Note a margine sul Benigni ultima versione
Lo spettacolo di Benigni andato in onda lunedì scorso è solo l’ultimo di una lunga serie inaugurata dal comico qualche anno fa. Il nuovo Benigni, abbandonando Dante e gli sberleffi a Berlusconi, si è riproposto come comico nazional popolare, magnificatore dell’unità d’Italia, del sano patriottismo democratico, del tricolore, dell’inno di Mameli e delle istituzioni dello Stato repubblicano. Un cambiamento di prospettiva alquanto decisivo, soprattutto perché, per esclusivo interesse politico contingente – nel concreto la polemica annosa contro il cosiddetto “forzaleghismo” – sta contribuendo a sdoganare dei temi e delle retoriche assolutamente pericolose, da maneggiare con estrema cura e con grande perizia. Tutte cose che il comico toscano non fa nei suoi spettacoli. Da tre anni il Nostro ha preso ad esaltare il sano nazionalismo popolare, contrapponendolo alle retoriche centrifughe della Lega e del berlusconismo antistatale. Così facendo, però, per una sterile polemica politica attuale, è riuscito a (ri)sdoganare a sinistra il nazionalismo italiano e la coscienza patriottica. Oggi come oggi, il frame più abusato è che le forze coscientemente nazionaliste e attaccate ai valori dello Stato sono quelle di (centro)sinistra, contrapposte a una destra antistatale e antipatriottica. Se questo restasse esclusivamente nel campo della polemica politica di palazzo, ce ne faremmo una ragione. Il problema è che grandi fasce popolari si sono fatte conquistare da questa retorica, tanto che oggi mettere un tricolore alla finestra, esporlo alle manifestazioni e in altro modo è divenuto un simbolo politico da ostentare, ma ostentandolo da sinistra contro le forze politiche di destra.
Vivessimo in un qualche paese del Sudamerica o dell’Africa, in perenne e secolare lotta contro l’imperialismo statunitense, la vulgata patriottica potrebbe anche servire come aggregatore ideale della sinistra (come infatti avviene in quei paesi), contrapponendo la liberazione sociale della “patria” dai vincoli posti dal capitale imperialista. Il problema, però, è che noi viviamo in un paese che dalla sua unità (1861) si è sempre contraddistinto come paese colonialista prima; inserito in un contesto anticomunista NATO dopo; e infine, liberato dalle maglie della guerra fredda, nuovamente paese imperialista, per quanto scalcinato e senza pretese. Insomma, per noi il concetto di patria significa guerre coloniali e d’aggressione, multinazionali feroci in giro per il terzo mondo, genocidi e povertà per tutta una parte di mondo che vede nell’Italia non una repubblica da liberare dall’imperialismo, ma pedina importante di quello scacchiere che continua a sfruttare e massacrare popolazioni.
Liberare e giustificare gli istinti nazionalisti italiani (oltretutto “da sinistra”) significa reiterare il concetto di “italiani brava gente”, di popolo buono e lavoratore che porta la civiltà nel mondo, che costruisce scuole e ospedali mentre gli altri, i cattivi, bombardano. Insomma, riproporre un frame che per decenni gli storici hanno cercato di combattere a suon di ricerche, di analisi, di interventi, per spiegare che il nostro nazionalismo non ha prodotto niente di diverso rispetto a quello delle altre potenze europee e nordamericane.
Questo tentativo di riabilitare certo tipo di nazionalismo (tentativo riuscitissimo: bastano due battute di Benigni in prima serata per vanificare anni e anni di lavori storici sconosciuti alla maggior parte della popolazione), si serve di tutti quegli espedienti e quei feticci per anni monopolio della destra, relegata giustamente a ruolo marginale di difesa di una presunta “italianità”. L’esegesi dell’inno d’Italia come grande inno patriottico; l’esaltazione del periodo risorgimentale quale tentativo rivoluzionario e popolare di fare l’Italia unita; la difesa delle istituzioni repubblicane, Parlamento e Presidente della Repubblica in primis. Infine, feticcio fra i feticci, l’elogio del tricolore, vera beffa verso chi per anni ha cercato di spiegare come non dovessero essere le bandiere nazionali a distinguere la gente, ma le condizioni di classe al di là delle appartenenze etniche.
Questa lettura ci sembra però abbastanza scontata. Qualsiasi compagno ha già ben chiara la situazione: al di là della bravura o meno del comico, la sua “veste” politica sta producendo danni alla cultura politica del paese come pochi altri. Danni che poi si riversano tutti contro chi fa politica nelle strade, e che si rende benissimo conto cosa significhi nel concreto l’esaltazione di pretestuosi valori nazionali(sti).
C’è però un altro frame, ci sembra passato inosservato, che invece diventa centrale e portante di tutto il discorso. Un concetto che Benigni continua a riproporre, intelligentemente dal suo punto di vista, senza che trovi da qualche parte risposta. Ed è la narrazione edificante della violenza politica e del concetto di legalità. Per anni, almeno dalla caduta del muro di Berlino, tutte le forze politiche, di ogni schieramento, hanno posto la pregiudiziale della violenza e della legalità come muro invalicabile del fare politica. Al di là delle posizioni espresse, ogni competitore politico ha il dovere, l’obbligo, di condannare qualsiasi forma di violenza politica e agire secondo la legalità, cartina tornasole dell’onestà del politico (politico inteso come concetto). Benigni, in prima fila, si è sempre espresso contro ogni dittatura, equiparando fascismo e comunismo non tanto (o non solo) nel merito, ma perché nel metodo fossero organizzazioni violente. La retorica contro la violenza è stata anche lo strumento politico-morale con cui si sono liquidate le lotte di classe del ventennio 1960-1980 come problema di legalità. La lotta contro la violenza politica è il vero cardine bipartisan che accomuna centrodestra e centrosinistra. Lo scopriamo in ogni manifestazione di piazza, in ogni lotta di classe che vada al di là della mera testimonianza. Il frame distorto dei buoni e dei cattivi, della protesta pacifica e dei violenti, è sempre il primo che si attiva in ogni caso come questo.
Bene, a fronte di tutto ciò, Benigni sono ormai più di tre anni che in ogni suo spettacolo esalta invece le azioni dei patrioti risorgimentali, dei carbonari, dei mazziniani, di tutti coloro insomma che lottarono armi alla mano contro l’invasore straniero, reo di impedire l’unità dello Stato. Quelli che Benigni definisce eroi popolari, additati da ogni potenza occidentale come “terroristi” ante litteram, altro non furono che militanti politici che usarono la violenza come strumento per spostare i rapporti di forza a loro vantaggio. Non ebbero nient’altro che il ruolo d’avanguardia, oltretutto senza alcuna massa alle spalle, di un’azione politica. Esattamente ciò che si condanna ai militanti politici degli anni settanta e dei giorni nostri, accusati di violenza e illegalità al primo insulto alle forze dell’ordine, e per questo esclusi dal panorama politico consentito.
Non abbiamo notato però alzate di scudi, perplessità, rimostranze, verso questa esaltazione della violenza politica risorgimentale. Come possibile? E’ qui che cade tutto l’artificio retorico di Benigni, che poi è il medesimo artificio comune alla retorica centrodestra e centrosinistra: se la violenza politica è usata in chiave nazionalista, come strumento per portare avanti ideali patriottici e funzionali al potere politico, allora va bene e necessita di una giustificazione ideologica da parte dell’intellettualità militante. Se questa violenza invece serve come strumento per portare avanti le lotte di classe, la liberazione sociale, la battaglia politica dei lavoratori, ecco che tutti i finti amici del popolo ritornano all’ovile della loro appartenenza di classe, e si difendono ideologicamente scagliando contro le lotte sociali la pregiudiziale della legalità costituzionale e della lotta contro la violenza come paradigma entro il quale esercitare l’azione politica.
Quando in futuro vedremo l’ennesimo spettacolo nazional popolare di Benigni, o di chi per lui, pensiamo prima di tutto ai danni culturali che derivano dai messaggi politici indiretti che vengono lanciati, prima di ridere alle battute di un grande comico. Perché ogni risata equivale ad anni di arretramento politico che subiremo sulla nostra pelle.