referendum fiat 13 e 14 gennaio
In attesa del referendum illegale del 13 e 14 gennaio, riportiamo qui di seguito un contributo che Piergiorgio Odifreddi, uno dei pochi intellettuali militanti rimasti nel nostro paese, ha pubblicato sul suo blog..
da odifreddi.blogautore.repubblica.it
Più che un capitano d’industria, Marchionne sembra Sordi ne I vitelloni di Fellini: uno strafottente che, quando passa vicino agli operai, fa loro il gesto dell’ombrello e urla “Lavoratori, tiè”! Ma coi tempi che corrono, con comparse come Fassino e Chiamparino a fargli da spalla, e capipopolo come Berlusconi e Obama ad applaudirlo, c’è poco da sperare che l’auto su cui viaggia Marchionne si fermi di botto e lui sia costretto a scappare come Sordi.
Che Berlusconi lo applauda, non stupisce. Basta leggere Giovanni Agnelli, la biografia che Valerio Castronovo ha dedicato anni fa al fondatore della Fiat, per capire come nacque la sua industria e come egli fece i suoi soldi: esattamente come Mediaset e Berlusconi, appunto. Cioè, con aggiottaggi, denunce, processi, corruzioni di giudici, tangenti ai partiti, speculazioni edilizie (Bardonecchia vs. Milano Due), controllo di una stampa addomesticata (La Stampa vs. il Giornale), fiancheggiamenti dell’uomo forte (Mussolini vs. Craxi), e infine discesa in campo: da primo senatore a vita nominato dal Duce l’uno, e da presidente del Consiglio l’altro.
Dopo la guerra la nascente democrazia trovò insostenibile che un tale malfattore mantenesse la proprietà di un’azienda che era prosperata sulla pelle dei lavoratori, e nel collaborazionismo coi fascisti. Agnelli e Valletta furono spogliati della presidenza e dell’amministrazione della Fiat, ma la sporca realpolitik ebbe presto il sopravvento sui puri ideali. Agnelli ebbe la compiacenza di morire, e Valletta fu reintegrato nel suo ruolo. Vent’anni dopo sarebbe stato nominato senatore a vita dal socialdemocratico Saragat, così come l’erede del vecchio senatore, il rampollo Gianni, lo sarebbe stato nel 1991 dal democristiano Cossiga.
E fu proprio l’avvocato a dichiarare una volta che “la Fiat è governativa”. Cioè, pronta a scendere a patti con qualunque governo, pur di continuare a praticare la politica del capitalismo d’accatto che ha dissanguato l’Italia: gli utili agli imprenditori, le perdite allo stato (e dunque, ai lavoratori). Se la Fiat ha prosperato nel dopoguerra, è stato grazie a una dissennata politica di privilegio dell’auto privata a scapito dei servizi pubblici. A una vergognosa assimilazione degli operai alle macchine, sfruttati quando serve e parcheggiati in cassaintegrazione altrimenti. A una compiacente concessione di incentivi e rottamazioni, per sostenere artificialmente un mercato terminale e inutile.
Naturalmente, i privilegi concessi dal governo venivano doverosamente pagati dalla Fiat. La sua corruzione dei partiti politici dovette essere ecumenica, visto che misteriosamente fu solo sfiorata da Tangentopoli. E quando servì, come già aveva fatto il nonno col vecchio fascismo, così rifece il nipote col nuovo. Da senatore a vita, insieme agli ex-presidenti Leone e Cossiga, fornì un voto determinante per la fiducia al primo governo Berlusconi, nel 1994: anche se poi, durante il secondo governo Prodi, la destra finse di dimenticarsi di aver già essa stessa giocato questo gioco.
E fu lo stesso Agnelli a sdoganare una seconda volta Berlusconi nel 2001, quando rispose alle perplessità internazionali dichiarando che l’Italia non era una repubblica delle banane, e mandando un suo uomo al ministero degli Esteri. In precedenza, quello stesso ministero era stato ricoperto da sua sorella, sempre all’insegna del conflitto di interessi: di nuovo, un’altro motivo di compiacimento per Berlusconi, che non ha mai negato di avere per l’avvocato una vera e propria venerazione, tanto da tenerne la foto sul tavolo come esempio, nei primi tempi della sua carriera.
Marchionne dovrebbe semplicemente avere la decenza di riconoscere la storia dell’azienda che si trova ad amministrare. Perchè, invece di accettare la sua carità di 360 euro lordi l’anno in cambio della rinuncia ai diritti sindacali, non lo si obbliga a restituire il maltolto e non lo si rimanda da dove viene? E, soprattutto, perchè quando si lamenta in tv che la Fiat non guadagna un euro in Italia, il conduttore non gli fa il gesto dell’ombrello e non gli urla: “Marchionne, tiè”?