Una prigione a cielo aperto/1
PARTE 1: Un convoglio nell’Egitto post-rivolte
Iniziamo, con questo pezzo, una serie di riflessioni sul nostro viaggio nella striscia di Gaza. Viaggio che abbiamo potuto affrontare grazie all’organizzazione del convoglio “Restiamo Umani”, il mitico CO.R.UM. (www.vik2gaza.org), la carovana di settantacinque persone che ha deciso di sfidare l’assedio perpetrato ai danni della popolazione palestinese. Assedio criminale portato avanti non solo dallo stato canaglia d’Israele, ma reso ulteriormente inumano dal tacito consenso dell’Egitto, che in tutti questi anni si è premurato di rendere inaccessibile il valico di Rafah, unico spiraglio palestinese non controllato direttamente dagli israeliani. Valico che, nonostante i proclami d’imminente apertura, continua a restare ben serrato di fronte alle esigenze della popolazione palestinese della striscia. Di fatto, gli unici ad essere passati pubblicamente e in massa in questi anni siamo stati noi con il convoglio organizzato a seguito dell’uccisione di Vittorio Arrigoni.
Si parla spesso di carovane umanitarie, e questa è stata proprio la prima esigenza di chiarezza da parte dei compagni che partivano per la terra di Gaza: questa non è stata una carovana. Non è stata una carovana perché non aveva l’obiettivo di portare aiuti umanitari, non è stata una carovana perché non era aperta a tutti indiscriminatamente, non è stata una carovana perché non era questo il momento delle carovane. La nostra è stata una spedizione militante, che aveva come obiettivo un’azione politica necessaria e rischiosa: passare il valico di Rafah ed entrare in terra palestinese dall’Egitto. Un convoglio umano, in risposta alla barbarie perpetrata da Israele.
Così come, giustamente, la famiglia di Vittorio si è rifiutata di far passare la salma del proprio figlio da Israele, così noi abbiamo deciso che l’unico omaggio possibile alla memoria di Vittorio sarebbe stato quello di entrare in Palestina non passando da Israele. Si trattava di una scommessa rischiosissima, politicamente e umanamente parlando. Infatti, come già detto, Israele non è l’unico stato assediante; anche l’Egitto nel corso di questi anni ci ha messo il suo carico di violenza e illegalità. E infatti, nulla ci dava la certezza di poter passare, nonostante le numerose pressioni internazionali a tal proposito. L’unica certezza di entrare a Gaza l’abbiamo avuto passando il confine palestinese, iniziare a vedere le bandiere rosse bianche verdi e nere del popolo palestinese. Non è stato facile; i rallentamenti, i check point lungo la strada dal Cairo a Rafah, tutto cospirava contro di noi, eppure cel’abbiamo fatta!
E’ chiaro che una situazione del genere non poteva avvenire con la costruzione di una semplice carovana. C’era bisogno di conoscerci, di sapere chi eravamo, cosa rappresentavamo. Le poche riunioni preparatorie erano chiaramente insufficienti, visto l’enorme mole di lavoro da fare per preparare al meglio la nostra spedizione. Nonostante questo, e nonostante il grosso del convoglio fosse rappresentato dalle strutture romane che praticano quotidianamente la solidarietà col popolo palestinese, il convoglio è riuscito ad assumere i tratti della spedizione internazionale. Non solo si sono aggregati numerosi compagni dal resto d’Italia, ma anche numerosi dal resto del mondo. Tedeschi, polacchi, francesi, statunitensi, un insieme variegato di internazionalisti pronti a tutto! Nulla, come detto, ci dava la certezza della riuscita. Nessuno ci aveva assicurato che saremmo passati dal valico, e soprattutto niente garantiva la nostra sicurezza in un Egitto post-rivolte che è anche terreno di scontro di diversi interessi, non sempre solidali alla causa palestinese. Figuratevi una missione internazionale che avrebbe coinvolto direttamente la politica egiziana. Eppure cel’abbiamo fatta, e ora è il momento di gioire di un avvenimento così importante per la Palestina e la solidarietà internazionale alla causa palestinese. Tutto questo rappresentava il convoglio: una missione politica, che sfidava l’assedio palestinese portato avanti da Israele e dall’Egitto, che gridava forte che la morte di Vittorio non avrebbe diminuito o arrestato il processo di liberazione e la solidarietà internazionale.
I due giorni passati al Cairo in attesa della partenza non sono stati inutili. Anzi, hanno costituito un aspetto centrale di tutta la spedizione. Infatti, oltre a capire più da vicino la situazione, anche sotto il mero aspetto visivo, abbiamo avuto degli incontri con alcuni pezzi di quel variegato ed eterogeneo movimento che ha portato avanti le rivolte dei mesi scorsi. Abbiamo incontrato una parte di quei ragazzi di piazza Tahrir, e ne abbiamo ricavato molte interessanti impressioni. Nonostante i nostri incontri vertevano esclusivamente sulla solidarietà palestinese e sulle iniziative messe in campo in Egitto in quei giorni e principalmente per la grande giornata della Nakba (il 15 Maggio), ciò che abbiamo visto e sentito è stato molto utile.
Per comprendere l’Egitto odierno è imprescindibile partire dalla realtà della sua capitale, Il Cairo, la più grande città d’Africa e uno dei più grandi centri urbani del mondo. Una megalopoli fatta da sedici milioni di persone che ogni giorno invadono le sue strade di sabbia e terra, i suoi quartieri arroccati che crescono uno accanto all’altro cementificando pezzetti di deserto altrimenti privi di vita, diroccati, fatti di intere vie di palazzi abbandonati, cadenti, non finiti. Palazzi lasciati a metà, in strade senza asfalto o cemento. Polvere e sabbia ovunque. In tutto questo, un’umanità che ogni giorno si riversa sulle sue strade precarie, intasando la città con un traffico che non ha paragoni nel resto del mondo. Perennemente in coda, avvolta in uno smog misto a sabbia incessante, a qualsiasi ora del giorno e della notte, sembra riprendersi un po’ solo nelle tre ore di coprifuoco indette a seguito delle rivolte, fra le due e le cinque del mattino. Per il resto, una bolgia quotidiana, in cui è quasi difficile comprendere come sia possibile una relativa pace piuttosto che una guerra continua e disperata. Un contesto in cui parole e concetti come esplosione demografica, terzo mondo, slum diventano immediatamente chiari e definiti.
In tutto questo, nella sede messa a disposizione da uno dei partiti socialisti egiziani abbiamo incontrato i giovani del “Movimento per la terza intifada”. Anzitutto, si trattava di compagni. Sembrerà una precisazione inutile, ma che invece è fondamentale. Sapere di avere a che fare con compagni, con persone di sinistra, anticapitaliste e antisioniste ci ha un po’ sollevato il morale. Non erano certo l’unica componente di quelle rivolte, e il rischio di incontrare giovani “sinceri democratici” era serio. E infatti, la diversità che emergeva fra questi ragazzi e molte rappresentazioni televisive dei mesi scorsi risultava subito netto. Ad esempio, quasi nessuno di questi parlava inglese. Dopo mesi di falsa rappresentazione di una realtà giovanile che comunicava nella lingua globale del capitale, finalmente una piccola prova di quello che nei mesi scorsi dicevamo anche noi, e cioè che l’inglese, anche in Egitto, non è la seconda lingua madre della nazione come qualche giornale ci andava propinando. E infatti grande merito di tutti questi incontri va dato ai traduttori, sempre siano lodati!
In secondo luogo questi giovani parlavano di lotta a Israele come un aspetto di una lotta più generale verso il capitale e l’imperialismo. Combattere contro Israele significa lottare contro tutti gli stati imperialisti e colonialisti del mondo, è il nemico di classe, prima di essere semplicemente la forza occupante della Palestina. Anche questo potrebbe sembrare scontato ma non lo è per niente. E detto da compagni egiziani assume un altro livello. Troppo facile è stato nel corso degli anni, e ancora oggi, la riduzione del conflitto arabo-israeliano ad una semplice questione territoriale, o peggio ancora a una guerra di religione fra ebrei e musulmani. E invece questi compagni erano ben consci che la lotta a Israele si inserisce in un quadro politico più generale, più politico appunto, di lotta verso l’autodeterminazione dei popoli soffocati dagli stati capitalisti. Perché il sogno di una Palestina libera viene sempre accomunato a quello di una Palestina rossa, e non semplicemente ad una Palestina democratica. Detto da compagni arabi, e non da qualche occidentale in vena di sentenze, concorderete che assume tutto un altro valore.
Detto questo, anche all’interno di questo incontro, abbiamo avuto una piccola rappresentazione di ciò che dilania il dibattito arabo da decenni. E cioè la questione della soluzione effettiva del problema palestinese. Alle allusioni su quale sarebbe dovuta essere, nei fatti, la soluzione pratica alla questione palestinese, ognuno di quei compagni aveva una sua idea, diversa dall’altro. Nessuno, neanche all’interno dello stesso gruppo politico, avanzava le stesse proposte di come andasse risolta effettivamente la situazione. Anche questa è stata un’utilissima dimostrazione di come il mondo arabo sia diviso sulla soluzione alla questione, e che questa divisione abbia costretto all’impotenza la Palestina e la solidarietà internazionale araba, divisa in mille rivoli al proprio interno. E’ evidente che il problema sia più complicato di quello che possa sembrare, e capire come creare una stato palestinese non è certo un compito facile, ma nel corso dell’incontro ne abbiamo inteso tutto la portata deflagrante all’interno nel mondo arabo: se neanche dentro un gruppo politico di compagni arabi che lavorano sulla questione palestinese è stato possibile raggiungere una omogeneità di pensiero rispetto ad una possibile soluzione, è facile immaginare quale sia il ventaglio di opzioni presenti in tutta la società araba e mediorientale rispetto al problema. E come questa varietà di idee abbia nel corso degli anni bloccato l’emergere di una soluzione forte e condivisa che potesse essere messa sul piatto della bilancia per riequilibrare il colonialismo israeliano. E’ un limite di cui abbiamo capito tutta la portata. Consci di tutto questo, il giorno dopo saremmo partiti alla volta della terra di Gaza, con molte preoccupazioni e qualche domanda in più rispetto alle nostre certezze occidentali.. (Fine prima parte, to be continued…).