Ciao Eric!
«I liberalismi politico ed economico, da soli o in combinazione, non possono fornire la soluzione ai problemi del XXI secolo. È ora di prendere di nuovo Marx sul serio»: così Eric J. Hobsbawm concludeva, nel 2011, la sua raccolta di saggi sullo sviluppo e l’impatto del pensiero di Marx, intitolata significativamente Come cambiare il mondo. Perché riscoprire l’eredità del marxismo.
Storico marxista, fine studioso e grande estimatore di Gramsci (vedi), iscritto al piccolo Partito comunista britannico fino al 1989, Hobsbawm è stato sicuramente uno dei più grandi intellettuali del Novecento. Ed è per questo che la sua morte, avvenuta nelle prime ore di lunedì, è una di quelle che pesano non solo nel campo della storiografia – dove il suo contributo allo studio della storia delle classe subalterne, del lavoro, delle economie pre-industriali, del nazionalismo e delle tradizioni nazionali e le sue grandi sintesi di storia mondiale posero le basi per le principali interpretazioni dell’età contemporanea – ma anche in quello della riflessione politica sulle dinamiche economiche e sociali più attuali. Instancabile pensatore, a novant’anni suonati Hobsbawm continuava, infatti, a studiare e a spiegare con straordinaria chiarezza espositiva le tendenze mondiali successive al 1989-91:
Il modello di socialismo di tipo sovietico, l’unico tentativo finora di costruire un’economia socialista, non esiste più. D’altra parte si è avuto un enorme e accelerato progresso nell’ambito della globalizzazione e della pura e semplice capacità di generare ricchezza degli esseri umani. Questo ha ridotto il potere e la portata dell’azione sociale ed economica degli Stati-nazione, e dunque delle politiche classiche dei movimenti socialdemocratici, che consistevano innanzitutto nell’esercitare pressioni sui governi nazionali affinché venissero introdotte alcune riforme. Data la rilevanza assunta dall’integralismo del mercato, tale progresso ha inoltre generato un’estrema diseguaglianza economica all’interno dei Paesi e tra le regioni, e ha riportato l’«elemento catastrofe» nel ritmo ciclico basilare dell’economia capitalistica, inclusa quella che è diventata la crisi globale più seria degli anni Trenta del Novecento. [Come cambiare il mondo, p. 19]
Si tratta, ovviamente, di riflessioni che potrebbero suonare quasi scontate alle orecchie di un militante, ma che lo sono molto meno in quell’ambiente accademico dove Hobsbawm – per quanto inizialmente osteggiato a causa degli ideali comunisti che professava – era unanimemente ammirato e rispettato. Un ambiente accademico che, in Italia e non solo, si fa spesso cassa di risonanza della “necessità dei sacrifici” e del “ce lo chiedono i mercati”.
Il senso critico e la passione storiografica di Hobsbawm erano il frutto tanto delle sue straordinarie capacità di studioso quanto, soprattutto, della sua militanza comunista, che ebbe un riflesso piuttosto evidente nei suoi interessi di ricerca: sulla scia di Gramsci, infatti, egli era convinto che ogni sforzo per trasformare il mondo fosse vano se non accompagnato da una riflessione storiografica originale. Da queste considerazioni derivò il suo sforzo per farsi leggere e apprezzare anche da un pubblico non specialista.
Se è conosciuto tra il grande pubblico soprattutto per le sue grandi opere di sintesi – la quadrilogia che copre la storia del mondo nel periodo compreso tra il 1789 e il 1989-91 (L’età della rivoluzione, 1789-1848, 1962; Il trionfo della borghesia, 1848-1875, 1975; L’età degli imperi, 1875-1914, 1987; Il secolo breve, 1914-1991, 1994) –, i suoi interessi riguardavano soprattutto lo studio delle classi subalterne e della «gente (non) comune», cioè di quanti raramente trovano spazio nei libri che raccontano la storia come un insieme di eventi e di azioni di uomini illustri, di battaglie e di firme di trattati, di invenzioni eccezionali e di discendenze nobiliari.
Vero e proprio pioniere della storia sociale, Hobsbawm, infatti, fin dalla fine degli anni ‘50 si era distinto nello studio della storia del lavoro e delle economie pre-industriali, per passare in seguito prima all’analisi delle forme pre-industriali di rivolta sociale (I ribelli. Forme primitive di rivolta sociale, 1959; I banditi. Il banditismo sociale nell’età moderna, 1969) e, poi, a uno studio più approfondito sulle figure dei rivoluzionari (I rivoluzionari, 1973). A questo accompagnò una vivace curiosità per la vita culturale – e in primis per le tendenze musicali –, come dimostra la sua Storia sociale del jazz (1989) e i numerosi intermezzi culturali presenti nelle sue ricerche.
Una grande sintesi di questi interessi “onnivori” di Hobsbawm è costituita certamente dalla raccolta intitolata Gente non comune (in inglese, Uncommon people. Resistance, rebellion and Jazz, 1998), nella cui introduzione spiegò:
Questo libro è quasi interamente dedicato al tipo di persone i cui nomi sono di solito ignoti a tutti, se non a familiari e a vicini, nonché, nelle moderne organizzazioni statali, agli uffici che registrano nascite, matrimoni e decessi. […] Questi uomini e queste donne formano gran parte della specie umana. Le discussioni degli storici sull’importanza degli individui e delle loro decisioni non li preoccupano. L’espunzione delle loro biografie dall’esposizione dei fatti non lascerebbe traccia sul piano narrativo della macrostoria. Tuttavia, la tesi del mio libro non è solo che le biografie in questioni meritino di essere salvate dall’oblio e da quella che E.P. Thompson ha chiamato, con parole diventate famose, «l’enorme alterigia della posterità». […] Ma il punto che più mi sta a cuore è che collettivamente, se non come singoli, quegli uomini e quelle donne sono stati protagonisti della nostra storia. Quello che hanno pensato e fatto è tutt’altro che trascurabile: era in grado di influire, e ha influito, sulla cultura e sugli avvenimenti, e questo non è mai stato così vero come nel XX secolo. Perciò ho voluto intitolare quest’antologia sulle persone ordinarie, quelle che si è soliti chiamare «persone comuni». Gente non comune. [Gente non comune, pp. 7-8]
Coerente fino all’ultimo, Hobsbawm non rifiutò mai gli ideali comunisti che aveva professato per tutta la sua vita, rifiutando di cedere a quanti gli chiedevano scuse e abiure per la sua militanza nel partito comunista britannico anche dopo i fatti di Ungheria del 1956 e, addirittura, fino al 1989. Con la sua morte perdiamo uno dei più grandi intellettuali marxisti, un compagno, uno storico brillante: un vero e proprio punto di riferimento culturale, per specialisti e non. Ciao Eric!