Gheddafi, la Libia e l’informazione affossata
Per due giorni la notizia delle fosse comuni sulla spiaggia di Tripoli è rimbalzata da un giornale all’altro scuotendo le coscienze dei cittadini di mezzo mondo orripilati dalla barbarie di Gheddafi. Quelle stesse coscienze e quegli stessi giornali, sia detto per inciso, che fino al giorno prima non avevano avuto nulla da ridire contro la barbarie (questa si vera) dei campi di concentramento per migranti allestiti in Libia per salvaguardare l’Europa dagli sbarchi dei “clandestini”. Senza voler sminuire il bagaglio di violenza che una guerra civile inevitabilmente si porta appresso a noi la cosa puzzava di Kosovo, e lo abbiamo scritto. Ieri è venuto fuori che quelle immagini sono state girate nel cimitero di Sidi Hamed visionabile anche grazie a google maps (qui) e come ha confermato anche Angelo Del Boca (leggi), forse il massimo esperto di cose libiche in Italia. Alcuni giornali hanno tolto il video dalla loro edizione online senza spenderci sopra due parole di spiegazioni, altri l’hanno lasciato infarcendo gli articoli di condizionali perchè il sangue fa sempre audience. A tal proposito abbiamo ritenuto utile riprodurre di seguito il primo capitolo di “Sotto la notizia niente”, un libro che tutti, soprattutto i compagni visti gli accadimenti degli ultimi giorni, dovrebbero leggere e rileggere con attenzione. E’ stato scritto da Claudio Fracassi nel 1997 e ripubblicato nel 2007 dai tipi della Editori Riuniti. Il paragrafo in questione racconta delle costruzione mediatica dele “fosse comuni” di Timisoara, durante la “rivoluzione” che depose Ceausescu in Romania. E’ un po’ lungo, ma armatevi di un po’ di pazienza e leggetevelo perchè alcune analogie con l’oggi sono quantomeno inquietanti.
Timisoara
Come avvenne realmente il massacro di Timisoara, il più spaventoso del secondo dopoguerra del XX secolo, sarà difficile raccontare, perche in realtà quel massacro non ebbe luogo. E’ possibile tuttavia fornire tutti i particolari della notizia sul massacro di Timisoara; poiché essa esistette realmente, e quindi può essere fedelmente ricostruita e ritrasmessa ai posteri, secondo spirito di verità. Quale sia poi la differenza tra l’uno – il massacro – e l’altra – la notizia – è precisamente il tema di questo libro. Tutto cominciò esattamente con il racconto di un anonimo cittadino del mondo, di nazionalità cecoslovacca, e quindi definito «viaggiatore cecoslovacco», domenica 17 dicembre 1989. Le tele-scriventi collegate con l’agenzia di stampa ungherese Mti trasmisero, quel giorno, un dispaccio in cui si affermava che, «secondo quanto riferito da un viaggiatore cecoslovacco, colpi di arma da fuoco sarebbero stati sparati a Timisoara». In quella stessa serata, la televisione di Stato ungherese, agevolmente captata a Vienna, rilanciò la notizia, stavolta senza far riferimento all’anonimo viaggiatore. Disse lo speaker: «Una grande manifestazione si sarebbe svolta a Timisoara per impedire la deportazione del pastore protestante Toekes». Ambedue le notizie erano vere. Una manifestazione si era effettivamente svolta a Timisoara, città romena a una quarantina di chilometri dalla frontiera, per difendere il pastore protestante Lazio Toekes, minacciato d’arresto dalla polizia del dittatore
Ceausescu, in quanto strenuo assertore dei diritti della minoranza ungherese; ed effettivamente c’erano stati degli scontri tra i poliziotti e i dimostranti durante i quali i primi avevano sparato contro la folla. La cosa era avvenuta, in realtà, non la domenica, ma il venerdì precedente, 15 dicembre. Questa nostra ricostruzione riguarda però non i fatti, ma la notizia, ed è quindi corretto collocare la data d’inizio dell’evento, destinato a divenire mondiale, al giorno 17. La domenica sera nel mondo, per ragioni del tutto comprensibili, le redazioni dei giornali — siano essi televisivi o della carta stampata — lavorano in numero ridotto, e di malavoglia. Alcune, addirittura, sono chiuse perchè saltano il numero di lunedì. Minore è, di domenica, il flusso di notizie di agenzia, quasi nulla l’attività delle sedi istituzionali, difficile è ottenere conferme o particolari. Prevalgono le informazioni sugli incidenti stradali e soprattutto sugli avvenimenti sportivi. Un non disprezzabile alimento alle cronache viene dagli eventi internazionali, anche se spesso non è semplice avere sotto mano lo specialista che sappia valutarli. In quella domenica del dicembre 1989 solo la radio di Vienna, in tarda serata, ritenne opportuno riferire, con tutte le cautele del caso, degli incidenti nella cittadina romena; non la tv francese, non quella italiana, né alcuno dei telegiornali americani, pur favoriti dal fuso orario. L’indomani, lunedì, solo due grandi giornali europei scrissero di Timisoara: il Corriere della Sera in Italia e Le Monde in Francia: in ambedue i casi non si parlava di vittime ma di «dure cariche della polizia, con numerosi arresti». Fu il martedì 19 dicembre, in tutto il mondo, l’inizio vero del dramma raccontato dai grandi organi di informazione. «Sangue a Timisoara» secondo The Washington Post, tra i più autorevoli giornali statunitensi. Le notizie erano da tutti riferite, una volta tanto, senza apprezzabili accentuazioni o tendenziosità legate alla posizione politica. Il quotidiano italiano collocato più a sinistra riportò le inquietanti dichiarazioni di «uno scrittore romeno emigrato in Jugoslavia»: i morti a Timisoara «sarebbero trecento, quattrocento». La cittadina romena, in realtà, era difficilmente raggiungibile. Chiuse le frontiere in entrata, difficili i collegamenti telefonici, controllate dal regime di Ceausescu le trasmissioni radio, erano i cittadini che attraversavano il confine verso l’Ungheria le fonti primarie dell’informazione. Fu cosi che alcuni compagni di sventura (e di testimonianza) del già citato «viaggiatore cecoslovacco» fornirono al mondo i dati e i resoconti di una carneficina orrenda, destinata a rimanere nella storia. Tramite delle notizie furono, prevalentemente, le agenzie di Stato dell’Europa orientale, che vivevano in quei mesi un periodo di particolare curiosità e libertà, dopo gli straordinari accadimenti che avevano travolto i regimi comunisti dei rispettivi paesi. Il 6 febbraio di quello stesso anno, in Polonia, Solidarnosc, guidata da Lech Walesa, aveva imposto la famosa «tavola rotonda» al governo guidato dal generale Jaruzelski. II 2 maggio era caduta la cortina di ferro tra Austria e Ungheria. Tra l’8 ottobre e il 9 novembre si era dissolta la Rdt: Honecker era stato travolto, l’odioso Muro di Berlino, simbolo della guerra fredda, smantellato. Infine, tra il 17 novembre e il 9 dicembre 1989, era insorta pacificamente la Cecoslovacchia, e Husak era stato deposto. Adesso, finalmente, si muoveva anche la marmorea Romania, sinora immobilizzata sotto il tallone di ferro di Ceausescu, ultimo satrapo orientale. Ma come, realmente, si muoveva? Le notizie raccolte dalle agenzie est-orientali e rilanciate (da France Presse e United Press, dalla britannica Reuter, da Radio Free Europe) sul circuito internazionale dell’informazione, si facevano giorno dopo giorno, ora dopo ora, più drammatiche: la repressione da parte della famosa «Securitate», la polizia politica di Ceausescu, era tremenda: il numero dei morti, anche se ancora non definitivo, impressionante. 250 cadaveri solo nell’ospedale di Timisoara, riferì la Radio ungherese; e «un medico» testimoniò che erano stati assassinati «trecento, quattrocento cittadini». Lo stesso numero — ricordate? — drammaticamente denunciato dallo «scrittore romeno». Chi dei due, ci si sarebbe potuto chiedere, aveva informato l’altro?
Le fosse comuni
Il pianeta seguiva con passione, attraverso i resoconti dei giornali e i comunicati tv (ancora del tutto privi di immagini) il susseguirsi incalzante degli eventi. Giovedì 20 dicembre, mentre in tante città del mondo cristiano era tempo di regali e di dolci sentimenti, piombò nelle redazioni, e fu rilanciata dalle rotative e dalle onde televisive la notizia del grande massacro. Due agenzie di stampa, l’autorevole Tanjug jugoslava e la Adn dell’ex Germania comunista, lanciarono il massimo allarme per Timisoara, città forse ormai «completamente distrutta». La cronaca della feroce repressione potè essere letta su due quotidiani jugoslavi, Vecernje Novosti e Ekspres Politika: bambini «schiacciati dai tank dell’esercito», donne incinte «trafitte dalle baionette», elicotteri che mitragliavano la folla. L’Europa non aveva mai visto, dagli orrori della guerra nazista in poi, analoghe scene di violenza e di sterminio. Fu l’Adn, per prima, a dare le dimensioni della tragedia (mentre a Bucarest, proprio il 21 dicembre, si consumava la fine politica del dittatore Ceausescu, contestato in piazza e costretto alla fuga): a Timisoara c’erano stati «4660 morti, 1880 feriti, tredicimila arresti, settemila condanne a morte». II giorno dopo arrivarono sugli schermi di tutto il mondo, come un pugno atroce alla bocca dello stomaco, le immagini del massacro. Fu la tv di Stato ungherese a dare la notizia che a Timisoara era stata ritrovata la prima delle fosse comuni dove erano stati seppelliti frettolosamente i cadaveri: 4630 erano le vittime accatastate in quella fossa. Subito dopo, la tv di Belgrado, e poi tutte le tv del mondo civile, diffusero le scene dei corpi torturati e mutilati, appena disseppelliti, impressionanti sotto le torce che li illuminavano nella notte. I morti nelle fosse comuni — rese noto la jugoslava Tanjug, citando i dati forniti dal Comitato di salvezza nazionale — erano 4632. I giornalisti provenienti dall’occidente poterono rendersi conto di persona soltanto venerdì 22 dicembre dell’entità del massacro. Le frontiere fino a quel giorno erano restate chiuse, e le notizie, terribili ma incomplete, venivano raccolte ai valichi di frontiera in particolare quello con l’Ungheria e quello di Vrsac, con la Jugoslavia — e attraverso i fili del telefono. Proprio per la particolarità — e la rarità — delle fonti, i resoconti apparvero per alcuni giorni molto simili, su tutti i grandi giornali internazionali. Ma anche dopo l’apertura delle frontiere, a cavallo dei giorni di Natale e subito dopo, i reportage dei maggiori osservatori giornalistici e d’America, di destra e di sinistra — furono sostanzialmente convergenti nei toni, nelle cifre, nelle descrizioni, nell’orrore umano e nell’appassionata condanna. Converrà perciò seguire l’evento attraverso le cronache del più diffuso quotidiano italiano: il Corriere della Sera (tenendo presente che non diverse furono le corrispondenze del Figaro, o del New York Times). Il giornale titolò mercoledì con sicurezza: «A Timisoara è stata una strage, sparavano anche dagli elicotteri», mentre una nota di cautela fu introdotta il giorno dopo dal corrispondente da Bonn («le testimonianze dirette sono poche; molte sono quelle indiret¬te, di seconda o terza mano»). Il giorno dopo, l’inviato al valico di frontiera fu in grado di riferire più precisamente le notizie da Timisoara: «I morti vengono praticamente “rubati” dalle autorità, portati via anche con camion per la spazzatura e sepolti probabilmente in fosse comuni nella “Foresta verde”, il parco vicino a Timisoara». La prima corrispondenza diretta fu telefonata dall’inviato del Corriere — così come da alcuni suoi colleghi che erano riusciti a raggiungere Timisoara, in una Romania attraversata dal moto rivoluzionario, mentre Ceausescu e la moglie erano braccati nel loro disperato tentativo di fuga — nella serata di venerdì 22 dicembre. Fu pubblicata perciò il giorno dopo. Era densa ed emozionata, sotto il titolo: «Timisoara, la città martire, esulta per la libertà — Ma, nelle fosse comuni, giacciono 4700 vittime della repressione». Si leggeva: «Fa un certo effetto essere a Timisoara tra i primi, poche ore dopo che Ceausescu e caduto. La gente gioisce nelle strade, seppur sulla città si senta il peso dei 4700 morti, i cui corpi sono stati trovati in fosse comuni, dei 2000 feriti».
Furono prime pagine dense di tragedie e di sangue quelle degli ultimi giorni dell’anno. Nel frattempo, gli Stati Uniti avevano infatti dato avvio all’operazione «Giusta causa», cioè all’invasione di Panama per la cattura dell’«uomo forte» Noriega. Poiché le notizie sul bombardamento della città centroamericana (con alcune migliaia di morti, si seppe poi) non avevano attraversato le strette maglie della censura imposta «per motivi di sicurezza» dal Pentagono, il giornale si limitava a riferire prudentemente, intanto, dei «diciannove militari Usa rimasti uccisi» e titolava: «Panama: gli Stati Uniti in difficoltà inviano altri 2000 soldati». Ma c’era soprattutto, a sovrastare nell’informazione l’orrore di Timisoara e il mistero di Panama, la rivoluzione in pieno corso a Bucarest. Alla vigilia di Natale il titolo a nove colonne era sugli eventi nella capitale romena, e il reportage diceva: «Sulle strade giacciono migliaia di corpi senza vita. E probabilmente la più grande strage dalla fine della seconda guerra mondiale in poi».
A Bucarest come a Timisoara, più terribilmente che a Timisoara. O forse no. Nelle pagine interne, la corrispondenza dell’inviato nella cittadina martire aveva infatti per titolo: «Abbiamo assistito alla battaglia di Timisoara» e raccontava: «I morti e i feriti si stanno contando in queste ore. Siamo certi che è stata la maggiore battaglia urbana del dopoguerra». Nella settimana da Natale a Capodanno la tragedia romena fu la regina degli eventi televisivi. Fu quella, due anni prima della guerra del Golfo, la grande prova mondiale della mitica Cnn. Le telecamere mostravano, le voci fuori campo commentavano, gli inviati sul posto raccontavano. Persino le riunioni del Comitato rivoluzionario appena insediatosi a Bucarest si svolsero in diretta televisiva, nella sede della tv di Stato espugnata dagli insorti ancor prima dello stabile del Comitato centrale. La realtà era sotto gli occhi di tutti, dunque. Mai avvenimento planetario era stato se¬guito con tanto meticoloso scrupolo di verità. «La Storia in diretta» si disse con giustificata enfasi. L’orrore delle immagini televisive da Timisoara era inenarrabile. Sul maggiore giornale italiano così descrisse la scena l’inviato, finalmente libero, come tutti i suoi colleghi, di vedere con i propri occhi, guardarsi intorno, visitare cimiteri e ospedali, raccogliere testimonianze: «La repressione ha provocato migliaia di morti… Cresce l’angoscia dei volontari che ancora ieri scavavano nel piccolo cimitero dei poveri. Di una donna incinta e stato trovato il corpo vol ventre lacerato e con appoggiato al fianco il feto… Quasi ogni famiglia, qui, ha un figlio o un parente tra i morti… Tortura. Parecchi corpi ne recano i segni, con ferite che in alcuni casi vanno dal mento al bacino». Le stesse scene erano minuziosamente descritte da tutti gli inviati, su giornali di diverso orientamento politico: per esempio l’Unità («Quattromilacinquecento cadaveri irriconoscibili, mutilati, mani e piedi tagliati, con le unghie strappa¬te») o La Stampa («Migliaia di cadaveri nudi legati col filo spinato, donne sventrate e bambini trucidati nel massacro di Timisoara») in Italia; su Libération, in Francia: («Migliaia di corpi nudi e mutilati nel carnaio di Timisoara»). Eccola, cupa e tremenda, la verità di Timisoara. Non ci libereremo facilmente – pensò ogni pacifico cittadino del mondo – del ricordo di questo crimine.
II custode del cimitero
C’e sempre qualche persona che riesce a vedere l’imperatore nudo (quando tutti affermano concordemente che e splendidamente vestito), in mezzo ai grandi eventi della storia. A Timisoara si aggiravano tra gli altri, in quei giorni, due cronisti venuti dall’Italia per conto di un quotidiano di provincia: arrivati a spese proprie, per «vedere la rivoluzione». Appena lasciate le valigie all’Hotel Continental, i due – Michele Gambino e Sergio Stingo – corsero al cimitero, per osservare dal vivo le immagini ossessivamente ritrasmesse dalla tv. Raccontarono poi: «Eravamo in preda a un misto di oppressione e di curiosità: in una casetta di cemento, una delle camere di tortura della Securitate, c’e il cadavere di un uomo su un tavolaccio di ferro, la pancia squartata e poi grossolanamente ricucita. Poco distante, in fila su di un lenzuolo, ancora cadaveri, una ventina, nudi. Uno sembra trattenere le viscere rinsecchite tra le mani. Due metri più avanti la scena più orrenda, il corpicino di un neonato sul ventre di una donna. Ma c’e qualcosa di strano, almeno la metà dei cadaveri sono in avanzato stato di decomposizione, non c’e bisogno di essere degli esperti per stabilire che la morte risale a diverse settimane fa; e ancora: la “madre” del bambino ha almeno una sessantina d’anni, e il suo cadavere e peggio conservato di quello del presunto figlio». Dunque, la carneficina non è carneficina? I morti non sono morti? La realtà non e la realtà, la verità non e la verità? L’imperatore non è vestito? I cronisti si rivolsero non al Tribunale della Storia, ma al custode del cimitero, che si autodefinì «direttore». Quei corpi, spiegò l’uomo, sono di vagabondi: barboni, ubriaconi, derelitti; questo, aggiunse, e il cimitero dei poveri. Non c’era stata tortura, ma autopsia: perciò i cadaveri erano tagliati dal mento all’addome, e ricuciti. I corpi erano stati disseppelliti, illuminati, fotografati, ripresi dalle telecamere. «Ho detto a tutti la verità, – si disperò il becchino, – l’ho detta ai giornalisti. Ma nessuno mi ha dato retta».
Il giornale di provincia italiano aveva probabilmente in mano lo scoop del secolo. Ma non pubblicò una riga. Com’era possibile che la tv mentisse, che i giornali mentissero? Timisoara non era dunque Timisoara? Dieci giorni più tardi il racconto dettagliato dei due cronisti fu pubblicato da un settimanale nazionale, che titolò: «Quelle cifre inventate, quei cadaveri truccati». Ma dieci giorni più tardi la Romania già non esisteva più, inghiottita dalle pagine interne dei quotidiani e dalle code dei telegiornali.
Scrissero i testimoni del «non evento»: «Al nostro ritorno in Italia confrontammo ciò che avevamo visto con quello che avevano scritto i giornali, e avemmo la buffa impressione di essere stati da qualche altra parte». Sensazione analoga dovette provare l’inviato di una grande agenzia occidentale, che non riuscì a capacitarsi di come avessero potuto essere uccisi sessantamila romeni (questa era la cifra rimbalzata in tutto il mondo) in una città, come Bucarest, in cui solo pochi edifici apparivano distrutti o danneggiati. Raccontò poi: «Gli ospedali erano chiusi alla stampa. Ma a ogni angolo c’erano candeline accese, a centinaia. E qualcuno disse: ogni candelina, una vittima. Dunque io, giornalista, avrei dovuto scrivere il pezzo contando le candeline?». Un altro testimone incredulo, nella capitale, fu Guy Sibton, che poi espose i suoi dubbi su un prestigioso settimanale francese: «le strade di Bucarest erano più tranquille di quelle di Parigi. In tre giorni tutto era finito? Se nei giorni 22, 23 e 24 dicembre migliaia di proiettili sono stati fatti esplodere dai carri armati sulla piazza del Comitato centrale dai miliziani, dai terroristi, come mai la sede dei democratici e stata miracolosamente risparmiata?». Stupide domande. Non aveva fatto già vedere tutto la tv? E poi, tanti giorni dopo, la Romania era scomparsa. L’informazione cercava già altre vicende da illuminare. Un medico di Medecins Sans Frontières raccontò al ritorno in Francia una sua incredibile verità: «Siamo partiti in venti, tra medici e chirurghi, con quattro tonnellate di materiale. I chirurghi sono tornati immediatamente indietro perche non c’e stato bisogno del loro aiuto». Ma quel medico non leggeva i giornali, non vedeva la televisione? Non sapeva distinguere, l’incauto, tra verità e bugia?
Il mistero dei corpi scomparsi
I giorni a cavallo di Capodanno furono di duro lavoro per i rappresentanti, a Timisoara, dell’informazione planetaria. Si rincorrevano le voci di nuovi ritrovamenti, di nuove fosse comuni. Secondo quanto scrissero, al ritorno, i due esterrefatti cronisti italiani che si erano intrattenuti col guardiano del cimitero, un giorno, durante una conferenza stampa sui massacri, «a un certo punto un ragazzo romeno con al braccio la fascia gialla, blu e rossa della rivoluzione si impadronisce del microfono e urla: “Non e vero niente, vi stanno prendendo in giro. Nessuna fossa e stata trovata”». All’ospedale, il bilancio dei morti durante le sparatorie di metà dicembre, fatto dai medici, non variava: «Tanti, forse una cinquantina». Tanti? Ma tanti, nel mondo, voleva dire 4600. Anzi, quattromilaseicentotrentadue, secondo le più aggiornate, più informate, più diffuse, più verificate notizie. Qualcuno osava mettere in dubbio ciò che tutto il mondo sapeva per certo?
I testimoni dell’informazione planetaria si chiesero dove poteva essere la verità nascosta, e giunsero alla conclusione che si trattava di un «mistero», che presto sarebbe stato svelato. Un inviato si chiese: «Dove sono finiti tutti quei corpi straziati dai mitra e dai cingoli dei carri armati, quei vecchi trucidati, quei bambini uccisi assieme ai genitori? E questo il mistero che incombe su questa città, questa la tragedia che pesa sulla vita della gente». Un altro informò: «I cadaveri degli assassinate sono stati fatti sparire subito dagli uomini della Securitate». Un terzo, più esplicitamente, denunciò «una mostruosa operazione di occultamento della verità» e spiegò: «Le squadracce di Ceausescu sono riuscite a far scomparire la maggior parte dei cadaveri, e quelli recentemente riesumati dalle fosse comuni, a testimonianza della ferocia del regime, non bastano a far quadrare i bilanci ufficiali, che parlano di 4700 morti. La cifra po¬trebbe essere confermata nel giro di tre o quattro mesi».
Ciò che era realmente accaduto
«Nel giro di tre o quattro mesi», tuttavia, la cifra non fu confermata. Il che non implicò, ovviamente, che essa fosse messa in dubbio. II massacro di Timisoara, mostrato più e più volte alla tv, raccontato dai quotidiani, fotografato dai settimanali e dai mensili, era ormai consegnato alla storia. Su di esso si erano ormai esercitati i commentatori, per scoprirne le radici, valutarne le connessioni, indicarne le cause remote e gli effetti futuri. Timisoara era Timisoara, e basta. Si può aspettare forse una conferma burocratica «entro tre o quattro mesi», per sapere che il sole sorge ogni giorno a oriente?
Il 24 gennaio 1990 una rete televisiva tedesca trasmise testimonianze oculari da Timisoara secondo cui «le immagini di orrore, della scoperta della fossa comune, mandate in onda durante i giorni più caldi della rivolta, sono una messa in scena, sono false». La France Presse batte il seguente dispaccio: «Le immagini dei cadaveri mutilati mostrati dalle televisioni del mondo intero in seguito al massacro di Timisoara non sono altro che il risultato di una messa in scena… Tre medici di Timisoara hanno affermato che i corpi di persone decedute di morte naturale sono stati prelevati dall’Istituto medico-legale e dall’ospedale della città ed esposti alle telecamere della televisione come vittime della Securitate». La smentita non ebbe praticamente spazio sui grandi giornali d’informazione e fu praticamente ignorata dalle maggiori catene televisive. Fu considerata alla stregua delle bizzarrie informative (la scoperta di un Hitler vivo ed esule, o di una moglie segreta di Stalin) che periodicamente vengono lanciate sul mercato delle notizie, a effimera smentita di eventi storicamente accertati. Stavolta tuttavia qualcuno si diede la pena di svolgere nuovi accertamenti in una Romania uscita dalla febbre della rivoluzione. Le fonti interpellate furono concordi, le conclusioni molto concrete. Dopo una inchiesta svolta sul posto, il quotidiano francese dedicò infine otto pagine e la copertina al «falso massacro» di Timisoara. L’editoriale diceva tra l’altro: «Libération, come altri – ma questa non può essere una scusante – ha dunque pubblicato una informazione priva di ogni fondamento». Pochi giorni dopo, Le Nouvel Observateur si chiedeva: «Romania: chi ha mentito?» e, ricostruendo le false notizie da Timisoara, constatava: «In cinque giorni – dal 20 al 25 dicembre 1989 – l’informazione ha deragliato, come mai era successo in passato».
Ciò che ai due cronisti italiani era parso scandalosamente evidente, fu confermato ufficialmente (e burocraticamente) dalle ricostruzioni anagrafiche delle autorità romene, riferite dai giornalisti di Libération: «Madre e figlio assassinati» erano, rispettivamente: Zamfira Baintan, una anziana alcolizzata morta a casa sua di cirrosi epatica l’8 novembre del 1989, e la bimba Christina Steleac, morta per una congestione, a casa sua, a due mesi e mezzo di età, il 19 dicembre 1989.
L’autocritica pubblica dei due giornali francesi fu un bel gesto, e sarà forse ricordato in qualche manuale di giornalismo. Non cambiò, tuttavia, il corso dell’informazione, né quello della storia. Molti grandi giornali del pianeta riferirono, in pagina interna, dei «nuovi sviluppi» dell’«affare di Timisoara», in modo così conciso che pochi lettori furono messi in grado di valutarli. Altri addirittura, soprattutto le tv, ignorarono del tutto la questione. In Italia solo alcuni specialisti trovarono il tempo di riflettere su quella che Michel Castex, dell’Afp, defini «un mensonge gros comme le siecle». Uno di loro osservò acutamente che «costretta a inseguire, la carta stampata ha cercato di riprodurre le tecniche televisive, abbandonando il suo ruolo e la sua funzione di riflessione e amplificando, invece di contrastare, la “verità” delle immagini».
Che cosa era realmente accaduto? Molti in quei giorni di dicembre, in Romania, erano evidentemente interessati a una drammatizzazione degli eventi. Eppure nessuno al vertice (nel clan del dittatore o tra i ribelli) aveva il reale potere di manipolare o censurare in modo efficace, se non attraverso rozze menzogne propagandistiche. I giornalisti, per parte loro, non avevano certo complottato per ingannare l’opinione pubblica mondiale. Le redazioni in Europa e in America, infine, avevano selezionato, valutato, e pubblicato. Le tv avevano trasmesso immagini, nient’altro che immagini: la Storia in diretta. Tutto dunque era avvenuto sotto gli occhi di tutti, secondo routine e senza consapevoli inganni. E tuttavia la realtà non fu vista, ne fu raccontata. Furono raccontate le notizie; ma le notizie erano del tutto difformi dalla realtà. Erano un’altra realtà. Ciò che resta nella coscienza del mondo civilizzato, fu la tremenda carneficina, furono le fosse comuni scoperte nel cuore dell’Europa. Restarono le notizie di una realtà inesistente, non la realtà che era esistita. I morti furono dunque, nella storia e nel ricordo dell’umanità civile del pianeta, 4632. Ecco ciò che accadde realmente a Timisoara, nel mese di dicembre del 1989.