Consigli (o sconsigli) per gli acquisti
<.. L’agenzia deve diventare un centro di reclutamento di patrioti impegnati, quando necessario, a battersi allo scoperto. Esperti nell’uso delle armi, degli esplosivi, della propaganda. Va instaurata la controrivoluzione permanente. Con la parola, lo scritto, il fucile, il pugnale, la dinamite, come dice un ribelle russo. Bob ti senti pronto a questo?> disse Burns passando al tu.
<Si> rispose Bob, con voce tremolante.
<Voglio sentirti meglio. Ti senti pronto? A rischiare la pelle perché l’America sia salva dalla sovversione?>
Questa volta la voce uscì sicura. <Si>
Prima di Eddie Florio c’è stato dunque Robert Coates, e prima del bellissimo “Noi saremo tutto” è ambientato “One Big Union”, il nuovo superbo romanzo di Valerio Evangelisti. Con la sua ultima fatica editoriale lo scrittore bolognese ci porta negli States a cavallo tra la fine dell’800 e gli inizi del 900 per raccontarci in maniera vivida ed in presa diretta il sanguinoso conflitto tra classi che si combattè in quel periodo.
Bob accartocciò e spezzò il sigaro sottile. Fu un sacrificio da poco: fumava solo in occasioni particolari. In assenza di posacenere, mise i rimasugli intasca. <Chiedo scusa. Il fatto è che sono ancora sotto tensione. Non mi aspettavo una strage>.
<Strage? Non è la parola giusta. Classe contro classe, chi soccombe deve aspettarsi il peggio…>
Ancora una volta il punto di vista narrativo adottato da Evangelisti è quello del nemico, dell’infiltrato, del traditore della propria classe. Siamo nel 1861 e Robert William Coates, appena quattordicenne, viene arruolato dall’Agenzia Furlong dopo essersi distinto nella repressione di quella venne chiamata allora “la Comune di Saint Luis”. “Bob” inizia così un lungo viaggio di degradazione umana, morale, ma anche fisica, che lo porterà, tra crumiri e picchiatori prezzolati dai padroni, tra giornalisti asserviti e sceriffi complici, ad essere testimone e protagonista della repressione dei lavoratori e delle loro organizzazioni in ogni angolo del paese. Una spia al servizio delle diverse agenzie private, come la Pinkerton e la Burns (antesignana del FBI), utilizzate dal governo in chiave anti operaia.
Burns scoppiò in una risata. <Ma che dici? Ci penseranno altri a domare la canaglia. Puoi non crederci, ma abbiamo vinto. Leggi i giornali di domani e dei giorni successivi. Prima interveniamo noi, poi la stampa. Seguono i politici e i tribunali. Infine interviene l’esercito. Tutti assieme siamo la forza che regge il paese. Lo sapevi?>
<No>
< E’ perché hai un’idea vaga di cosa sia la democrazia… In sostanza una catena di interessi.>
Un percorso quello del protagonista che però, se letto in controluce, e qui sta uno dei tanti meriti di questo libro, è anche la cronaca delle condizioni di vita miserabili in cui era costretto il proletariato industriale statunitense nonché il racconto dell’alba della lotta di classe degli operai nel nordamerica. Una vera e propria epopea da noi quasi completamente misconosciuta e che invece per molti aspetti riveste una drammatica attualità, ma su questo torneremo dopo. Tra salti di tempo e di spazio Evangelisti accompagna quindi il lettore nelle officine ferroviarie di Saint Luis, lo fa assistere all’organizzazione dei primi scioperi congiunti tra macchinisti e operai semplici e alle assemblee segrete dei “Knights of Labor”, lo porta nelle acciaierie di Pittsburgh, nelle sezioni dell’American Federation of Labor, nelle fabbriche di Chicago, lo mette seduto in prima fila al congresso di formazione degli Industrial Workers of the World oppure in vagone merci tra gli hobos e gli wobblies in viaggio per sostenere qualche sciopero o qualche picchetto. Così facendo chi legge potrà conoscere le varie anime del movimento operaio statunitense, le lotte intestine che lo animarono e lo minarono dall’interno. Incontrerà, tra gli altri, James Connoly, Big Bill Haywood, Vincent Saint John, William Trautmann, Jack London e comprenderà il significato profondo di quello slogan che andrebbe stampato enorme di fronte ad ogni circolo, centro sociale o sezione: a injury to one is a injuri to all.
<Non c’è da farsi illusioni su una magistratura democratica> era il parere di Saint John. <Alcuni giudici cercano di agire con onestà, è vero. La maggior parte di loro, però, appartiene alla classe che ci opprime. Sono pappa e ciccia con il padronato, con la classe politica corrotta, con i sindacalisti venduti. Frequentano le stesse persone, vanno ai medesimi ricevimenti, scambiano opinioni in club privilegiati. Se dall’alto giunge l’ordine di schiacciarci, il novanta per cento dei magistrati ci si impegna. Hanno i mezzi e le risorse necessari. Noi no.>
<Dunque non c’è nulla da fare, per il proletariato?>
<Resistere con la forza che possiamo mettere in campo. Né i giudici né i politici, inclusa gente onesta come Debs, ci assicurano la salvezza. La classe subalterna deve agire in piene autonomia. Come se fosse una società entro la società>
Come anticipavamo, però, “One Big Union” non è solo il racconto di qualcosa che, per quanto epico, appartiene al passato, ma il tentativo di adoperare la “forma romanzo” per una riflessione che abbraccia il presente e, soprattutto, il futuro. Almeno così l’abbiamo inteso noi. Fatte le dovute tare del caso la condizione operaia narrata nel libro è di un’attualità inquietante. Masse di subalterni ciclicamente espulsi o riassorbiti dal capitale in funzione del ciclo economico, senza più alcuna garanzia, senza alcuna prospettiva concreta di veder migliorata la propria esistenza e continuamente messi in competizione con altri disperati. Proletari che vagano nomadi da un’occupazione all’altra, dequalificata, insicura e sempre sul punto di essere ricacciati nell’economia “informale”. La condizione del lavoratore migrante che un tempo pensavamo limitata “ai lavori che gli italiani non vogliono più fare” e che oggi diviene il paradigma per milioni di precari anche nella metropoli capitalista. Un futuro, insomma, che assomiglierà sempre di più alla Manchester di Engels, o alla Chicago di Evangelisti, piuttosto che all’occidente che eravamo abituati a conoscere. Ci pare di comprendere che per l’autore, se questa è la prospettiva che ci si staglia davanti, l’esperienza degli IWW possa tornare utile nel tentativo di comprendere come ricomporre, oltre ogni differenza, quello che il capitale continuamente disgrega tornando ad essere classe politica (per se) e non solo classe sociologica (in se). In fin dei conti è proprio questo il nodo che da decenni non riusciamo a dirimere.
<Il padrone peggiore è quello che si dice vostro amico. Che parla di comune interessa, di crescita collettiva, di collaborazione per il bene nazionale. E’ la fandonia più spudorata della storia. “un beneficio per l’industria è un beneficio per tutti”. Balla madornale. Se udite qualcuno dire questo, prendetelo per ciò che è: un dannato bugiardo…>