Angela: Scrivono per noi…
Con la puntata odierna della rubrica lasciamo la parola ad Angela, una compagna di Action che da anni ormai si occupa delle relazioni con i movimenti palestinesi; oltre ad essere stata artefice, con molti altri compagni, dell’esperienza del progetto “Sport sotto l’assedio”, Angela è stata anche nostra compagna di viaggio nella recente visita che il convoglio in memoria di Vittorio Arrigoni (CO.R.UM.) ha fatto a Gaza nello scorso mese di maggio. Da poco tornata dai territori della West Bank, le abbiamo chiesto alcune impressioni a caldo su quanto sta accadendo al popolo palestinese sotto il silenzio dei media nostrani, in un momento storico in cui il dibattito sul riconoscimento di uno stato palestinese è entrato con prepotenza persino nell’agenda ONU.
Una parte dei palestinesi, con cui mi è capitato di discutere in quei giorni in West Bank, ha spesso tracciato un collegamento tra la Dichiarazione di Indipendenza che Yasser Arafat ha annunciato nel 1988 e l’attuale richiesta presentata alle Nazioni Unite per il riconoscimento dello Stato Palestinese.
Questo mi ha alquanto stupito, perchè la distinzione è significativa.
La prima era l’espressione del desiderio di libertà e di indipendenza di un popolo, nonostante la presenza di un occupante nei territori occupati nel 1967.
La richiesta attuale, invece, se fosse mai approvata, pone la questione palestinese in modo completamente diverso all’interno della comunità internazionale. Cioè trasforma lo status giuridico della questione palestinese in quella di uno stato occupato ed un popolo occupato.
Si tratterebbe di una trasformazione storica che dovrebbe permettere ai palestinesi di portare avanti i loro diritti attraverso il sistema giuridico internazionale, qualunque cosa ciò potrebbe comportare.
Quale sarebbe l’effetto sul diritto al ritorno dei rifugiati? O sulla capacità dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina di rappresentare il popolo palestinese?
Indipendentemente da queste differenze tra lo status giuridico dei due eventi storici, la domanda chiave è: perché questa nuova manovra diplomatica è così priva di sostegno popolare?
L’immortale Dichiarazione d’Indipendenza pronunciata da Arafat era il risultato di una straordinaria lotta rivoluzionaria con la prima Intifada. E’ stato un evento senza precedenti che non era solo un atto dell’ufficiale organo rappresentivo di un popolo (l’OLP), ma è stato un atto del popolo stesso. Questo era nella natura orizzontale, piuttosto che gerarchica, della prima Intifada, che comprendeva l’intero spettro politico e sociale palestinese.
Negli ultimi vent’anni si produce un lento ma costante distaccamento della popolazione palestinese dal suo organo di rappresentanza.
Una sempre più crescente attenzione su se stessi, da parte degli organi istituzionali, ha portato ad emarginare il concetto di lotta di liberazione, perdendo la sua caratteristica unità popolare.
La maggior parte delle persone vedeva questa “Mission di settembre” come un atto/dovere delle istituzioni ufficiali palestinesi, non della popolazione.
Il ruolo di tutte le fazioni politiche è cambiato, in particolare quello di Fatah, che è ormai visto come il partito di governo piuttosto che un “Movimento di Liberazione”.
La gente non ha perso solo il collegamento con i partiti, ma ha perso fiducia nelle loro azioni.
Un esempio dal passato non troppo lontano è la reazione ufficiale palestinese al rapporto Goldstone su Gaza. Nel caso del rapporto, la società civile palestinese e le organizzazioni legali internazionali hanno lavorato per mesi per raccogliere prove e processare Israele per la sua brutalità durante l’attacco a Gaza del 2008/2009.
Mentre l’Autorità Palestinese si ritirò da quella posizione a Ginevra, dopo le minacce di Israele di sospendere la consegna delle entrate fiscali palestinesi e le minacce americane di sospendere tutti gli aiuti finanziari all’Autorità palestinese.
Alla luce di questo, si chiedevano se queste stesse minacce potessero portare Abu Mazen a ritirare la proposta di riconoscimento alle Nazioni Unite.
Si parlava della richiesta di riconoscimento dello Stato Palestinese, e insieme si parlava della ripresa dei negoziati, e se la”Missione di settembre” non dovesse riuscire, i funzionari palestinesi parlavano di strategie alternative a disposizione. Ma quali?
La maggior parte della società palestinese non si sente partecipe di questo processo e/o di queste strategie alternative. Nulla è chiaro e trasparente.
I Palestinesi non sono mai stati consultati e/o informati su questo processo.
L’opinione più comune è che, qualsiasi risultato si avrà, riporterà i palestinesi indietro in una situazione di caos assoluto, in cui non si risolverà nulla. Sia il si che il no del Consiglio di Sicurezza potrebbero provocare ulteriori divisioni nella popolazione palestinese, certo questo processo non contribuirà a costruire la riconciliazione interna palestinese, nè a risolvere la diaspora palestinese, ma anzi aiuterà il processo di normalizzazione.
Dall’altra parte, a prescindere dal risultato di settembre, Israele non smantellerà gli insediamenti in Cisgiordania e nè riconoscerà mai lo Stato Palestinese.
In questi ultimi due mesi, abbiamo visto il governo israeliano fronteggiare diverse difficili situazioni, come la rottura con la Turchia; la delicatissima situazione con l’Egitto, con cui non volevano assolutamente, almeno per il momento, che scoppiasse alcuna offensiva; il movimento interno di protesta che dava fastidio, che richiedeva diritti e giustizia sociale, casa, lavoro, provvedimenti anti-crisi che però non parlava dei diritti di giustizia sociale dei palestinesi, che è stato molto attento a non dire una parola sugli investimenti nella sicurezza, negli armamenti e nella continua costruzione di colonie; il duro colpo del fallimento dell’Agrexco grande risultato della campagna BDS (Boicottaggio Disinvestimenti Sanzioni) e i sabotaggi al gasdotto. Tuttavia non hanno mai perso di vista il loro principale obbiettivo.
In agosto hanno lanciato l’operazione Summer Seeds, in vista della richiesta di riconoscimento dello Stato Palestinese all’Onu. Hanno distribuito gas lacrimogeni, granate e altre armi ai coloni, organizzato addestramenti per i coloni, simulato attacchi e hanno richiamato 1500 riservisti.
Non che nei giorni precedenti alla dichiarazione o in quelli successivi siano mancati gli attacchi dei coloni e dell’esercito israeliano con continue distruzioni di pozzi, alberi e terre e furti di bestiame.
In molti villaggi hanno organizzato gruppi di sicurezza per prevenire gli attacchi dei coloni, gruppi formati dai giovani palestinesi, dagli abitanti dei villaggi, dalle associazioni per i diritti umani e non solo. Della strategia per alzare la tensione facevano parte anche le chiusure dei check point senza avvertimento e senza alcuna motivazione, l’attività aerea notturna e la comparsa di notte di branchi di cani.
E mentre tutto il mondo seguiva i discorsi dei grandi della terra nel famoso salone delle Nazioni Unite, nessuno prestava attenzione alle donne e agli uomini che uscivano alle 4 di mattina con i sassi in mano per difendersi dai cani, nessuno parlava della mancanza d’acqua, delle ruspe israeliane che demolivano pozzi, dei continui attacchi dei coloni, di decine di ragazzi feriti e intossicati dal gas, della morte di Issam Kamal nel villaggio di Qusra.