Consigli (o sconsigli) per gli acquisti
Dopo due anni e mezzo Vladimiro Giacché aggiorna il suo “La fabbrica del falso”, che torna così in libreria, ancora per i tipi di DeriveApprodi (18 euro). L’introduzione alla nuova edizione si apre con un’obbligatoria citazione della “popstar” Assange, ma le rivelazioni di WikiLeaks non sono le uniche novità commentate da Giacché. A livello internazionale molto è cambiato dalla prima edizione del suo saggio, eppure le dinamiche del potere globale sono sempre le stesse. Certo, non ci sono più personaggi inquietanti come George Bush jr. o Tony Blair, ma i loro sostituti non hanno certo invertito la rotta. Particolare piacere si prova nel leggere il commento dell’Autore sull’operato di Barack Obama, su cui avevano riposto una grande speranza le tante verginelle della socialdemocrazia, insieme a qualche “anima candida” della sinistra radicale italiana. Il giudizio di Giacché appare chiaro sin dall’inizio: “Guantanamo è ancora lì, la spada di Damocle di una guerra è ancora sospesa sopra l’Iran, e periodici tentativi o anche solo ipotesi di attentati contribuiscono ad alimentare la fabbrica della paura…”(pp.5-6). È bene precisare un concetto: se fosse solamente un aggiornamento sulla catastrofica situazione dell’informazione a livello mondiale e su come questa venga utilizzata come “arma di distrazione di massa”, il lavoro di Giacché non avrebbe l’utilità che riveste. In quel caso, infatti, si inserirebbe nella lunga tradizione di saggi, report e annuari prodotti da Osservatori democratici, massmediologi, collettivi di media-attivisti, giornalisti indipendenti ecc… Non meriterebbe, insomma, sugli scaffali della libreria un posto più in vista di quelli dedicati alla produzione di un Ramonet e del gruppo di Le Monde Diplomatique (come “Geopolitica del caos”, datato ormai 1998) oppure al godibilissimo lavoro di Gennaro Carotenuto (“Giornalismo partecipativo. Storia critica dell’informazione al tempo di internet”): lavori che svolgono il meritorio compito di segnalare la mistificazione adoperata dai mezzi di comunicazione che amiamo definire “mainstream”, ma che soffrono – a nostro avviso – di un limite di fondo (neanche tanto piccolo), cioè riporre fiducia nella possibile esistenza di un’informazione effettivamente libera e plurale, anche all’interno di una democrazia liberale. Tale condizione ci sembra assolutamente utopistica, tanto probabile quanto l’esistenza, in seno allo Stato capitalista, di una università democratica, di un mercato equo, di una corretta dialettica maggioranza-opposizione, di una scuola multiculturale, di un welfare effettivamente attento alle fasce sociali in difficoltà: condizioni inammissibili all’interno di un regime liberal-democratico, in quanto in contraddizione con la normale situazione di sfruttamento da parte del capitalista sul proletario, con l’avvallo del ceto politico e delle istituzioni (in senso sociologico).
Tornando al lavoro di Giacché, qui c’è ben altro: l’Autore non ha dimenticato la formazione economicistica da cui proviene (è stato il curatore nel settembre 2009 di un bella e fortunata raccolta dei saggi di Marx sulla crisi economica, sempre per DeriveApprodi, recensito anche da questo blog, “Il capitalismo e la crisi”) e utilizza i suoi parametri per analizzare come l’informazione abbia trattato tematiche di attualità, dalla guerra in Iraq, al genocidio contro i palestinesi, alla Crisi… Ecco, ancora e finalmente: la Crisi! Non nascondiamo che le pagine nelle quali Giacché analizza i fiumi di inchiostro usati dalla servitù intellettuale per parlare della crisi sono quelle che ci hanno maggiormente interessato. L’Autore si concentra sulla “caccia al colpevole della crisi”: un’attività che ha coinvolto centinaia di commentatori, tutti impegnati nella ricerca di un presunto untore o di un sabotatore che abbia messo un granellino di polvere negli ingranaggi (ovviamente perfetti) del capitalismo finanziario: di volta in volta venivano tirati in ballo i mutui subprime, le società di rating, i bonus dei banchieri… Senza dilungarci troppo, proponiamo direttamente l’opinione di Giacché, peraltro presente sin dalle prima pagine: “Questi problemi [le crisi dell’economia capitalistica] sono costituiti dal periodico presentarsi di eccesso di capitale di sovrapproduzione di merci. La crisi distrugge il capitale e le forze produttive in eccesso, e questa distruzione di capitale va avanti sino a quando il capitale residuo torna a generare una redditività soddisfacente. Quanto più capitale in eccesso c’è, tanto più grave sarà la crisi e tanto maggiore la distruzione di capitale necessaria” (p.8). Finalmente! Finalmente qualcuno che scriva che “lo schema di lettura corrente va rovesciato: la crisi economica era precedente lo scoppio della crisi finanziaria, e non il contrario” (ancora p.8). Finalmente qualcuno che riporti le leggi dell’economia al centro dell’interpretazione di questi tempi infami. Qualcuno che dica che, se di crisi bisogna parlare, dobbiamo inquadrarla come crisi dell’economia reale e come adeguamento al sistema di opportunità del neoliberismo globale. Qualcuno che rimetta al centro della supposta “crisi” le fabbriche che chiudono, la produzione che si sposta, le esternalizzazioni, la perdita del potere di acquisto dei salari. Altro che la Borsa, i crac finanziari, i bonus del banchieri cattivi: tutte variabili eteree che contribuiscono a creare una patina di dissolvenza, quasi che la presunta Crisi fosse un alieno venuto da un mondo lontano, contro il quale fosse oggettivamente difficile combattere. È questa la menzogna più grande, la “mistificazione perfetta”, il miglior prodotto della Fabbrica del falso: dipingere questa crisi come diversa da tutte le altre, per far dimenticare gli strumenti (teorici e pratici) di cui si servì la resistenza dei proletari per combattere le precedenti.