L’antipolitica, ovvero la nuova ideologia bipartisan
Sconfitta definitivamente (per ora) l’ipotesi culturale comunista, derubricata notevolmente la minaccia terrorista islamica, oggi il nuovo nemico intorno a cui orientare ogni dibattito pubblico con finalità politiche è l’antipolitica. Ma, come troppo spesso accade, ciò che viene detto palesemente nasconde la contraddizione del “non-detto”. A volte, però, questo non-detto emerge fra le righe dei dibattiti politici, ribaltando il senso di ciò che pubblicamente viene trasmesso. In sintesi, ciò che viene detto pubblicamente è il contrario di ciò che si pensa realmente. Il messaggio subliminale è il contrario delle prese di posizione ufficiali.
A sentire l’informazione politico-culturale mainstream, al di là dei demeriti e delle responsabilità di partiti e mondo politico, profondamente screditati all’opinione pubblica, si dovrebbe combattere una battaglia per riaffermare i valori della Politica e abbattere il pericolo demagogico-populista dell’antipolitica. Questo il messaggio ufficiale, condito dalla serie di valori comuni da riscoprire per risollevare le sorti della politica, e indicando i nemici populisti che cavalcherebbero la crisi economica fomentando ventate d’antipolitica.
Vediamo alcuni esempi di come, in realtà, ciò a cui punta il sistema politico-economico istituzionale sia proprio l’avvento di una società liberata dalla politica e affidata al tecnicismo dell’antipolitica.
Nel numero 22 del 15 aprile di La Lettura, inserto culturale del Corriere della Sera, Dario di Vico si produce in una sintesi della tendenza politico-culturale della post-modernità politica. Ne riportiamo alcuni stralci:
Rispetto alle altre nazioni da noi l’esperienza dei giovani lontano da madrepatria e famiglia è vista ancora come una dolorosa eccezione
Sarà un caso, ma il governo degli Stati Uniti si chiama “amministrazione”. Da noi lo stesso termine evoca tutt’al più le riunioni di condominio
Esportiamo non più braccia ma talenti e la loto rete può essere utile a depoliticizzare il governo del nostro paese quando serviranno nuove idee
Un esperienza all’estero serve a ridurre il tasso di politicizzazione che contraddistingue la visione del mondo delle nostre elite
Negli altri paesi le decisioni pubbliche vengono interpretate sempre e comunque come pure scelte di problem solving
Per produrre elite efficaci e competitive dobbiamo assolutamente abbassare il coefficiente di politicizzazione
L’eccesso di politica in Italia, sempre secondo Feltrin, è una delle cause della gerontocrazia che impera nei nostri organigrammi
Dario di Vico, ricordiamo, oltre ad essere redattore del Corriere della Sera, è il referente culturale del Corriere nelle questione economiche. Diremmo, se fossimo in altri tempi, che è uno che detta la linea del principale quotidiano italiano, il quotidiano del sistema politico ed economico del paese. Bene, quello che il giornalista-ideologo traccia con perfetta sintesi, di cui noi abbiamo riportato solo alcuni passi, è il manifesto dell’antipolitica. In breve, il governo dello Stato, per Di Vico e il Corriere della Sera, dovrebbe essere liberato dalla politica per essere affidato ad elite internazionali, depoliticizzate, che affrontino i vari problemi del governo della cosa pubblica come problemi “amministrativi”. Non è un discorso che va a finire nel “né destra, né sinistra”, ma è molto oltre. E’ la negazione della politica in quanto tale. E’ il sogno delle strutture economiche che in questi anni stanno dettando l’agenda economica e politica in Europa.
Veniamo ad un altro esempio. Lo sterilissimo dibattito italiano intorno alla elezioni francesi si è polarizzato su tre questioni assolutamente marginali: da una parte, il fallimento della politica personale di Sarkozy; dall’altra, il ritorno a una forma di ipotesi socialdemocratica rappresentata da Hollande; infine, l’eterno dibattito sull’estrema destra francese e alla ruolo del Front National. Niente di più scontato. Proviamo a notare un altro dato su cui varrebbe la pena riflettere.
La Francia è forse l’ultimo paese europeo che riconosce un ruolo attivo alla figura dell’intellettuale; è l’ultimo paese, inoltre, in cui questi hanno un ruolo pubblico. Forse è un bene, forse no visti i risultati, fa però specie vedere come si sono mossi gli intellettuali francesi attorno a queste elezioni. Tutti (tranne le eccezioni che confermano la norma), si sono mossi all’interno del perimetro culturale del “né-né”, che poi, nei fatti, si traduce in uno squallidissimo “con-con”. A parte quella serie di intellò firmatari dei vari manifesti pro Hollande o pro Sarkozy (fra cui figura, a favore di Sarkozy, anche la firma di Le Roy Ladurie, un gigante del panorama storico europeo, che la dice lunga sulla squallida deriva di certi personaggi in cerca dei 15 minuti di notorietà anche a 90 anni), il discorso è stato più o meno questo: non siamo più né di destra né di sinistra, è finito il tempo delle ideologie, servono candidati nuovi che ravvivano la proposta politica francese. Sintetizzato, è il pensiero di un po’ tutta la nuova vulgata fintamente anti-conformista che pervade il continente. Che si riduce, appunto, nel più misero dei “con-con”: sto con questo candidato o con quell’altro, non è importante, basta che rappresenti una rottura rispetto alla classe politica attuale – rottura non in senso politico, ma rottura contro il politico. Lo stesso discorso che ha potato molta intellighenzia di “sinistra” ad appoggiare Sarkozy, giusto qualche mese dopo che lo stesso, da ministro degli interni, risolveva la questione banlieue con la repressione della polizia.
Cosa c’entrano questi due esempi? Evidentemente, tutti vanno in direzione dell’antipolitica. Sia i media che gli intellettuali (almeno, una grossa parte, quella parte che ha puntualmente visibilità sui media), preparano il terreno culturale per una accettazione (passiva o convinta non conta) della fine della politica come strumento per la soluzione dei problemi delle popolazioni. Mentre pubblicamente sbraitano contro l’antipolitica dei vari fenomeni da baraccone, in realtà stanno da anni preparando il terreno per la fine della politica. E’ quello il loro obiettivo, e cioè purificare l’Italia – e l’Europa – dalle infiltrazioni politiche che condizionano le scelte delle classi dominanti. Hollande, in tutto questo, rappresenterà il classico paravento progressista dietro il quale celare determinate scelte economiche impossibili da proporre sotto governi di altro colore (e in Italia ne sappiamo qualcosa). Potremmo solo augurarci (ma dovranno strapparlo con la lotta i lavoratori francesi, non è una speranza) che la vittoria di un politico che si propone margini di opzioni socialdemocratiche riapra possibilità di nuovi fronti di lotta. Il PSF, che ricordiamo voleva candidare a presidente il capo dell’FMI Strauss Kahn, è solo una delle frazioni in cui si divide la borghesia politica; è anche vero, però, che Hollande non è Monti. Hollande ha una sua base di militanti a cui dovrà rendere conto, un immaginario politico e culturale da cui proviene, un programma politico di chiara ispirazione keynesiana che potrà essergli rinfacciato. Insomma, se non esiste un capitalismo buono e uno cattivo, è però vero che non tutte le forme politiche assunte dal capitale siano uguali. Hollande, potenzialmente, apre nuovi scenari politici, e non solo nel proprio paese. Tocca a noi, adesso, cercare il modo migliore per condizionare questo cambiamento.