Giù le mani dalla Siria
C’è un primo risultato, oggettivo e indiscutibile, delle vicende degli ultimi giorni sul territorio siriano: la città di Aleppo, attuale scenario più avanzato del conflitto tra l’esercito di Assad e i miliziani definiti “ribelli” (meglio sarebbe dire “jihadisti”), è stata quasi totalmente evacuata dalla sua popolazione (si vedano i puntuali aggiornamenti sul sito di Contropiano). Migliaia e migliaia di persone costrette a fuggire, per non finire coinvolti negli scontri – come pure già accaduto a molti. Nell’orgia mediatica dell’informazione filo-imperialista, che mistifica i fatti, rovescia le situazioni, ignora le variabili e attribuisce a vanvera le responsabilità, le sofferenze della società civile causate dall’attuale guerra rimangono colpevolmente sullo sfondo, come fossero un inevitabile panorama. Anche di questo qualcuno dovrà risponderne, prima o poi.
A ben vedere, quello che accade ad Aleppo e dintorni è molto meno difficile da interpretare di quanto sembri. Noi ci abbiamo provato, insieme ad altri compagni/e da anni impegnati nella solidarietà alle popolazioni in lotta nel bacino orientale del Mediterraneo e nel Medio Oriente. Per questo motivo tutti insieme abbiamo sottoscritto un documento e insieme un impegno: quello di non far finire la questione siriana nel dimenticatoio e – meno che mai – di accettare che venga trastullata dal fiume mainstream. Il documento lo leggete qui sotto, i numerosi firmatari non li elenchiamo, perché l’elenco sarebbe comunque non aggiornato. Non elenchiamo, per quanto l’elenco sarebbe decisamente più breve, coloro che hanno evitato di firmare oppure – ebbene sì – chi ha prima firmato e poi ha fatto marcia indietro. In questo momento evitiamo polemiche, arriverà anche per questi “pacifinti” il tempo delle spiegazioni.
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Giù le mani dalla Siria
No alla guerra contro il popolo siriano
per adesioni: controleguerre@gmail.com
Un documento collettivo mette i piedi nel piatto sulla funzione di una coerente opposizione alla guerra, anche quella “umanitaria”.
La grave situazione in Siria pone i movimenti che in questi anni si sono battuti contro la guerra di fronte a nuovi e vecchi problemi, che producono lacerazioni, immobilismo e un vuoto di iniziativa.
Siamo attivi in reti, realtà politiche e movimenti che in questi anni – e anche in questi mesi – non hanno esitato a schierarsi contro l’escalation della guerra umanitaria con cui l’alleanza tra potenze della Nato e petromonarchie del Golfo sta cercando di ridisegnare la mappa del Medio Oriente.
a) Interessi convergenti e prospettive divergenti al momento convivono dentro questa alleanza tra le maggiori potenze della Nato e le potenze che governano “l’islam politico”. È difficile non vedere il nesso tra l’invasione/disgregazione della Libia, l’escalation in Siria, la repressione saudita in Bahrein e Yemen e i tentativi di normalizzazione delle rivolte arabe lì dove sono state più impetuose (Tunisia, Egitto). La dottrina del Dipartimento di Stato Usa (“Evolution but not Revolution”) aveva decretato quello che abbiamo sotto gli occhi come l’unico sbocco consentito della Primavera Araba. Da queste gravi responsabilità è impossibile tenere fuori le potenze dell’Unione Europea, in particolare Francia, Gran Bretagna e Italia, che hanno prima condiviso l’aggressione alla Libia, poi hanno mantenuto intatto il loro sostegno politico e militare a Israele ed oggi condividono la stessa politica di destabilizzazione per la Siria.
b) I movimenti che si oppongono alla guerra, in questi ultimi anni hanno dovuto fare i conti con diverse difficoltà. La prima è stata la rimozione della guerra dall’agenda politica dei movimenti e delle forze della sinistra o, peggio ancora, una complice inerzia verso le aggressioni militari come quella in Libia. Dalla “operazione di polizia internazionale in Iraq” del 1991 alla “guerra umanitaria in Jugoslavia” nel 1999 per finire con le “guerre per la democrazia” del XXI secolo, le guerre asimmetriche scatenate dai primi anni Novanta in poi dalle coalizioni di grandi potenze contro Paesi più deboli (Iraq, Somalia, Afghanistan, Jugoslavia, Costa d’Avorio, Libia) hanno sempre cercato una legittimazione morale che poco a poco sembra essere penetrata anche nella elaborazione e nel posizionamento di settori dei movimenti pacifisti e contro la guerra. I sostenitori della “guerra umanitaria” statunitensi (ma non solo) stanno cercando di definire una cornice legale agli interventi militari attraverso la dottrina del “Right to Protect” (R2P). Gli obiettivi di queste guerre sono stati sempre presentati come la inevitabile rimozione di capi di Stato o di governi relativamente isolati o addirittura resi invisi alla cosiddetta “comunità internazionale”, sia per loro responsabilità che per le martellanti campagne di demonizzazione mediatiche e diplomatiche.
c) Saddam Hussein, Aydid, Milosevic, il mullah Omar, Gbagbo, Gheddafi e adesso Assad sono stati al centro di una vasta operazione di cambiamento di regime che è passata attraverso gli embarghi, i bombardamenti e le invasioni militari da parte delle maggiori potenze della Nato e dei loro alleati regionali; operazioni su vasta scala che hanno disgregato Paesi immensamente più deboli, perseguendo la “stabilità” degli interessi occidentali attraverso la destabilizzazione violenta di governi o regimi dissonanti. A prescindere dalle maggiori o minori responsabilità di questi leader verso il benessere e la democrazia dei loro popoli, le potenze imperialiste hanno agito sistematicamente per la loro rimozione violenta attraverso aggressioni militari e imposizione al potere di nuovi gruppi dirigenti subordinati agli interessi occidentali.
d) Seppure negli anni precedenti la consapevolezza che la divisione tra “buoni e cattivi” non sia mai stata una categoria limpida e definita – anzi è servita a occultare le vere motivazioni delle guerre – nel nostro Paese ci sono stati movimenti di protesta che si sono opposti alla guerra prescindendo dai soggetti in campo e che si sono posizionati sulla base di una priorità: quel “no alla guerra senza se e senza ma” che in alcuni momenti ha saputo essere un elemento di identità e mobilitazione straordinario. Sembra però che la coerenza con questa impostazione si stia sempre più affievolendo e in alcuni casi ribaltando. La macchina del consenso alle guerre ha visto infatti crescere gli elementi di trasversalità. Prima erano solo personalità della destra a sostenere gli interventi militari, adesso vi si arruolano anche uomini e donne della sinistra. Questa difficoltà era già emersa nel caso dell’aggressione militare alla Libia e oggi si rivela ancora più lacerante rispetto alla possibile escalation in Siria.
e) Le iniziative contro la guerra che ci sono state in questi mesi, seppur minoritarie, sono riuscite a ostacolare l’arruolamento attivo di alcuni settori pacifisti nella logica della guerra umanitaria, hanno creato una polarizzazione che in qualche modo ha esercitato un punto di tenuta di fronte alla capitolazione politico-culturale del pacifismo e dell’internazionalismo. Ma la realtà sta incalzando tutte e tutti, ragione per cui è necessario affrontare una discussione nel merito dei problemi che la crisi in Siria ci porrà davanti nei prossimi mesi.
Nel merito della situazione in Siria
In tutte le guerre asimmetriche – che di fatto sono aggressioni unilaterali – le potenze occidentali hanno sempre lavorato per acutizzare le contraddizioni e i contrasti esistenti nei Paesi aggrediti. La questione semmai è che l’ingerenza esterna da parte delle potenze della Nato e dei loro alleati ha agito sistematicamente per una deflagrazione violenta dei contrasti interni che consentisse poi l’intervento militare e servisse a legittimare la “guerra umanitaria”. La guerra mediatica ha bisogno sempre di sangue, orrori, cadaveri, stragi da gettare nella mischia e negli occhi dell’opinione pubblica. Di solito le notizie su tutto ciò vengono martellate nei primi venti giorni. Smentirle o dimostrarne la falsità, come pure la maggiore o minore manipolazione, diventa poi difficile se non impossibile. Ciò significa che tutto viene inventato o manipolato? No.
Ma un conflitto interno senza ingerenze esterne può trovare una soluzione negoziata, se le ingerenze esterne lavorano sistematicamente per impedirla si arriva sempre prima ai massacri e poi all’intervento militare “stabilizzatore”. Chiediamoci perché tutti i piani e gli accordi di pace in questi venti anni siano stati fatti fallire (ultimo in ordine di tempo quello di Kofi Annan sulla Siria). Il loro fallimento è funzionale al fatto che l’unico negoziato accettabile per le potenze occidentali è solo quello che prevede la resa o l’uscita di scena – anche violenta – della componente dissonante. Questo è quanto accaduto ed è facilmente verificabile da tutti.
Le soluzioni avanzate dalle sedi della concertazione internazionale (Consiglio di Sicurezza dell’Onu, organizzazioni regionali come Unione Africana, Lega Araba e Alba) non state capaci di opporsi alle politiche di “cambiamento di regimi” decise dagli Usa o dall’Ue. I leader dei regimi o dei governi rimossi hanno cercato in più occasioni di arrivare a compromessi con gli Usa o la Nato. Per un verso è stata la loro perdizione, per un altro era una strada sbarrata già dall’inizio. Più cercavano un compromesso e maggiori diventavano le sanzioni adottate negli embarghi. Più si concretizzavano le condizioni per una ricomposizione dei contrasti interni e più esplodevano autobombe od omicidi mirati che riaprivano il conflitto. Se l’unica soluzione proposta diventa il suicidio politico o materiale di un leader o lo sgretolamento degli Stati, qualsiasi negoziato diventa irrilevante.
Dalla storia della Siria non sono rimovibili le modalità autoritarie con cui in varie tappe è stata affrontata la domanda di cambiamento di una parte della popolazione siriana. Non è possibile ritenere che la leadership siriana sia l’unica a aver gestito in modo autoritario le contraddizioni e le aspettative nel mondo arabo. Questa caratteristica è comune a tutti i Paesi del Medio Oriente ed è una conseguenza dell’imposizione dello Stato di Israele nella regione e un retaggio del colonialismo. Ciò non giustifica la leadership siriana, ma ci indica anche chiaramente come la sua sostituzione non corrisponderebbe affatto ad un avanzamento democratico o rivoluzionario per il popolo siriano. È sufficiente guardare quale tipo di leadership si è impossessata del potere una volta cacciati Mubarak in Egitto, Ben Alì in Tunisia, Gheddafi in Libia o chi sta imponendo il tallone di ferro su Bahrein, Yemen, Oman. Sono Paesi in cui esistono attivisti che hanno lottato seriamente per maggiore democrazia e diritti sociali più avanzati, ma chi ne sta gestendo le aspettative sono le potenze della Nato, le petromonarchie del Golfo e le componenti più reazionarie dell’islam politico. Le componenti progressiste della Primavera Araba sono state – al momento – isolate e sconfitte da questa alleanza tra potenze occidentali e varie correnti dell’islam politico.
Dentro la crisi in corso in Siria la leadership di Bashar El Assad ha conosciuto due fasi: una prima in cui ha prevalso la consuetudine autoritaria, una seconda in cui è cresciuto il peso politico delle forze che spingono verso la democratizzazione. I risultati delle ultime elezioni legislative non sono irrilevanti: ha votato il 59% della popolazione, nonostante la guerra civile in corso in diverse parti del Paese (in Francia, in condizioni completamente diverse, alle ultime elezioni ha votato il 53%; in Grecia nelle elezioni più importanti degli ultimi decenni ha votato il 62%); per la prima volta si è rotto il monopolio politico del partito di governo, il Baath, e nuove forze sono entrate in Parlamento indicando questa rottura come obiettivo pubblico e dichiarato. Si è creato cioè l’embrione di uno spazio politico reale per un processo di democratizzazione del Paese; le forze che si oppongono alla leadership di Assad vedono prevalere le componenti armate e settarie, un dato che si evidenzia nei massacri e attentati che vengono acriticamente e sistematicamente addossati alle truppe siriane, mentre più fonti rivelano che così non è. Le forze di opposizione con una visione progressista sono ridotte a ben poca cosa e non potranno che essere stritolate dall’escalation in corso; infine, ma non per importanza, l’ingerenza esterna è ciò che sta facendo la differenza. Non è più un mistero per nessuno che le forze principali dell’opposizione ad Assad siano sostenute, armate e finanziate dall’alleanza tra le potenze della Nato (Turchia inclusa) e i petromonarchi di Arabia Saudita e Qatar. È un’alleanza già sperimentata in passato sia in Afghanistan che nei Balcani e nel Caucaso, un’alleanza che si è rotta alla fine degli anni Novanta e si è poi ricomposta dopo il discorso di Obama al Cairo (che annunciava e auspicava gli sconvolgimenti nel mondo arabo). Queste forze e l’alleanza internazionale che le sostiene puntano apertamente a una guerra civile permanente e diffusa per destabilizzare la Siria. I corridoi umanitari a ridosso del confine con Turchia e Libano e la No-Fly zone saranno il primo passo per dotare di retrovie sicure i miliziani dell’Esercito Libero Siriano, spezzare i collegamenti tra la Siria e i suoi alleati in Libano (Hezbollah soprattutto), destabilizzare nuovamente il Libano e rompere il Fronte della Resistenza anti-israeliana. Se il logoramento e la destabilizzazione tramite la guerra civile permanente non dovesse dare i risultati desiderati, è prevedibile un aumento delle pressioni sulla Russia per arrivare ad un intervento militare diretto delle potenze riunite nella coalizione ad hoc dei “Friends of Syria” guidata dagli Usa, ma con molti volonterosi partecipanti come la Francia di Hollande o l’Italia di Monti e del ministro Terzi.
In questi anni, nelle mobilitazioni in Italia contro la guerra o per la Palestina abbiamo registrato ripetuti tentativi di gruppi e personaggi della vecchia e nuova destra di aderire e partecipare alle nostre manifestazioni. Un tentativo agevolato dall’abbassamento di molte difese immunitarie nella sinistra e nei movimenti sul piano dell’antifascismo, ma anche dalla voragine politica lasciata aperta dall’arruolamento di molta parte della sinistra dentro la logica eurocentrista, dalla subalternità all’atlantismo e dalla complicità – o al massimo dall’equidistanza – tra i diritti dei palestinesi e la politica di Israele. Se la sinistra e una parte dei movimenti hanno sgomberato le piazze dalla mobilitazione contro la guerra, dal sostegno alla resistenza palestinese e araba e hanno smarrito per strada la loro identità, è diventata molto più facile l’affermazione di alcuni gruppi marginali della destra e della loro chiave di lettura esclusivamente geopolitica ed eurasiatica della crisi, dei conflitti e delle relazioni sociali intesi come lotta tra potenze. I gruppi della destra veicolano un antiamericanismo erede della sconfitta subita dal nazifascismo nella II Guerra Mondiale e completamente avulso da ogni capacità di lettura dell’egemonia imperialista, sia nel suo versante statunitense che in quello europeo. Una chiave di lettura sciovinista e reazionaria che nulla ha a che vedere con una identità coerentemente anticapitalista e internazionalista.
Non solo. La paura di gran parte della sinistra di declinare la solidarietà con i palestinesi come antisionista e anticolonialista ha regalato a questa destra e alla sua declinazione razzista e antiebraica uno spazio di iniziativa, cultura e solidarietà che storicamente è sempre appartenuto alle forze progressiste. Se si cede su un punto decisivo si rischia di capitolare poi su tutto lo scenario mediorientale. Se questo è già visibile anche negli altri ambiti dell’agenda politica e sociale nel nostro Paese, è difficile immaginare che non avvenga anche sul piano della mobilitazione contro la guerra e sui problemi internazionali. Sulla Palestina e nella mobilitazione contro la guerra abbiamo sempre respinto ogni tentativo di connivenza con i gruppi della destra. Intendiamo continuare a farlo ma vogliamo anche segnalare che – come sul piano sociale o giovanile – è l’assenza di iniziative e la debole identità della sinistra a facilitare il compito ai fascisti, non viceversa. È necessario dunque che alla coerenza con le posizioni e il ruolo svolto dalle nostre reti, associazioni, organizzazioni in questi venti anni e che ha visto schierarci sempre contro la guerra senza se e senza ma si affianchi un recupero di identità e di contenuti.
f) La seconda difficoltà che abbiamo dovuto registrare è stata quella di una lettura superficiale del nesso tra la crisi che attanaglia le maggiori economie capitaliste del mondo (Stati Uniti e Unione Europea soprattutto) e il ricorso alla guerra come strumento naturale della concertazione e della competizione tra le varie potenze e i loro interessi strategici. Una concertazione evidente quando si tratta di attaccare e disgregare gli Stati deboli (Libia, Jugoslavia, Afghanistan), una competizione quando si tratta di capitalizzare a proprio favore i risultati delle aggressioni militari (Georgia, Iraq, Libia). Se il colonialismo classico è andato all’assalto del Sud del mondo per accaparrarsi le risorse, il neocolonialismo è andato a caccia di forza lavoro a basso costo. Ma dentro la crisi di sistema che attanaglia le maggiori economie capitaliste del mondo, queste due dimensioni oggi si sono ricomposte nella loro sintesi più alta e aggressiva. Alcuni di noi la definiscono come imperialismo, altri come mondializzazione, comunque la si chiami oggi si è riaperta una competizione a tutto campo per accaparrarsi il controllo di risorse, forza lavoro, mercati e flussi finanziari. Questa conquista ha come obiettivo soprattutto l’economia dei Paesi emergenti e quelli in via di sviluppo che molti ritengono poter essere l’unica via di uscita e valvola di sfogo per la crisi di civilizzazione capitalistica che sta indebolendo Stati Uniti e Unione Europea. In tale contesto, la guerra come strumento della politica e dell’economia è all’ordine del giorno. Se pensiamo di aver visto il massimo degli orrori in questi anni, rischiamo di doverci abituare a spettacoli ben peggiori. L’alleanza – non certo inedita – tra potenze occidentali, petromonarchie e movimenti islamici ha rimesso in discussione molti schemi, a conferma che il processo storico è in continua mutazione e che limitarsi a fotografare la realtà senza coglierne le tendenze è un errore che rischia di paralizzare l’analisi e l’azione politica.
I firmatari di questo documento declinano in modo diverso categorie come imperialismo, mondializzazione, militarismo, disarmo, antisionismo, anticapitalismo, pacifismo, solidarietà internazionale e internazionalismo, ma convergono su un denominatore comune sufficientemente chiaro nella lotta contro la guerra e le aggressioni militari.
Per queste ragioni condividiamo l’idea di promuovere:
Il percorso comune di riflessione che ha portato a questo documento.
La costituzione di un patto di emergenza per essere pronti a scendere in piazza se e quando ci sarà una escalation della Nato e dei suoi alleati contro la Siria al quale chiediamo a tutti di partecipare.
L’impegno ad un lavoro di informazione e controinformazione coordinato che contrasti colpo su colpo e con ogni mezzo a disposizione la manipolazione mediatica che spiana la strada a nuove “guerre umanitarie”, anche in Siria.