Libertà l’ho vista dormire nei campi coltivati…/2
Dopo le condanne della Cassazione nei confronti dei compagni che parteciparono alle giornate di Genova del 2001, abbiamo volutamente aspettato prima di commentare. Abbiamo preferito ragionare a mente fredda e guardandoci un po’ in giro. Anzitutto, come abbiamo già fatto, salutiamo con un sorriso di complicità il rifiuto di due compagni – condannati rispettivamente a 13 e 15 anni di galera – di accettare la pena loro inflitta. Che dire…Buona fortuna fuggiaschi!
Tuttavia, uno dei condannati, al quale mandiamo un forte abbraccio, si trova già dietro le sbarre del carcere di Rebibbia, dove sono già stati fatti due presidi di solidarietà. Quello di domenica scorsa, particolarmente rumoroso da entrambi i lati delle sbarre, ha visto intervenire in grande stile ben due blindati e svariate macchine della polizia, arrivati per disperdere la cinquantina di compagni presenti. Strano? Evidentemente no. La prima cosa che salta agli occhi di tutta questa vicenda è infatti l’assoluta mancanza di solidarietà militante agli arrestati. Certo, c’è stata un’efficace campagna mediatica e d’informazione, che abbiamo appoggiato convintamente, ma chiaramente non bastava. I presidi, almeno quelli fatti a Roma, sono stati a dir poco deludenti. Cinquanta persone la mattina, forse un centinaio la sera, in due appuntamenti vissuti con noia e scarsa partecipazione emotiva, più per un dover esserci che un volerci essere con tutta la propria rabbia. Non dovrebbe stupirci più di tanto: sono diversi anni infatti che la lotta alla repressione è stata derubricata a tematica secondaria da parte del movimento, e il più delle volte appaltata ad aree politiche che invece ne hanno fatto la bandiera della propria diversità. Per l’ennesima volta, in realtà, il discorso sulla repressione è servito a dividere piuttosto che unire le varie anime politiche. Facendo ragionamenti sulla testa dei condannati, senza mai tentare la strada dell’unità e disperdendosi in mille rivoli nei quali siamo giustamente scomparsi.
Ma facciamo un passo indietro. Sui fatti di Genova chiunque ha preteso di prendere parola facendolo in alcuni casi in modo opportuno e dignitoso, in altri – la maggior parte – decisamente no. Noi abbiamo raccontato la nostra Genova in occasione del decennale di quelle giornate (leggi), e non è quindi necessario ritornare con una riflessione politica che ormai, a più di dieci anni di distanza, potrebbe risultare fastidioso parlarsi addosso fra “reduci”.
Come ogni critica che si rispetti, però, la nostra è prima di tutto un’autocritica, che rende decisamente stucchevole e fuori luogo recriminazioni e lamentele di ogni sorta: già, perché per troppo tempo ci si è lamentati e per troppo tempo si è recriminato sia sul risultato di quelle giornate, sia sulle conseguenze della repressione politica che le ha caratterizzate, visto che di questa si tratta. Una repressione politica a cui servono dei capri espiatori, quali sono appunto i compagni arrestati. La medesima logica giuridico-politica messa in piedi per il 14 dicembre 2010 e per il 15 ottobre 2011: di fronte all’impossibilità di avviare una campagna repressiva su vasta scala, si è preso nel mucchio e gli si è accollato ogni responsabilità, guardandosi bene dal politicizzare (e quindi dal contestualizzare) le varie vicende.
Come è stato detto, abbiamo perso, e quando si perde, il nemico si tiene gli ostaggi, e ne fa quel che ne vuole. La “giustizia” non è, ovviamente, uno strumento “terzo” e imparziale, ma un concetto determinato dai rapporti di forza esistenti in un dato momento e in una dato contesto; è quasi inutile ricordarlo, ma nel corso degli anni il conflitto di classe ha espresso ben altri livelli di scontro e di violenza politica, pagando – in proporzione – decisamente meno dei compagni arrestati in questi anni. Se oggi il potere decide di calcare la mano, andarci pesante e comminare pene assurde come se nulla fosse, non è certo per la cattiveria individuale del giudice di turno, ma più precisamente perché oggi la giustizia – e dunque la politica – possono permettersi cose che in anni precedenti non potevano permettersi. Proprio perché i rapporti di forza non glielo consentivano.
Ed è perfettamente inutile stupirsi oggi: francamente non abbiamo mai avuto dubbi sull’esito di questo processo, politico – bene specificarlo visto che di questo si tratta -, non perchè ci piacciano i tarocchi o le sfere di cristallo, bensì perché è palese la natura di quest’operazione politica costruita cavalcando la tigre di carta del giustizialismo, che ormai conosciamo bene, visto che è lo stesso che in occasione della rivolta del 15 ottobre dello scorso anno è riuscito a farsi largo tra i cordoni dei compagni che non vi hanno resistito e che ha spianato la strada alla repressione, mentre tanti erano civilmente impegnati a stabilire chi poteva – e chi no – accomodarsi nel buon salotto del chiacchiericcio.
Possiamo semmai avanzare un paio di considerazioni su quello che l’accusa e l’imputazione di “devastazione e saccheggio” comporta e significa nelle dinamiche che quotidianamente ci troviamo a vivere.
Si è già detto altrove e con giusta audacia della nuova tendenza dello Stato ad autoassolversi tramite la devastazione e il saccheggio delle vite dei nostri compagni, meno si è detto dell’origine politica di questo nuovo teorema giudiziario che sembra ad oggi difficile da smontare. Per anni le magistrature italiane hanno tentato di calunniare e criminalizzare i movimenti attraverso la diffamazione della loro forza collettiva; il che tradotto è stato il tentativo di ascrivere ogni forma di lotta politica autorganizzata come un’associazione a delinquere. È stato il caso dei movimenti per il diritto all’abitare (qui a Roma tutti ricorderanno il processo ad Action per associazione a delinquere), del movimento dei disoccupati napoletani (rei di aver creato una sorta di “associazione a delinquere finalizzata all’estorsione di lavoro”), fino al caso ben più noto e chiacchierato del processo al Sud Ribelle. Ebbene, la compattezza con cui sono state affrontate queste infamie giudiziarie hanno di fatto smontato il teorema associativo nei tre gradi di giudizio (a volte anche prima) previsti dal nostro ordinamento e dal codice di procedura penale. La frammentazione che spesso rimproveriamo alle lotte in Italia – che hanno portato ad un indiscutibile indebolimento dell’intero sistema-movimento – ha dato modo ai nostri carcerieri di “frazionare” gli impianti accusatori e di affrontare la repressione dopo fatti di piazza da un punto di vista non più collettivo ma individuale. Dopo Genova, dieci pagano per tutti. E pagano non perché gli venga contestato un reato squisitamente politico (come quello associativo, che indirettamente riconosce all’imputato l’appartenenza ad una socialità diffusa che rappresenta una controparte politica – per quanto minoritaria), ma perché accomunati dalla devastazione di vetrine, derubricando lo scontro di piazza ad un mero gesto di vandalismo che di politico sembra non avere nulla.
La seconda considerazione, poi, riguarda il clima in cui la sentenza della Cassazione si è presentata all’opinione pubblica. La comminazione di queste pene ai compagni è stata la prosecuzione di un’accurata strategia tesa a regalare un senso di equità della giustizia italiana. La sentenza Diaz, come quella del caso Aldrovandi, sono tutti esempi di condanne esemplari a cui era difficile potesse sfuggire la chiusura del processo per il G8 genovese. L’unica differenza, semmai, va ricercata negli avanzamenti di carriera che hanno interessato le alte cariche della PS (veri mandanti e colpevoli di quelle giornate), proporzionali al “sacrificio” di alcune (le solite) mele marce. Una condotta che ben conosciamo e che ha spesso aiutato lo Stato nella sua arringa difensiva dopo essersi fittiziamente autoaccusato.
Abbiamo considerato la giustizia come “manovrabile”, o influenzabile in base all’opinione pubblica formata dai cittadini, al magistrato bravo e in quello meno bravo, scordandoci che la magistratura non rispecchia altro che i rapporti di forza che vengono stabiliti dal livello del conflitto presente nella società.
Comunque, sono ormai inequivocabili le vesti che indossa lo stato al guinzaglio del capitale quando prova a raccontarci che i macellai della Diaz e di Bolzaneto sono stati puniti, e a pochi giorni di distanza, cerca maldestramente di mettere un punto definitivo – quanto pericoloso – alla storia di Genova parlandoci di “devastazione e saccheggio” e di qualche mela marcia da ambo le parti. Per lo stato, insomma, Genova è finita, e tutto sommato nel migliore dei modi. I colpevoli sono da entrambe le parti e vengono condannati con eguale perizia. Non può certo stupirsi, e anzi dovrebbe quasi rallegrarsene, chi in questi anni ha seguito l’onda politica del giustizialismo, del partito di Repubblica, delle sirene di Di Pietro e Travaglio o del grillismo galoppante, e delle tante correnti politiche che anteponevano il rispetto della legalità alla giustizia politica.
Noi, che non ci stupiamo, abbiamo il compito di non lasciarla finire così.