Giulia Bausano ed Emilio Quadrelli: Al voto, al voto! Ieri in Sicilia, domani…
Ancora si dibatte sulle elezioni in Sicilia, su Beppe Grillo che spaventa l’intero arco costituzionale neanche fosse Alarico, il re dei visigoti, su Crocetta che rappresenta il vecchio vestito di nuovo, sull’astensione della mafia… Le elezioni siciliane, al di là del dato specifico, hanno suggerito a Giulia Bausano ed Emilio Quadrelli alcune riflessioni, che condividiamo e proponiamo di seguito.
Crisi della politica, o politica della crisi? Il paradigma siciliano
“I partiti dei socialisti – rivoluzionari di destra e dei menscevichi conducono, in realtà,fuori dalle mura dell’Assemblea costituente la lotta più accanita contro il potere sovietico facendo appello apertamente,nei loro giornali, all’abbattimento di questo potere definendo arbitrario il legame tra repressione – da parte delle classi lavoratrici – della resistenza degli sfruttatori, repressione necessaria per liberarsi dallo sfruttamento, difendendo i sabotatori al servizio del capitale, giungendo fino all’appello diretto al terrore che “gruppi ignoti” hanno già cominciato ad applicare. È chiaro che in forza di ciò l’altra parte dell’Assemblea costituente avrebbe potuto soltanto avere la funzione di coprire la lotta dei controrivoluzionari per l’abbattimento del potere sovietico. Perciò il Comitato Esecutivo Centrale decide: l’Assemblea costituente è sciolta.” (Lenin, Decreto di arresto dei capi della guerra civile contro la rivoluzione)
La recente tornata elettorale in Sicilia è stata considerata, da tutte le aree politiche, un significativo banco di prova per l’intero panorama politico nazionale. Così è stato a tutti gli effetti. I risultati sono, solo in apparenza, sorprendenti.
La percentuale delle astensioni è stata di circa il 53% mentre, il numero di coloro che hanno dato il loro consenso ai partiti governativi si è attestato a 1.450.207 voti. Circa il 33% degli elettori. Un terzo della società. Ciò ha ben poco di regionale ma corrisponde esattamente, per intero, allo scenario nazionale. Nonostante, per la prima volta dal dopo guerra, una tornata elettorale abbia chiuso il bilancio in passivo, la cosa non ha suscitato troppo scalpore. Tutti i partiti di regime non si sono soffermati più di tanto sul fenomeno, preoccupati solo di mettere a punto, a partire dalle indicazioni siciliane, le strategie in vista delle prossime politiche. In poche parole ciò che in un’altra epoca avrebbe mandato in fibrillazione l’intero mondo politico, oggi, è tranquillamente metabolizzato. Bersani grida alla vittoria; Casini gli ricorda che solo l’alleanza con lui e i “moderati” può garantire il successo, mentre Berlusconi e il PDL sembrano preoccupati soltanto di trovare una via d’uscita dal tracollo in cui sono precipitati e a ritagliarsi un qualche ruolo nel prossimo esecutivo. I vari schieramenti “antisistema” si crogiolano nei loro, più o meno elevati successi, ma, al pari della troika di governo, non si mostrano particolarmente attenti al fenomeno astensione. Un fenomeno, intorno al quale occorre, invece, porre non poca attenzione anche perché, l’obiettiva crisi di rappresentanza mostrata dalle elezioni siciliane, è ben lungi dall’essere il semplice specchio di una crisi del sistema politico bensì il risultato di una trasformazione radicale delle nostre società.
Per comprenderlo poniamo per ipotesi che, un dato simile, fosse uscito dalle urne del 1978. Indubbiamente le reazioni del mondo politico sarebbero state di ben altro tenore e la scollatura tra mondo della politica e paese reale osservata con occhi ben diversi. Nessuno, dotato di un minimo di buon senso, avrebbe potuto tirare dritto o addirittura cantare vittoria. Il problema, assolutamente reale, di una complessiva riconquista del consenso in gran parte degli ambiti sociali sfuggiti al sistema della rappresentanza sarebbe stato l’obiettivo strategico di tutte le forze politiche. Perché? Perché in quel contesto era impensabile pensare di poter governare avendo dalla propria parte soltanto un terzo della società. Le retoriche dell’epoca, intorno alla società dei due terzi, avevano pur un qualche grano di verità. Con ogni probabilità, soprattutto in virtù della presenza di organizzazioni comuniste rivoluzionarie saldamente radicate e attive nel Paese, l’astensione sarebbe stata letta come possibile spostamento di masse rilevanti di popolazione verso ipotesi e indicazioni politiche decisamente antagoniste al sistema rappresentativo della democrazia imperialista. Un risultato elettorale simile, dal sistema politico legittimo di allora, più che un campanello d’allarme sarebbe stato percepito come una vera e propria campana a morto. Certo, con ogni probabilità, l’astensionismo di massa, in quel contesto, si sarebbe sommato ad altrettante mobilitazioni e insorgenze di massa delineando una situazione in cui, i più, mostravano di non essere più disposti a essere governati da quella classe politica. Un dato astensionista di quel tipo sarebbe stato percepito come delegittimazione politica di massa, con tutte le conseguenze del caso.
Di tutto ciò, oggi, non vi è, almeno in apparenza, traccia.
Il risultato “siciliano”, pertanto, deve essere letto sotto un duplice profilo. Da un lato è possibile sicuramente registrare il distacco, o più realisticamente la nausea, della maggioranza delle masse nei confronti di quell’autentica stalla d’Augia che è il parlamentarismo imperialista, dall’altra, però, va sottolineata la modifica che, dentro la fase imperialista contemporanea, è venuta a maturare nel sistema della rappresentanza politica. Due lati della questione che vanno continuamente tenuti a mente poiché delineano esattamente il nodo di Gordio che il movimento comunista è chiamato oggi a recidere. Osservare unicamente la scollatura tra masse e istituzioni politiche potrebbe portare a una sopravalutazione del fenomeno, tanto da ipotizzare persino il delinearsi di una situazione pre–insurrezionale, mentre osservare unicamente la ridefinizione dei modelli del potere imperialista significherebbe ignorare l’esperienza che, spontaneamente, le masse hanno fatto e, in conseguenza di ciò, le indicazione che la soggettività politica deve ricavarne per una prassi cosciente all’altezza dei tempi. Si tratta, quindi, di cogliere la dialettica propria del fenomeno e non appiattirsi su uno dei due poli.
Centrale, pertanto, diventa capire che cosa vi è alla base della frattura della quale, la tornata elettorale siciliana, è stata eccellente esemplificazione. Il dato più ovvio è il definitivo venir meno dei partiti – massa. Una tendenza che non nasce da oggi ma che, di fatto, ha preso corpo e sostanza immediatamente dopo l’89. Ma cosa significa il venir meno di questo contenitore? Su quali basi strutturali si consuma la sua messa in mora? Quale tipo di società prefigura l’estinguersi dei partiti – massa? Nonostante le molteplici sfaccettature che un simile passaggio comporta, andando al sodo, una pare decisiva e fondamentale: l’eclisse delle relazioni industriali tenute a battesimo nel corso del Novecento e in particolar modo dello scenario venutosi a delineare nel secondo dopo guerra. Uno scenario di cui, il nostro Paese, è stato per molti versi l’elemento paradigmatico. La presenza permanente dello spettro proletario e comunista ha obbligato le classi dominanti a tenere sempre bene a mente gli umori delle masse e ad agire al fine di arginarne le sempre possibili derive rivoluzionarie. Veicolo centrale di tale passaggio, la cui repentina accelerazione è avvenuta in seguito al formidabile ciclo di lotte operaie e proletarie degli anni Sessanta e Settanta, è stato la costituzionalizzazione del lavoro operaio e subalterno insieme alla concessione di un numero non irrilevante di diritti sociali. Sulla legittimazione politica e sulle conseguenti garanzie sociali per quote importanti di masse subalterne si reggeva il sistema dei partiti – massa. Questo sistema, palesemente, è naufragato. Ma che cosa lo ha fatto implodere? Ancora una volta occorre andare a cercare nella sfera della produzione gli arcani della politica.
La fine dei partiti di massa ha conciso esattamente con il venir meno di un determinato modello lavorativo e, con questo, di quella tipologia di rappresentanza politica che finiva con l’inglobare gran parte degli ambiti sociali. La società dei due terzi si fondava sui partiti – massa e tutto ciò che questi si portavano appresso. Ma se muta radicalmente il modello delle relazioni industriali inevitabilmente non può che crollare l’intero sistema politico che, di queste, ne era al contempo specchio e garanzia. La modellistica lavorativa contemporanea ha reciso alla radice l’insieme di certezze che le lotte operaie e proletarie novecentesche avevano tenuto a battesimo. Dobbiamo realisticamente riconoscere che, oggi, non vi è nulla di conquistato e registrato. La cornice entro la quale la lotta di classe si manifesta ha ben poco da attingere dalla storia che l’ha preceduta. Per le masse, quel modello di rappresentanza politica che ha a lungo dettato, almeno in parte, i tempi della politica si mostra del tutto inappetibile. Quel mondo, il mondo della politica, o almeno il mondo della politica istituzionale non può che avere un vero interesse solo per quei blocchi sociali direttamente legati agli interessi imperialisti. Di ciò, del resto, ne sono testimoni non vergognosi gli stessi uomini leader dei partiti imperialisti. La stessa democrazia imperialista ha cambiato pelle. La governance è data e garantita da un ristretto numero di consorterie, in stretto legame con gli organismi politici, economici e militari sovranazionali, insieme alle loro ristrette clientele. L’unica dialettica ammissibile in tale scenario è data, dalle frizioni momentanee che, volta per volta, possono porre in disaccordo le sopra ricordate clientele. Si tratta, però, di frizioni che non incidono in alcun modo sugli assetti strategici del blocco imperialista egemone il quale, al contrario, sulle scelte di fondo sfiora ampiamente il monolitismo. In tale ottica che una corporazione entri momentaneamente in conflitto con un’altra, è del tutto inessenziale. Per tutti, questo il dato certo ed essenziale, la strategia di esclusione politica e sociale dei subalterni è un dogma più certo del Vangelo.
Rimane infine, tornando allo specifico delle elezioni siciliane, la constatazione di come la crisi sia più forte della stessa criminalità organizzata. A quanto pare, la Mafia e la sua presa sui territori, è direttamente proporzionale alla delegittimazione dei partiti politici. Ciò non deve stupire poiché, quel modello criminale, era del tutto interno a un determinato ciclo politico ed economico imperialista. Non ne rappresentava, diversamente da quanto argomentato e sostenuto dalle anime belle della sinistra legalitaria, il cono d’ombra bensì la sua esatta e necessaria complementarietà. Con la crisi di quel modello imperialista non può che venir meno anche questa sua non secondaria forma di consenso. Anche per la Mafia, quindi, si pone il problema di ridefinire il suo operato cogliendo il passaggio dalla società dei due terzi alla società di un terzo. Non è difficile immaginare che,in uno scenario simile, la Mafia, da istituzione fondata sul consenso, si trasformi in appartato coercitivo finalizzata a eseguire i lavori sporchi indispensabili per l’attuale fase imperialista. Non è difficile, infatti, immaginare che l’organizzazione mafiosa venga utilizzata dall’attuale blocco imperialista come strumento e apparato di terrore nei confronti delle possibili insorgenze e insubordinazioni di massa. In fondo, per la Mafia, si tratterebbe di un “ritorno alle origini” all’epoca in cui, la sua principale funzione si riduceva a “braccio armato” dei grandi proprietari terrieri o, come durante il Ventennio, fornitrice di investigatori e sicari per l’Ovra fascista. Nonostante le retoriche di cui gli “uomini d’onore” amano ammantarsi, in loro a primeggiare è sempre uno spirito questurino. Ciò ha ben poco di localistico e/o folcloristico poiché, la presenza e l’utilizzo di forze direttamente attinte dalla criminalità organizzata, è un fenomeno presente sull’insieme del territorio nazionale. Il reclutamento dei crumiri, la gestione del caporalato, le rappresaglie squadristiche contro i lavoratori in lotta, le vicende delle cooperative milanesi ne sono, al contempo, conferma e avvisaglia, mostrano esattamente come, dentro la crisi e la ridefinizione complessiva degli assetti politici, economici e sociali le organizzazioni criminali giochino un ruolo di assoluta complementarietà. Non è così escluso che, il movimento di classe, si troverà ad affrontare “concretamente” questa modellistica di conflitto dove la criminalità organizzata si presenterà diretta gestrice della forza lavoro salariata. Un’esperienza che, da tempo, quest’ultima sta maturato nella gestione della forza lavoro immigrata.
Abbiamo così una ridefinizione degli assetti politici, che risultano sempre più fondati su un sostanziale principio di esclusione che, almeno come suggestione, riporta alla mente gli albori della società liberale e il suo principio di cittadinanza declinato sull’individuo proprietario avente come corrispettivo diretto quello del proletariato “senza volto”: servus non habet personam. La società legittima restringe abbondantemente i margini reali della rappresentanza mentre, la gran massa della popolazione, che in teoria di tale rappresentanza potrebbe usufruire, ne ha maturato la completa estraneità. Due mondi, tra loro incommensurabili, hanno così finito con il delinearsi. Qualunque cosa accada nel cielo della politica istituzionale, un po’ come nel vecchio dispotismo orientale, non ha ricadute di un qualche tipo per quella massa sempre più numerosa di proletari senza volto le cui condizioni di lavoro, il cielo della politica, ha rese eterne. Dentro tale contesto si pongono le sfide del presente per la soggettività comunista la quale, oggi, si trova esattamente tra due rive. Vediamole.
Da un lato osserviamo prendere corpo tutte le tentazioni che provengono dalle esperienze passate e che portano a ipotizzare la reiterazione di logiche, formule e retoriche del tutto interne alla composizione di classe figlia delle relazioni industriali novecentesche (in primis tutto l’armamentario del parlamentarismo). Su questo occorre urgentemente fare chiarezza. Facciamolo tenendo a mente Lenin e i suoi insegnamenti. È noto come Lenin abbia a lungo polemizzato, almeno sin dal 1906, contro gli antiparlamentaristi e come, la discussione intorno alla tattica parlamentare, abbia occupato un ruolo di primo piano dentro il secondo congresso dell’Internazionale comunista. Ma in quale contesto tutto ciò si colloca? Questo il punto. La tattica parlamentare – tattica e non strategia come invece diventerà per i partiti comunisti declinati in chiave socialdemocratica – da Lenin è non solo ammessa ma auspicata. Infatti Lenin considera il ruolo centrale che il parlamento ricopre e la lotta serrata che la borghesia conduce, da un lato per ridurre al minimo la presenza delle forze comuniste dentro il suo fortino istituzionale, dall’altro, e questo diventerà quanto mai evidente sin dal momento in cui l’autocrazia smetterà i panni dell’assolutismo, per catturare dentro il gioco parlamentare, cioè dentro i partiti borghesi che lo sostanziano, le masse che si sono messe in movimento. La Russia, contrariamente a quanto pensano i vari raggruppamenti piccolo borghesi è già un paese capitalista e borghese e, anche sotto il profilo della “questione sociale”, non può che ricalcarne le orme.
Dopo il 1905, il consenso non può più poggiare sulla semplice reiterazione dell’atavica osservanza delle gerarchie. Il 1905 ha infranto, una volta per sempre, le certezze e la solidità del regime zarista. Inoltre, aspetto per nulla secondario, le masse premono per partecipare attivamente alla vita politica e il parlamento e la partecipazione a questo ne è un aspetto. Al proposito è sempre bene ricordare che, sino al luglio del ’17, la parola d’ordine della Assemblea Costituente è ancora maggioritaria dentro i Soviet. Il parlamentarismo, quindi, per quanto in maniera contraddittoria è anche dentro l’orizzonte delle masse. Di ciò, Lenin, tiene costantemente conto. Non diversamente, anzi, vanno le cose se lo sguardo si sposta dalla Russia al mondo occidentale. Il parlamentarismo è fortemente dentro la pratica del movimento operaio e non è sufficiente certo un proclama o un tratto di penna per azzerarlo. Inoltre, proprio la “mobilitazione totale” a cui la guerra imperialista ha obbligato, impone alle stesse borghesie imperialiste di adottare nei confronti della classe operaia e del proletariato una politica anche politicamente e socialmente inclusiva. L’appoggio che tutta la borghesia imperialista offrirà ai partiti operai nazionali va esattamente in questa direzione ed è colto con non poca lucidità da Lenin negli scritti a ridosso del 4 agosto 1914. L’intera vicenda della socialdemocrazia tedesca, della Repubblica di Weimar e via dicendo ne sono esemplificazioni più che note.
Per quanto, a un primo e superficiale sguardo, possa sembrare paradossale è proprio la borghesia imperialista che necessita che le masse abbiano una rappresentanza politica e che, al contempo, siano oggetto di una certa forma di inclusione sociale. Sotto tale aspetto, la guerra e la forma che ha assunto, sono risultate decisive. Dentro tale contesto, dove il governo, il controllo e un certo grado di consenso delle masse diventa un’esigenza strategica per le borghesie imperialiste anche l’arena parlamentare diventa un fronte del conflitto di classe. Questo lo scenario oggettivo all’interno del quale, Lenin, “obbliga” la tattica dell’Internazionale. È a partire da questa dimensione “concreta” della politica che prende forma l’uso leninista del parlamento imperialista. Però, come ricorda Lenin, la “linea di condotta” comunista è sempre il frutto di una valutazione “concreta” di una situazione “concreta”. La strategia comunista non può prescindere da un’analisi del contesto oggettivo in cui si trova a operare, il marxismo non è un dogma ma una guida per l’azione. In un mondo in cui il parlamentarismo gioca un ruolo effettivo nella e per la vita delle masse, in un contesto in cui, le classi dominanti, sono costrette a catturare il consenso dei subordinati, l’azione parlamentare diventa, per forza di cose, un terreno doverosamente da praticare. Nessun rimpianto. Lenin, però, nel momento stesso in cui cerca di portare alla ragione gli “ultrasinistri”, al contempo, ammonisce l’insieme delle forze comuniste ad agire, sempre, avendo a mente il ciclo storico in cui si è immessi. La tattica dei comunisti deve essere sempre il frutto di un’attenta analisi del mondo reale per questo: senza teoria rivoluzionaria non esiste movimento rivoluzionario. Ma che cos’è, per Lenin, la teoria rivoluzionaria se non la capacità della soggettività politica di leggere le tendenze in atto della società e le sue ricadute sul fronte della lotta di classe? Che cos’è, per Lenin, la teoria se non lo strumento attraverso cui il partito si arma per combattere in uno scenario che il capitalismo e il suo sviluppo hanno bellamente modificato? La teoria come guida per l’azione, appunto. Chiediamoci, allora, oggi, che cosa resta dello scenario in cui Lenin si spese anche per il parlamentarismo.
Non assistiamo, forse, a un movimento che va esattamente in direzione opposta? Le borghesie imperialiste non vanno, forse, in altra direzione mentre, le masse, si mostrano del tutto disinteressate a quel modello politico. Ciò che la stampa di regime chiama “disgusto per la politica” non è forse, in realtà, la presa di congedo delle masse subalterne da un modello politico a loro ormai del tutto estraneo? Per quanto in maniera istintiva e non cosciente le masse non hanno forse compreso che questa politica è loro del tutto estranea e, soprattutto nemica? Non hanno forse dimostrato la loro estraneità, e quindi nemicità, a un sistema che non solo non vuole ma neppure può offrir loro qualcosa, neppure il classico piatto di lenticchie? Il parlamentarismo non è forse superato, nei fatti, dalla pratica sociale? La sua funzione non è semplicemente quella di ratificare scelte e decisioni degli organismi politici, economici e militari sovranazionali? Se le cose stanno in questo modo, per il movimento comunista alcune non secondarie decisioni vanno prese. In primis l’abbandono di ogni illusione elettoralistica ma non solo. Ciò che va immediatamente posto all’ordine del giorno è un programma politico in grado di offrire uno sbocco storico alla condizione proletaria contemporanea. Sotto tale aspetto, con ogni probabilità, la “vecchia” parola d’ordine della dittatura proletaria si mostra ben più fresca delle tante alchimie innovatrice elaborate dal ‘89 in poi dalla cosiddetta sinistra post – comunista. Al nuovo proletariato occorre dare una prospettiva politica non effimera, una prospettiva politica al centro della quale si pone, senza malintesi di sorta, la questione del potere politico e dell’esercizio della dittatura rivoluzionaria.
È in questa direzione che, ogni embrione di partito, deve avere il coraggio di muoversi con le spalle rivolte al futuro.