Maturità, egemonia e potere
Anche quest’anno gli esami di Maturità hanno certificato come la cultura scolastica costituisca ormai una semplice appendice della più vasta egemonia culturale della democrazia neoliberista. Infatti, tutte le tracce contenevano precisi messaggi politici, più o meno velati, più o meno subliminali, di profondo condizionamento della propria visione del mondo. Per svolgere quelle tracce, dunque, bisognava aver assimilato determinati valori, essersi costruito un preciso insieme di idee, che costituiscono il prodotto coerente dell’attuale sistema di apprendimento nelle scuole italiane. Una visione alternativa non sarebbe stata possibile, pena l’impossibilità di svolgere efficacemente l’esame. Venuta meno l’idea politica gramsciana di influenzare alcuni fondamentali snodi del potere, di costruirsi ridotte di contropotere dalle quali organizzare la lotta alla democrazia borghese, la cultura ufficiale è stato il primo terreno ad adeguarsi al pensiero unico. Gli esami di maturità (come i libri di testo e più in generale il sistema d’apprendimento nei licei) di questi anni sono il più evidente effetto della ritirata delle sinistre da quella sorta di contropotere culturale che esercitavano fino alla scomparsa del PCI.
Ogni traccia porta in se i sintomi e gli effetti di questa ritirata. La prima, riprendendo un testo di Claudio Magris sull’apparentemente innocuo concetto di “viaggio”, riporta infatti quest’ampia citazione:
“…Quando ero un bambino e andavo a passeggiare sul Carso, a Trieste, la frontiera che vedevo, vicinissima, era invalicabile, – almeno sino alla rottura fra Tito e Stalin e alla normalizzazione dei rapporti fra Italia e Jugoslavia – perché era la Cortina di Ferro, che divideva il mondo in due. Dietro quella frontiera c’erano insieme l’ignoto e il noto. L’ignoto, perché là cominciava l’inaccessibile, sconosciuto, minaccioso impero di Stalin, il mondo dell’Est, così spesso ignorato, temuto e disprezzato. Il noto, perché quelle terre, annesse dalla Jugoslavia alla fine della guerra, avevano fatto parte dell’Italia; ci ero stato più volte, erano un elemento della mia esistenza. Una stessa realtà era insieme misteriosa e familiare; quando ci sono tornato per la prima volta, è stato contemporaneamente un viaggio nel noto e nell’ignoto…”
Con un capolavoro retorico il testo di Magris consegna delle precise immagini allo studente. Per prima cosa, al confine di Trieste, considerata come la frontiera del mondo “libero”, non corrispondeva tanto la Jugoslavia, o un qualsiasi altro paese, ma “l’impero di Stalin”, il “mondo dell’est”, subito etichettato come indistinguibile *ignoto*, dunque minaccioso. Una minaccia non descritta, ma solamente accennata, suscitata come paura irrazionale, e dunque non argomentabile. La retorica è facilmente smascherata: al di là della giustezza o meno del proprio campo, quello occidentale, della democrazia liberale, o della capacità di generare benessere del capitalismo, questo è il mondo noto e condizionabile, criticabile ma pur sempre il campo dei “buoni”, al contrario del mondo socialista, che non può essere efficiente per definizione, in quanto ignoto.
Altro messaggio subliminale interessante è il riferimento alla passata dominazione italiana di quelle terre, purtroppo (per Magris) dalla fine della guerra sotto la sovranità jugoslava. Poco importa che quelle terre fossero abitate da slavi, che facessero parte dello Stato jugoslavo sin dalla sua costituzione, e che fossero passate in mano italiana grazie alla spartizione delle frontiere a seguito della Prima Guerra Mondiale (tramite il patto segreto di Londra). Poco importa che durante il fascismo, in quelle terre, già protagoniste di episodi di pulizia etnica antislava, il fascismo e il nazismo costruirono campi di concentramento e di sterminio. Poco importa, infine, dell’invasione nazi-fascista del 1941. Quei territori erano nostri e nostri dovevano rimanere, alla faccia dell’autodeterminazione dei popoli.
Si potrebbe dibattere sulle reali intenzioni di Magris, del senso di questo suo testo all’interno del più vasto componimento, o degli intenti politici che l’autore di proponeva. Quello che rimane allo studente, però, è l’attacco frontale al campo considerato nemico, all’interno di un testo che, formalmente, chiedeva di discutere d’altro.
Passiamo alla traccia “socio-economica”, intitolata Stato, mercato e democrazia. Qua la presa di posizione è addirittura più evidente. Infatti, tutti i riferimenti e le fonti sulle quali lo studente avrebbe dovuto farsi un’opinione e argomentare la traccia prendevano inevitabilmente la difesa non solo dell’attuale sistema economico in quanto inderogabile, ma tutte le riflessioni proposte dichiaravano l’inevitabilità della corrispondenza fra Stato, mercato e democrazia. La democrazia, cioè, è la necessaria appendice politica del sistema di mercato, e questo è garantito dall’organizzazione statuale.
“In una democrazia il governo (o la banca centrale) non può semplicemente permettere che le persone soffrano un danno collaterale per lasciare che la dura logica del mercato si esprima. […] Dobbiamo anche riconoscere che una buona economia non può essere separata da una buona politica” Raghuram G. RAJAN Terremoti finanziari, Einaudi, Torino 2012
“la (pessima) gestione della crisi economica ha mandato in fumo i programmi finalizzati a garantire il futuro.” Paul KRUGMAN Fuori da questa crisi, adesso!,Garzanti, Milano 2012
“Fortunatamente gli Stati Uniti possiedono nel loro DNA i geni per intraprendere una riforma. Diversamente da molti altri Paesi, gli americani condividono una grande fiducia nel potere della concorrenza che […] genera enormi benefici.”Luigi ZINGALES Manifesto capitalista. Una rivoluzione liberale contro un’economia corrotta Rizzoli, Milano 2012
“Ora, se è vera e convincente l’analisi della dittatura finanziaria nell’epoca delle traversie che tendono ad allargarsi a tutti i continenti, come non cercarne le radici, anche ideologiche, nel fallimento precedente? In particolare nel crollo dell’illusione fondante del sistema socialista di regolare l’offerta, la domanda e il livello dei prezzi attraverso la pianificazione quinquennale totalitaria. Una idea che pervase la pratica e la teoria dei partiti che al socialismo si rifacevano e il cui dissolversi si contaminò nel magma della globalizzazione, attraverso la libera circolazione degli uomini e dei capitali e della unificazione in tempo reale dei sistemi internazionali attraverso la mondializzazione e l’informatica.” Mario PIRANIIl nuovo capitale, “la Repubblica” – 1° dicembre 2012
Le prese di posizioni subdole della traccia sono abbastanza evidenti. Infatti, le quattro riflessioni si ponevano apparentemente in contraddizione fra loro. Da una parte Rajan e Krugman mettevano l’accento sulle distorsioni del mercato e sulla necessità di una regolamentazione pubblica del regime di concorrenza e di libero scambio; dall’altra, Zingales (addirittura col suo “Manifesto Capitalista”) e Pirani erano più tenacemente difensori del mercato quale luogo dove le contraddizioni si sarebbero potute risolvere autonomamente. Tutte e quattro non hanno però dubbi sulla necessità di un’economia di libero scambio quale sostanza sociale più efficace alla democrazia liberale (d’altronde, tutti e quattro gli autori sono pervicacemente difensori e ideologi dell’attuale sistema economico-sociale, nelle sue varie sfumature).
Anche qui, per poter svolgere concretamente la prova d’esame non si poteva assumere altra posizione che quella di dare ragione a una delle quattro posizioni. Solo che, subdolamente, le quattro posizioni in realtà costituivano una posizione sola, e cioè la difesa del libero mercato, della democrazia liberale e dello Stato quale garante del sistema sociale vigente. Potremmo dire che è effettivamente così, che libero mercato e democrazia liberale sono le due sponde su cui si sostanzia il sistema capitalista. Solo che nell’illustrare allo studente queste posizioni, gliele si presentano come divergenti e in concorrenza fra loro. Insomma, l’unica alternativa che si lascia immaginare allo studente è quella di una quota più o meno invasiva di economia liberale, d’altronde inevitabile.
Conclude la carrellata di possibilità in ambito storico-sociale la traccia sugli omicidi politici. In questa traccia il messaggio subliminale è maggiormente velato, ma non per questo assente. Infatti vengono messi assieme degli eventi storici assolutamente inconciliabili, improponibili – da Francesco Ferdinando a Matteotti, da Kennedy ad Aldo Moro – accomunati unicamente dal fatto di essersi risolti in degli omicidi di personalità politiche. Ribaltando cause ed effetti, viene posta la luce sull’evento in se piuttosto che sul determinato sviluppo storico che lo ha prodotto, con la conseguente conclusione (indotta) che l’atto politico di uccisione del politico sia sempre riferito ad un atto di terrorismo individuale, un caso patologico e/o psicologico, o al limite il prodotto delle degenerazioni di una dittatura, ma sempre slegato da un’ipotesi politica, o determinato dalle conseguenze delle concrete vicende politiche e sociali. Anche qui le letture ideali con il presente sono evidenti. Infatti è l’atto politico violento in quanto tale ad essere messo sotto accusa. All’interno di un quadro democratico liberale ogni discussione e ogni azione politica devono per forza di cose rientrare nella legalità e nelle istituzioni preposte al dibattimento dei vari problemi. La violenza è espunta dalla storia, e nel farlo si associa questa agli omicidi politici. Questi, a loro volta, vengono messi in un calderone indistinto, dove Matteotti sta a braccetto con Kennedy, Francesco Ferdinando con Aldo Moro, non distinguendo quegli omicidi frutto di processi storici conflittuali (Matteotti, Moro) a quelli che furono il mero frutto delle follia individuale, o al massimo di cospirazioni i