomeni delinquenziali divenuti particolarmente acuti».
Nelle ultime settimane, si è assistito a una vera e propria escalation della repressione contro il movimento No Tav: tanto con la sperimentazione di nuove forme di repressione delle manifestazioni (che hanno portato sia all’arresto di Piero, Matthias e di altri 5 compagni durante la passeggiata notturna del 19 luglio, sia al fermo di decine di persone e all’arresto di 3 compagni durate lo sgombero del presidio di Chianocco lungo l’autostrada martedì scorso), quanto con la contestazione, per la prima volta, dell’accusa di «attentato per finalità terroristiche o di eversione» (articolo 280 del codice penale, che tra l’altro riguarda l’omicidio o il tentato omicidio) ai e alle militanti No Tav raggiunti da avvisi di garanzia e perquisiti lo scorso 29 luglio. Un’accusa, questa, che anche in assenza di cose consente perquisizioni e lunghi periodi detentivi.
Nel caso del nuovo pacchetto sicurezza, le misure previste contro il movimento No Tav sono tutt’ora un mistero. E non pensiamo che la scelta del governo sia casuale. Stranamente, infatti, non se ne fa cenno nella sintesi del decreto legge presente sul sito del governo (leggi), nonostante tale provvedimento sia stato annunciato dal ministro dell’Interno Alfano nella conferenza stampa di presentazione del «pacchetto» (vedi). Una conferenza che forse vale la pena di vedere integralmente, anche per farsi due risate sulle scarse capacità oratorie del ministro (ad un certo punto parla di «anni di sperimentazione dello stalking»: il governo sperimenta lo stalking?). In particolare, dal minuto 20.40, Alfano – sospirando quasi in modo imbarazzato (forse perché non sa quali parole usare per dire senza dire) – afferma:
Un’ulteriore decisione riguarda anche il principio che quando lo Stato decide un’opera pubblica, quell’opera pubblica deve essere realizzata e coloro i quali aiutano lo Stato a realizzare il proprio intendimenti vanno difesi. Per cui d’ora in poi anche gli ingressi abusivi nei cantieri di Chiomonte e della stazione di Susa saranno puniti con la sanzione più rigorosa prevista per tutte le introduzioni in luoghi di interesse strategico.
Parole dure, che non nascondono una visione autoritaria dei rapporti tra lo Stato e i cittadini. Posto che le pene per gli eventuali reati vengono decisi dalla magistratura e non dal governo e che la legge è uguale per tutti (non ci può quindi essere una legge specifica per i No Tav), ci chiediamo quindi cosa abbia voluto dire Alfano in questo misterioso passaggio: quali possono essere queste sanzioni più rigorose? Sparare contro i manifestanti, forse? Un’indicazione viene forse dalla «Stampa» che, in un articolo, afferma che l’articolo 10 del decreto legge abbia il titolo, definito dallo stesso quotidiano torinese come minaccioso, «Norme in materia di concorso delle Forze armate nel controllo del territorio e per la realizzazione del corridoio Torino-Lione, nonché in materia di istituti di pena militari» (leggi). Secondo il «Messaggero», il dl prevede che «l’accesso abusivo nei cantieri Tav Torino-Lione sia esteso anche ad un altro tratto dell’opera» (leggi). Quello che non è chiaro, tuttavia, è se il cambiamento delle funzioni dell’esercito nel controllo del territorio (nella sintesi si parla di «nuove norme anche per quanto riguarda una maggiore flessibilità dell’impiego del contingente di 1.250 appartenenti alle Forze armate nel controllo del territorio stabilendo che questo possa essere impiegato anche per compiti diversi dai servizi di perlustrazione e pattugliamento») – un provvedimento già grave di per sé, che conferma la tendenza a utilizzare l’esercito in funzioni di ordine pubblico, come già si fece a Napoli nel 2008 durante «l’emergenza rifiuti» – riguardi anche la Valsusa.
Non è chiaro, quindi, cosa il governo abbia previsto questa volta per il movimento No Tav, ma siamo certi che anche questa volta troveranno pane per i loro denti: in quella Valle non passerà mai una linea ad alta velocità.
Una riflessione a parte merita, poi, la ratio che ha mosso anche le misure contro la violenza di genere. Già le parole pronunciate da Letta durante la conferenza stampa, che presentano il dl come un atto per la «protezione della parte più debole della nostra (?) popolazione», dicono molto. Il contenuto del provvedimento, che rende «più incisivi i strumenti della repressione penale dei fenomeni di maltrattamenti in famiglia, violenza sessuale e di atti persecutori (stalking)», ha infatti un’ottica prettamente paternalista, che vede le donne come soggetti deboli da tutelare e da proteggere. Quello che non si finge di non comprendere è che le leggi non hanno una forza impositiva né di deterrenza: per superare i maltrattamenti sulle donne va cambiato alla radice il sistema economico e sociale e il suo ovvio riflesso culturale.
Oltre a introdurre una serie di aggravanti per i reati di violenza di genere (ad esempio, se sono commessi dal coniuge, anche separato o divorziato, o dal partner della donna che li subisce), il dl stabilisce una serie di misure quali l’irrevocabilità della querela per le denunce di stalking (incluso inoltre tra i reati ad arresto obbligatorio) e la garanzia dell’anonimato per quanti denunciano (vicini di casa, ecc.) possibili violenze. Queste misure hanno già trovato l’opposizione delle associazioni di avvocati penalisti (leggi), che – seppure con toni opinabili – hanno affermato che fanno «arretrare il paese rispetto ad elementari standard di civiltà giuridica che pensavamo acquisiti. Si tratta di figure che ribaltano il principio costituzionale della presunzione di innocenza».
Grottesca è poi la decisione di concedere il permesso di soggiorno per motivi umanitari alle donne extracomunitarie vittime di violenza: per essere accettate in Italia – e magari non mandate in uno di quei CIE in cui i poliziotti stuprano le immigrate, come ci ha insegnato il caso di Joy, la giovane donna nigeriana che nel 2009 denunciò di aver subito un tentativo di violenza sessuale nel CIE milanese di via Corelli da parte di un ispettore di polizia – bisogna subire maltrattamenti, minacce, percosse. Ci chiediamo se queste donne immigrate verranno credute sempre, o solo quando ad aver commesso la violenza denunciata è un altro immigrato e non un uomo italiano, magari appartenente alle forze dell’ordine. Joy non fu creduta: l’ispettore di polizia accusato fu assolto e Joy e la sua compagna di cella Hellen, che aveva confermato le sue accuse, furono accusate di diffamazione. Perché, nonostante tutta l’opposizione di facciata contro la violenza di genere, la parola di un’ex-prostituta nera vale meno di quella di un poliziotto bianco. La violenza di genere non è un problema di ordine pubblico, ma un problema culturale, ovvio riflesso di una società basata sullo sfruttamento, sull’oppressione e sulla violenza degli uomini e delle donne su altri uomini e su altre donne, che non si risolve per legge.