Gli anni settanta e la memoria violata
Abbiamo aspettato fino all’ultimo. Convinti che, prima o poi, qualcuno si sarebbe espresso al riguardo. E invece niente, il silenzio. Questa vicenda, questo “caso Battisti”, diventato ormai scontro geopolitico internazionale, non ha avuto altra lettura in Italia e nel resto del mondo che quella datale dalla borghesia liberale dei vari paesi. Unica eccezione, una frangia di intellettuali francesi tra cui c’è perfino Bernard Henry Levi, che, riattivati come il malato terminale a cui gli si da la scossa elettrica, sembrano aver riacquistato quell’antica verve ormai da decenni scomparsa. Un cortocircuito mentale più che una vera presa di coscienza. Ma tant’è, seppure con lodevoli eccezioni di alcune personalità intellettuali fuori dal comune, anche gli “intellò” francesi non sappiamo se classificarli come ultimo baluardo della dignità intellettuale d’Europa o come resti di un mondo che non c’è più. Abituati orami a intellettuali “comodi”, come proprio il buon Levi ci insegna, su quest’argomento si sono sempre contraddistinti. Ne prendiamo atto.
Ma torniamo a noi e alle prese di posizione che ci aspettavamo, e che hanno invece contribuito al silenzio assordante di questi giorni. Un silenzio che ha lasciato campo aperto all’”informazione” questa volta davvero di regime. Perché il caso Battisti travalica la triste vicenda personale fra il detenuto e la giustizia, diventando caso paradigmatico di come lo stato italiano sta affrontando gli anni settanta. Trasformando una lettura un tempo solo “borghese” e ampiamente contestata dai compagni come l’unica lettura possibile di questa vicenda e di quegli anni. Senza possibilità di smentita, di dibattito, di riflessione. Responsabilità, questa volta a pieno titolo, anche di tutti coloro che avevano il dovere di esprimersi e non l’hanno fatto. Rendendosi complici non della sola avventura giudiziaria di Battisti, ma di una analisi di quegli anni che ormai trova consenso unanime.
Ma veniamo alla vicenda. Negli anni settanta si è avuta in Italia una forma di guerra civile. Con buona pace dei Michele Serra di turno, sono i numeri e le vicende di quei tempi che lo provano. Dopo l’approvazione anti-democratica della legge Reale del 1975 e degli altri apparati legislativi emegenziali, hanno conosciuto le patrie galere non meno di cinquemila (5.000) militanti politici. Ci sono stati 150.000 indagati, 40.000 incriminati e 15.000 processati perchè accusati di banda armata, di contiguità alla lotta armata o di violenza politica in generale (fonte: “il nemico interno” di Cesare Bermani). Tanto per render l’idea, nel Paesi Baschi, dove è ancora in corso una lotta per l’indipendenza combattuta anche con la lotta armata, e che dura da più di cinquant’anni, i prigionieri politici accusati a vario titolo di terrorismo sono ottocento (800). Stessa situazione in Irlanda. Anche nella Palestina occupata i numeri dei prigionieri delle carceri israeliane non vanno oltre qualche migliaio. Situazioni disparate e non assimilabili, per carità, ma che rendono bene la sensazione di come anche in Italia ci sia stata una forma di lotta politica che è stata repressa duramente e che si può senza ombra di dubbio classificare come guerra civile. Magari strisciante, magari di bassa intensità. Ma quello è stato, e tutti ci hanno dovuto fare i conti.
All’interno di quell’universo politico fatto di gruppi, collettivi, assemblee e quant’altro, una parte cospicua prese la strada della violenza politica, entrando in clandestinità e praticando forme diverse di lotta armata. Anche qui i numeri ci confortano, ma più ancora del mero dato quantitativo è impressionante il livello di legittimazione raggiunta da quei gruppi, il più importante dei quali, le Brigate Rosse, nel periodo di maggiore espansione contava centinaia di militanti in tutto il paese e appoggio esterno direttamente nelle fabbriche e nei quartieri popolari. Negare tutto questo significa distorcere a proprio piacimento la realtà. E non si sta dando un giudizio di valore di quello che avvenne, ma solamente una serie di dati e considerazioni che avremmo potuto leggere in qualsiasi analisi di quegli anni fatta anche da studiosi non di parte (una su tutte, l’analisi sul fenomeno lottarmatista fatta da Giorgio Bocca).
Ora, detto ciò, tutti i paesi che hanno avuto una guerra civile al proprio interno hanno cercato, una volta terminata, di risolvere il problema anche e soprattutto da un punto di vista politico. Insomma, da una situazione di scontro frontale e armato fra due fazioni non se ne può uscire unicamente per via giudiziaria. Persino il fascismo ha visto risolversi la propria triste avventura con la grande amnistia del 1948. Persino i regimi fascisti dell’America Latina hanno goduto di una risoluzione politica delle loro vicende criminali. Persino il franchismo, dopo aver massacrato tutti i repubblicani, si è visto condonare tutte le responsabilità di quasi quarant’anni di dittatura. E tutti ad applaudire il livello democratico raggiunto da questi paesi.
In questa classifica l’Italia, come al solito, fa la sua triste eccezione. L’eccezione di un paese che pensa di risolvere le proprie contraddizioni politiche e sociali unicamente per via giudiziaria. Scaricando sui magistrati ciò che non ha il coraggio di fare: una riflessione politica su quegli anni. Che non significa fare tabula rasa di tutti gli episodi di violenza, ma di ragionare. Capire perché ad un certo momento la maggioranza organizzata dei giovani e dei lavoratori italiani si sia ribellata a questo stato. Perché ne voleva cambiare le basi, e perché nel farlo abbia attraversato anche una fase di lotta armata.
Noi non vogliamo ridurre il tutto ad una guerra senza quartiere fra le due parti. Non siamo contenti dei morti ammazzati e dei lutti familiari di persone talvolta veramente innocenti. Ma di morti ammazzati ce ne sono stati da tutte e due le parti. E allora, per un Battisti che andrebbe condannato, chi condannerà le stragi di Stato? Piazza Fontana, l’Italicus, piazza della Loggia e poi ancora il 2 agosto del 1980? E chi può negare che quei carri armati in pieno centro di Bologna significavano molto di più di un normale servizio di ordine pubblico? Non stavano forse li a dimostrare che la guerra si stava combattendo, e tutte e due le parti sparavano, gambizzavano, ammazzavano? E tutti i compagni ammazzati nei cortei, tutti quelli spenti dalla droga di stato, tutti quelli uccisi dai fascisti? Anche loro devono entrare nella bilancia di quegli anni, e allora staremo a vedere dove penderà l’ago.
Quello che è avvenuto è avvenuto perché sono entrate in conflitto due visioni del mondo, e tutte e due lo hanno fatto in maniera violenta e organizzata. Solo che da una parte migliaia di persone hanno pagato con decenni di galera, o con la morte; dall’altra, come sempre, l’assoluzione plenaria è arrivata puntuale. Ed è in questo contesto che si inserisce la vicenda di Battsiti, come di tutti gli altri militanti di quegli anni: in un contesto dove si sparava da tutte e due le parti, dove i morti li contiamo anche noi, e non solo dei compagni, ma della società civile uccisa dalla bombe di stato. E allora che lo condannino pure, il Battisti di turno; ma insieme a lui devono finire in carcere anche tutti coloro che hanno partecipato alla strategia della tensione, i mandanti politici che hanno annichilito il conflitto di classe con le bombe e la repressione; tutti coloro che hanno distrutto generazioni con le mafie e la droga…
Non andremo avanti, sarebbe inutile. Come sempre lo Stato assolve se stesso, e questa non è una novità. La novità è notare come nessuno più si alzi e dica che le cose non stanno propriamente così. Come più nessuno condanni lo Stato. Il silenzio di questi giorni fa molto più male dell’informazione reazionaria che vuole solo vendetta, peraltro a sangue freddo. Ma tutti quei compagni dove sono? Tutti coloro che nel corso degli anni si sono riempiti la bocca di parole come amnistia, indulto, sconti di pena. E che hanno cercato di opporsi a questo sistema giudiziario e penale che, per giunta, ha trasformato le carceri italiane nelle peggiori dell’occidente. Un silenzio che sa di paura, di reticenza, di lavaggio di una coscienza che non può essere cancellata. Però così ci andiamo di mezzo tutti, e se ieri è toccato a Battisti, domani potrà capitare ad altri compagni di essere travolti dalla repressione senza essere difesi da nessuno.
E ancora abbiamo il coraggio di parlare del Brasile?
Battisti libero! Liberiamo gli anni settanta!