Diritto all’insolvenza, alternative politiche e manovre elettorali: qualche appunto in vista del 15 Ottobre
Continuiamo a leggere analisi sempre più complicate sulle crisi che stiamo attraversando. Ormai, se non si possiede almeno un master in gestione aziendale, è difficile stare dietro alle ultime osservazioni, gli ultimi spunti o riflessioni del professore di turno. Analisi che, di media, durano qualche giorno, cestinate al nuovo aumento degli spread, ad una qualche nuova dichiarazione di Draghi o Tremonti o al rendimento decennale dei BTP, per non parlare delle percentuali dei mercati azionari. Insomma, la carenza di una teoria forte (o che almeno regga a qualche titolo dei giornali) e di una prospettiva politica raramente è stato così evidente. Soprattutto, non riusciamo più a sintetizzare il quadro sociale esistente, rinchiudendoci nell’iperprofessionalità di analisi tecniche, quindi non politiche. Difficili da capire per gli addetti ai lavori, figurarsi dai lavoratori (o dalle moltitudini) alle quali dovrebbero rivolgersi.
Ci hanno anche stufato, ma questo da un pezzo, quelli per cui va tutto bene, grande è la confusione sotto il cielo dunque la situazione è eccellente. Coloro i quali intravedono prospettive rivoluzionarie, ipotesi di regime change, situazioni feconde per un cambiamento politico ed economico, o addirittura quelli che parlano di crisi del capitalismo e dunque di una sua prossima capitolazione (!). O tutti quelli che, al prossimo mini corteo o alla prossima protesta studentesca, ci verranno puntualmente a illuminare su ciò che sta cambiando in Italia, della misura colma, di nuove coscienze politiche o sociali. Niente gioia di vivere, basta! Stiamo vivendo un epoca di fallimenti politici continui, in cui il capitale domina incontrastato e in cui la nostra forza di incidere nelle dinamiche del potere è prossima allo zero. Si può – anzi si deve – essere ottimisti rispetto alle proprie volontà politiche, ma non rispetto ad analisi di una situazione che definire disperata e senza vie d’uscita (se non a destra, o neoliberiste, o cinesi, che dir si voglia), è poco. Anche quando ci analizziamo noi stessi, come movimento: continuare a dire che siamo fortissimi non porterà molto lontano, quantomeno in questi anni non ha portato da nessuna parte
Notiamo anche come da tutti i discorsi politici a noi vicini sia completamente scomparso il conflitto sociale come arma per incidere sulla realtà politica ed economica attuale. E questa è la necessaria conclusione di chi in questi anni si è affannato a spiegarci la natura finanziaria di questa crisi. Sono i mercati azionari che hanno prodotto la crisi, cosa possiamo noi nei confronti dei mercati? Nulla, evidentemente, se non sperare in qualche pallida riforma o regolamentazione che la politica dovrebbe mettere alla finanza, oppure in iniziative politiche assolutamente riformiste come la Tobin tax, che rispetto ad altre analisi dalle nostre parti assume anche un valore quasi rivoluzionario. Insomma, siamo giunti al punto di implorare gabelle verso i movimenti dei capitali globali. Richiedere, implorare, al più farci eleggere per tornare a richiedere e implorare. Al più sperare, da bravi cristiani, nella bontà di chi ci governa.
E’ l’utilizzo cosciente della sineddoche, cioè di quella figura retorica che porta a scambiare la parte con il tutto. L’aspetto parziale, e cioè la crescente finanziarizzazione dell’economia, viene, a volte consapevolmente a volte meno, scambiato con il tutto, e cioè con le nostre condizioni materiali d’esistenza. Da una discende l’altra, quindi per migliorare le nostre condizioni, i nostri diritti, i nostri redditi, dobbiamo riformare (o abbattere, nelle visioni più audaci) la finanza. Siamo tornati, insomma, al socialismo utopistico pre-marxiano: sperare nell’autoregolazione dei mercati finanziari. Senza capire che parlare di mercati finanziari, imprenditori virtuosi o dei politici oggi in parlamento non significhi parlare della stessa identica cosa.
Eppure sin dagli anni novanta fior di autori ci stavano mettendo in guardia sulla prossima crisi da sovrapproduzione, incrementata dall’effetto dei mercati azionari che nel frattempo avevano moltiplicato la produzione di valore per le imprese. Senza scomodare Robert Kurz, che già nel 1991 parlava di prossima crisi da sovrapproduzione imminente visto lo strabordante aumento di produzione e valore a scapito delle condizioni di vita dei lavoratori occidentali (alla faccia della lungimiranza!), basterebbe essersi letti un interessante libro di Gallino del 2005, “L’impresa irresponsabile”. Scritto in cui, due anni prima del fallimento Lehman Brothers e cinque prima della crisi economica, il benemerito professore torinese ci metteva in seria guardia dalla piega che aveva preso la produzione nel mondo e lo strumento della finanza come moltiplicatore dei profitti per le imprese.
Insomma, nulla di nuovo, e noi come sapete lo andiamo dicendo da anni, altro che quel maledetto di Roubini. Ma erano anni in cui non andava di moda parlare di produzione e di lavoro, magicamente scomparsi dal dibattito politico. Oggi che è tornato in auge, però, si sconta l’evidente gap culturale di questi decenni. E infatti si continua a non parlare né di produzione, ma semmai di re-distribuzione, né di lavoro, ma semmai di welfare. Insomma, partiamo sempre dall’aspetto finale del problema, e non dalla sua origine (che poi sarebbe il ruolo storico delle socialdemocrazie, quelle di garantire uno sviluppo capitalista con riforme redistributive popolari; trovarsi in compagnia di tali opzioni politiche lascia a dir poco perplessi, visti gli anatemi da certe parti politiche verso questi modelli di gestione del capitalismo).
[Tanto per aprire una piccola parentesi, vogliamo ricordare che non solo i lavoratori dipendenti nella manifattura continuano ad aumentare vertiginosamente nel mondo, ma anche in Italia i lavoratori dipendenti dal capitale sono aumentati, rispetto agli anni ’70, dal 71% al 76%; e di questi, i lavoratori nel settore manifatturiero sono rimasti praticamente stabili in questi quarant’anni (4.900.000 nel 1970 – 4.400.000 nel 2007).Basta questo per rispondere a chi parlava di fine del lavoro, o di fine del lavoro salariato, o di fine della teoria del valore, o di fine della storia, perché no, tanto i presupposti sono gli stessi].
Su questo, rimandiamo all’imprescindibile serie di saggi raccolti nel volume “Nord operaio”, edito dalla Manifestolibri nel 2007, che noi già recensimmo a suo tempo
E invece noi dobbiamo tornare a parlare delle nostre condizioni di vita. Dobbiamo ribadire con forza, in ogni dove, che le nostre condizioni economiche erano disastrate ben prima del 2007, che i nostri stipendi si andavano abbassando da decenni, che i nostri diritti sul lavoro e nella società si stavano poco a poco erodendo sensibilmente ma inesorabilmente molto prima che uscisse fuori questa storia delle finanza cattiva e dell’economia industriale buona. Cose però di cui abbiamo abbondantemente parlato.
Il terreno culturale su cui ci stiamo “scontrando” è quello preparato dal capitale. Per il capitale, infatti, parlare di riforma delle finanza non costituisce assolutamente un problema. Anzi, è il sistema stesso ad avere fazioni al suo interno pienamente favorevoli ad un ritorno al mondo della produzione vecchia maniera, ad una regolamentazione più efficace dei mercati finanziari. Tremonti lo va dicendo da tempo, e trovarsi oggi, per giunta in ritardo culturale e politico di qualche anno, in tale compagnia dovrebbe porci più di una domanda. Anche Soros rilascia interviste quotidiane sui mali della finanza, sulla necessità di una sua riforma, di un ritorno all’economia imprenditoriale. Anche Warren Buffet. Insomma, avete capito…
Detto questo, quindi, noi possiamo benissimo parlare di diritto all’insolvenza, di genesi e ruolo storico del debito pubblico, della finanziarizzazione dell’economia, ma sempre partendo dal presupposto che stiamo affrontando in maniera parziale un aspetto – anch’esso parziale – del ragionamento. La finanza non è riformabile, né tantomeno abbattibile, perché la finanziarizzazione dell’economia è la risposta che il sistema si è dato -dalla fine degli anni settanta in avanti – ad un sistema economico che non riusciva più ad assorbire tutto ciò che produceva, nonché alla caduta tendenziale del saggio di profitto per cui le aziende non riuscivano più a mantenere quel livello di profitto creato in precedenza. Quindi, la nostra crisi economica è data dalle scelte politiche in economia di questi anni, e non dalla cattiva finanza che ha fagocitato i bravi produttori.
L’aumento dei salari e degli stipendi, una riforma della contrattazione e dunque la fine dei contratti precari, l’aumento dei diritti dei lavoratori, devono tornare nell’agenda politica di chi vuole davvero cambiare il sistema, e non lasciare questi argomenti ai soliti sindacati o, peggio ancora, alle lotte dei lavoratori inascoltati da qualsiasi parte politica. Solo in questo modo, infatti, sarà possibile porre degli argini alla finanza nazionale e internazionale, togliendogli terreno da sotto i piedi, tentando di riappropriarci di parte del profitto che generiamo per la società. Insomma, in una parola, rimettendo al centro del discorso il conflitto sociale e lavorativo.
Inutile tentare la via di superflue e autoreferenziali rappresentanze, del tutto inconsistenti. Noi non dobbiamo gestire la crisi entrando nelle stanze dei bottoni, e neanche avallare le squallide manovre da nuovo Ulivo che si ergono all’orizzonte, ma cercare di produrre conflitto nella società per poter uscire dalla crisi economica. Tanto per essere ancora più chiari, oggi il nuovo Ulivo di Bersani e Di Pietro è l’alfiere politico del modello europeo di riforma dello stato in senso liberista, è l’esecutivo del presidente Napolitano, quello che applaude alle lettere che Trichet ci invia imponendoci di ridurre gli stipendi degli statali e di privatizzare tutto il privatizzabile. Sarà l’esecutivo amico di Draghi e della Marcegaglia, di Della Valle e di Profumo; insomma, a fronte di un centrodestra espressione delle piccole e medie imprese distribuite sul territorio, avremmo un centrosinistra espressione diretta della CONFINDUSTRIA e della grande impresa. Dov’è il governo amico in tutto questo? Solo perché Bersani non si diletta in dopo cena galanti nelle sua ville?
Non sappiamo se il 15 Ottobre sia la data giusta per far ricadere parte di questi ragionamenti, né se sia la modalità adeguata per far ripartire le lotte autunnali. Detto questo, la manifestazione è stata lanciata a livello europeo, ed è giusto seguire la scia di movimenti ben più coscienti del nostro. Declinandoli in italiano, come previsto, si sono aperti squarci di chi nel frattempo non ha atteso altro che appropriarsi di una data per immetterci i suoi argomenti, completamente slegati dall’idea iniziale di chi aveva immaginato la manifestazione europea. Per questo, lo ribadiamo, avremmo preferito una manifestazione unica europea. Non perché ci piace particolarmente la modalità dell’evento, ma piuttosto perché, diluiti in un contesto più generale, molte piccole manovrine avrebbero lasciato il tempo che trovavano. Prendiamo atto che così non è stato, consci che da qualche parte bisognerà pur ripartire.