Sei proprio un Carabiniere!!
Dopo aver commentato la prestazione degli atleti cubani alle recenti Olimpiadi, spendiamo poche parole per la componente italiana. Pochi giorni prima della fine delle Olimpiadi, il quotidiano Repubblica affermava senza tema di smentita che l’Italia non avrebbe raggiunto i livelli di Pechino 2008, cioè quota 27 medaglie. Come sempre quando si esprime Repubblica, in pochi giorni il quorum viene raggiunto e superato. Totale della spedizione italiana: 28 medaglie (8 ori, 9 argenti, 11 bronzi). Prontamente i quotidiani italiani cambiano linea e iniziano a incensare lo sport italiano, che ancora una volta salva la Nazione e la fa riscattare dalle umiliazioni dello spread, della disoccupazione, dalla recessione economica e dal tracollo produttivo.
Ancora una volta lo sport viene sovraccaricato di aspettative, finendo per invadere il campo della politica, dell’economia, della diplomazia. Storia vecchia, come quando si chiedeva alla nazionale di calcio di vincere gli Europei (o i Mondiali, due anni fa) per far aumentare il Pil, oppure si faceva il tifo per la Ferrari, così da migliorare i conti della Fiat (per non si sa quale alchimia economica, peraltro). I media invitano il cittadino medio a esaltarsi per Valentino Rossi su Ducati, per la Pellegrini in vasca o per la vittoria dell’Italia di Prandelli contro la Germania non solo sventolando la bandiera dell’orgoglio nazionale, ma anche millantando improbabili collegamenti con l’economia reale: sono tutte cazzate, non servirebbe neanche ribadirlo. Se vince Alonso su Ferrari la Fiat continua a mettere in cassintegrazione; se Balotelli-Cassano fanno goal l’Italia non supera la Germania in produttività, solo in una partita di calcio; se un atleta italiano (magari un italiano di “seconda generazione”, un ragazzo che ha dovuto aspettare una vita e subire mille umiliazioni per avere la cittadinanza italiana) va sul podio la crisi economica non viene congelata. Insomma, avremmo anche potuto fare il pieno di medaglie alle Olimpiadi, ma avremmo continuato a vivere in un Paese di merda. Per una volta, comunque, non ci scandalizziamo per il suddetto “uso politico” dello sport: è una cosa perfettamente normale, tanto che non attiene solamente al campo liberista.
Lo sport come veicolo di propaganda politica non nasce a destra, comunque non è confinato nel perimetro della destra, per fortuna. Una vasta letteratura in materia lo ricorda, qui ci limitiamo a citare due volumi di Odredek: Pugni chiusi e cerchi olimpici (di Sergio Giuntini, 2008) e Sport e Rivoluzione (a cura di Mauro Pascolini, 2002). In sostanza: se ci esaltiamo per Tommie Smith e John Carlos a Città del Messico 1968, non ci possiamo poi lamentare per il refrain dell’inno che suona sul gradino più alto del podio. Ovvio, le differenze restano, ci sono e sono pure macroscopiche: lì si usava lo sport per l’emancipazione dell’essere umano, qui si usa lo sport per distogliere l’attenzione dalla crisi del capitalismo. Il meccanismo, però, è lo stesso: lo sport come palcoscenico per la propaganda politica, soprattutto in occasioni di grande attenzione mediatica.
Fatta questa doverosa premessa, torniamo alle Olimpiadi italiane: al di là delle solite balle lette e ascoltate, la prestazione italiana è stata assolutamente mediocre e non poteva che essere altrimenti. In questa sede usiamo l’Olimpiade nell’unico modo accettabile, per una lettura “sociale” dello sport, cioè come parametro della diffusione dello sport e della cultura sportiva in un determinato Paese (con tutte le approssimazioni del caso, dovute in primis al fatto che non si parla di valori assoluti, ma di comparazioni con altri Paesi). Da questo punto di vista l’Olimpiade degli atleti italiani è stata l’inevitabile specchio di un Paese assolutamente ignorante di sport, tranne forse quello televisivo. Innanzi tutto, già il dato sul (minimo) aumento di medaglie è insignificante: di Olimpiade in Olimpiade lo spettro degli sport presenti, quindi pure delle potenziali medaglie da cogliere, aumenta – per ragioni meramente commerciali – a causa del riconoscimento della dignità olimpica per sempre nuove discipline. Nuovi sport olimpici, nuove medaglie. Non a caso, nel medagliere totale, il numero di medaglie è aumentato non solo per l’Italia, ma anche per le altre, con l’eccezione della Cina (francamente non migliorabile, dopo la grande prestazione delle Olimpiadi casalinghe di quattro anni fa) e degli Usa (stabili): per l’Inghilterra e persino per la Russia (che passa per essere stata la grande sconfitta). In più, analizzando la provenienza delle medaglie italiane, si vede come queste si siano concentrate soprattutto nella scherma e nel tiro (a segno, a volo e con l’arco): due discipline che non è possibile definire come “popolari” e per le quali esiste una grande tradizione e una buona scuola solo in alcune parti d’Italia (Marche e Campania, nel primo caso, Emilia e Toscana nel secondo). Nulla da togliere, per carità, ma è difficile pensare a queste discipline come alla cartina di tornasole dello sport italiano. Tra l’altro è facile prevedere come, nel momento in cui scherma e tiro saranno praticati anche da altri Paesi, la possibilità di reperire medaglie risulterà più difficile: lo dimostra il primo oro venezuelano nella scherma e la presenza degli Stati mediorientali nelle finali del tiro. D’altronde, la domanda è sempre la stessa: perché dovrebbe eccellere nello sport uno Stato che rifiuta cocciutamente l’idea dello “sport per tutti” e dell’attività sportiva come diritto esigibile da tutti i cittadini? Perché stupirsi della scarsa prestazione olimpica di un Paese che non investe nello sport, rendendo quest’ultimo un privilegio per ricchi? In Italia, come è noto, mancano strutture e impianti sportivi utilizzabili gratuitamente o a prezzi popolari, manca lo sport nelle scuole (perché viene considerato un privilegio per i figli dei ricchi, da praticarsi nel doposcuola), manca la cultura civica (non rivoluzionaria, solamente civica) di far avvicinare allo sport persone di tutte le età. Quando pure ci sarebbero le risorse da destinare alla costruzione di impianti pubblici, in occasione di grandi eventi, i risultati sono disastrosi: i soldi pubblici per i Mondiali di nuoto di Roma 2009 utilizzati per il rifacimento dei circoli sportivi privati (che neanche ospitarono le gare!!) hanno rappresentato un caso emblematico, sanzionabile con la ghigliottina in un qualunque altro Paese e passato sotto silenzio da noi. In Italia, se vuoi provare a vivere con un’attività sportiva, sei sostanzialmente costretto – come abbiamo detto nel penultimo post – “a diventare guardia” e ciò inibisce tutti coloro che hanno una precisa coscienza politica (oltre che dare un messaggio sbagliato al resto del Paese): molto meglio sarebbe utilizzare le risorse dei club militari (che qualche giornalista ha avuto il coraggio di definire “parastatali”) per finanziare lo sport di base.
Insomma, ancora una volta lo sport rispecchia la società nel quale è immerso: quello italiano è elitario, liberista, gerarchico e soprattutto molto, molto scarso. In tutto ciò, sottolineiamo un ultimo aspetto: per l’Italia l’Olimpiade di Londra 2012 non sarà ricordata per la scherma, per il tiro al piccione o la pallanuoto, bensì per il clamoroso caso di doping di Alex Schwazer, che rappresentava l’atleta di punta della disciplina “regina” delle Olimpiadi, cioè l’atletica (dove non a caso l’Italia è stata pressoché assente). Ora, una prima considerazione: per anni ci hanno fatto due palle così con la storia del “doping di Stato” dell’ex blocco socialista. I giornali erano pieni di racconti, tra l’ironico, il folkloristico e l’irridente, di atlete bulgare con i baffi, di pesiste sovietiche che poi si sarebbero trasformate in uomini, di velociste della DDR con poco seno e troppo testosterone: una sorta di “circo dei mostri” che serviva, al solito, per deridere il socialismo reale. Ovviamente nessuno, qui, vuole nascondere la realtà: dietro la pratica del doping si nascondeva effettivamente una grande sofferenza, spesso una tragedia, per l’atleta, quindi un effettivo crimine. Quello che ribadiamo è l’assurdità della distinzione manichea tra un blocco socialista che imbrogliava con il “doping di Stato” e un blocco capitalista che gareggiava, invece, con spirito decoubertiano. La storia ha successivamente dimostrato come non ci fosse alcuna differenza (come era inevitabile, quando nello sport si giocava un altro capitolo della competizione globale tra Usa e Urss) tra il doping dell’Est e quello dell’Ovest: forse le atlete del blocco sovietico avevano l’aggravante di non rispettare i canoni estetici occidentali, ma come dimenticare che – da Ben Johnson in poi – il podio della prova di velocità in tutte le grandi manifestazioni sportive è stato stravolto dal doping degli atleti statunitense, canadesi, inglesi? Come dimenticare il doping dei ciclisti “occidentali” (Usa ed Europa occidentale), diventato pratica di massa? Per non parlare degli sport di squadra, come il calcio, dove il discorso sarebbe ancora più complesso. Nello specifico di Schwazer, la comoda versione della singola “mela marcia” non regge: il doping è la conseguenza della frequentazione con il Prof. Michele Ferrari, medico sportivo che non ha mai fatto mistero di considerare l’epo e dintorni come parte integrante delle tabelle di marcia che decide per i suoi atleti. Ebbene, il dott. Ferrari altro non è che l’ex allievo prediletto del Prof. Francesco Conconi, antesignano nello studio dell’epo e del doping del sangue. Non si trattava, è bene precisare, di un misterioso stregone, ma di una personalità assolutamente in vista: rettore dell’Università di Ferrara, ebbe l’incarico ufficiale da parte del Coni di preparare gli atleti olimpici nel ciclismo, canottaggio, sci di fondo e pattinaggio di velocità all’inizio degli anni Novanta. Di fatto, il Coni sponsorizzava il doping di questi atleti, anziché perseguirlo e punirlo. Non è questo “doping di Stato”?
Un comportamento del genere si è riscontrato anche nel caso Schwazer: per quanto Petrucci, il presidente del Coni, si sia vantato della prontezza delle istituzioni sportive italiane nel bloccare l’atleta, una volta emersa la sua positività, la verità è ben diversa. Schwazer è stato “pizzicato” non dal Coni, dall’agenzia internazionale contro il doping (la Wada), durante l’allenamento, a dimostrazione che era attenzionato da un po’ di tempo: l’Italia non poteva fare altro che bloccarlo, probabilmente dopo aver inutilmente tentato qualche escamotage per salvare l’alfiere nazionale (infatti è passato un po’ di tempo tra l’esame antidoping e lo stop all’atleta).
Abbiamo detto come, per gli atleti di sport non ricchi come il calcio, l’iscrizione a un club militare spesso sia una necessità: nel caso di Schwazer dobbiamo aggiungere che il ragazzo si è immedesimato molto bene nella sua divisa. Si è dimostrato, infatti, un perfetto Carabiniere: ha commesso un illecito, ha cercato di nasconderlo, poi – una volta scoperto – ha cambiato più volte versione, fino all’infamata finale: in una conferenza stampa convocata per spiegare il suo doping ha invitato a puntare l’attenzione su una nuotatrice cinese, a suo dire “sospetta”. Che dire, un carabiniere perfetto… Non cacciatelo dall’Arma, ma promuovetelo!