Falce e zimbello. Le nostre analisi (del voto)/2
…e arriviamo al centro-sinistra. Intanto una premessa: l’allora PDS è riuscito negli anni a portare a termine un’operazione veramente incomprensibile. Era scampato alla caduta dell’URSS abiurando l’aggettivo “comunista” nella denominazione del partito e si era salvato, grazie al “compagno G”, dal collasso del sistema partitico italiano avvenuto con Tangentopoli. Nonostante avesse, a metà degli anni Novanta, un’occasione irripetibile per vincere le elezioni – era l’unico partito strutturato rimasto – ha iniziato da allora una corsa verso il centrismo che non ha paragoni in Europa. Come risultato, oggi non è affatto un partito di sinistra, ma neanche di centro-sinistra. Non solo perché ha al suo interno una quota di ex democristiani, che pesa a livello dirigente ma non conta un cazzo a livello di militanti (infatti quando si fanno le primarie il candidato ex Margherita perde a qualunque livello): basti pensare che il suo attuale segretario (che avrebbe dovuto dare una raddrizzata a sinistra al partito) è Bersani, cioè un ex ministro ancora oggi ricordato per le liberalizzazioni che promosse nel governo Prodi. “Liberalizzazioni”, capito? Lo stesso Bersani, anni fa, se ne uscì – dopo una delle tante elezioni perse – con una frase che dovrebbe far rabbrividire qualunque socialista: “Se in Italia non ci fosse il suffragio universale vinceremmo sempre noi!” Ma “noi” chi? Che concezione della politica ha Bersani? L’elettorato di riferimento di un partito anche solo vagamente socialista non dovrebbe prevedere in primo luogo le classi subalterne e poi, eventualmente, l’alta borghesia “illuminata”, i radical-chic, l’aristocrazia snob? Non è un caso che, quando il PD cerca di riscoprire le origini operaie del PCI (a scopi elettorali), incorre in figure barbine: il giorno della chiusura della campagna elettorale il buon Bersani, infatti, si era presentato all’alba ai cancelli di Mirafiori, mandando avanti la Cgil nei giorni precedenti (per evitare contestazioni) e convocando i giornalisti e i fotografi (affinché fosse ripagata l’alzataccia fatta in quella mattina…). Peccato che bastasse vedere le foto apparse sui giornali per capire l’artifizio di quella comparsata elettorale, con Bersani visibilmente imbarazzato e la Bresso vestita come un uovo di Pasqua.
A parte Bersani, messo lì come bersaglio del fuoco delle correnti, chi agisce nell’ombra del PD è D’Alema. Ecco, D’Alema… D’Alema è veramente “il cretino perfetto”. Ha fatto più danni alla sinistra italiana D’Alema che Bettino Craxi, probabilmente.
Convinto di essere l’ultimo prodotto della scuola-quadri del PCI (e per questo motivo di essere mooooolto più preparato e intelligente dei suoi colleghi politici), D’Alema sono anni che non entra direttamente nella competizione interna dei DS, ma preferisce agire nell’ombra, dietro le quinte, manovrando i fili come un burattinaio. Il problema è che prende uno schiaffo dietro l’altro e non capisce mai il perché. Colleziona sconfitte e prese per il culo, però rimane convinto che siano gli altri a sbagliare, magari perché non sono alla sua altezza. Dopo l’ultima delle figure di merda prodotte (in Puglia, dove il suo candidato era stato bastonato da Vendola alle primarie) disse sdegnato ai giornalisti: “Sì, ma io faccio politica!”. Come per dire che lui è capace di manovrare i voti, muovere le carte e posizionare le pedine, mentre gli altri giocano a fare i populisti oppure a vincere tramite le televisioni. Sarà… a noi pare solamente un deficiente che, anche quando era al governo, ha contribuito ad affondare l’internazionalismo socialista (vedi il caso Ocalan e le bombe su Belgrado). Comunque, a parte i Bersani, i D’Alema e i Veltroni – che non vede l’ora di tornare a fare danni (d’altronde senza di lui non è che gli altri abbiano fatto meglio…), la scelta del PD in queste Regionali è stata coerente con il percorso degli ultimi anni: provare ad allearsi con l’UDC, nella convinzione che Berlusconi si batta solo con i voti del centro.
Laddove era considerato utile per aumentare le chance di vittoria, il PD ha preferito allearsi con l’IdV piuttosto che con Rifondazione + PdCI, calcolando che l’apertura a sinistra verso Di Pietro (Di Pietro, noto questurino, percepito come esponente di sinistra…) portasse più voti rispetto a quella verso la Federazione della Sinistra.
Il bello è che, almeno in questo, hanno avuto ragione! Con queste elezioni regionali, infatti, la Federazione della Sinistra ha compiuto un altro orgoglioso passo verso il baratro. Sarebbe quasi superfluo parlarne, quantomeno ripetitivo, però la vicenda comincia a essere stucchevole. Nei mesi precedenti le elezioni, ancora una volta Rifondazione e PdCI hanno elemosinato l’ingresso nella coalizione del centro-sinistra, ottenendo il sì del PD in molte Regioni. Operazione non difficile, dal momento che è stata fatta “a costo zero” per il PD: l’alleanza con la Federazione della Sinistra non ha certo convinto la Bresso in Piemonte a schierarsi contro la TAV, né ha convinto la Bonino a rivedere alcune sue posizioni in merito all’art. 18 da abolire…
Laddove la Federazione della Sinistra non si è presentata con la borghesia progressista (o quasi) è stato perché quest’ultima l’ha sfanculata, come nelle Marche e in Lombardia. Diverso il caso della Campania: qui Ferrero si è fatto grande del fatto che Rifondazione (e PdCI) non hanno appoggiato il centro-sinistra ma, a grattare un po’ sotto la superficie, emerge la verità. Il mancato accordo con il candidato del centro-sinistra (De Luca) non coinvolgeva infatti il programma (che non era meno scandaloso di quello della Bresso e della Bonino), quanto De Luca stesso, considerato “troppo di destra” dall’ineffabile Ferrero. Ora, a parte che De Luca non è meno di destra della solita Bresso e della solita Bonino (è in favore dell’acqua pubblica e contro il nucleare, per esempio), il punto è che Ferrero non ha chiesto di modificare il programma elettorale, quanto semplicemente di cambiare candidato. E il PD gli ha risposto: “Stai bene dove stai”, giustamente. Allora e solo allora la Federazione della Sinistra ha deciso di fare il grande gesto della corsa solitaria: ed è stata talmente solitaria, questa corsa, che rischiava di non avere neanche il candidato. Il PRC, infatti, ha subíto talmente tante defezioni in Campania (verso Sinistra e Libertà e verso il PD) da non riuscire a candidare neanche un dirigente locale minimamente conosciuto. Da qui la genialata di spendere il nome del segretario di Rifondazione. E a chi faceva notare che forse sarebbe stato meglio candidare un lavoratore (perso per perso), gli imbelli rifondaroli rispondevano che anche Ferrero era stato un operaio, diverse ere geologiche fa…
Vedendo le prime proiezioni del voto, lunedì sera, si poteva pensare a un errore nelle schermate, perché, in Campania, Ferrero non risultava neanche come terza scelta (di quella che mettono al centro della schermata, in piccolo). Non era uno sbaglio, in effetti: il nome del segretario di Rifondazione bisognava cercarlo tra gli “altri”, dal momento che stava prendendo percentuali ridicole. A fine tornata elettorale il bilancio della Federazione della Sinistra era assolutamente deprimente. Come abbiamo già detto, nessuna sorpresa. Da anni, ormai, l’elettorato di Rifondazione (numericamente più consistente di quello del PdCI) ha subíto un “cambiamento antropologico” diventando un elettorato di opinione, estremamente sfuggente e sensibile alla presenza mediatica del ceto politico del partito. La diminuita presenza in televisione (conseguente dell’uscita dal Parlamento) e il pensionamento del parolaio Bertinotti hanno convinto molti degli ex elettori a dirigersi altrove. Certo, l’assenza pressoché totale di Rifondazione dai contesti locali di lotta e dalle vertenze nei posti di lavoro non aiuta a recuperare il terreno perso. Anche perché, quando la Federazione della Sinistra prova a impegnarsi, non è neanche fortunata: sarà perché il modello del “partito sociale” – caro a Ferrero – sembra una cazzata epocale (oltre che una contraddizione in termini), sarà perché chi subisce effettivamente soprusi e sfruttamenti si accorge dell’ipocrisia del politico di turno: fatto sta che nel Piemonte della lotta contro la TAV e nella provincia dell’Aquila della solidarietà post-terremoto la Federazione della Sinistra è andata peggio che altrove, se possibile. E ora? Adesso la soluzione è quasi obbligata, comunque annunciata con grande impeto: scodinzolare da Vendola, prima sbeffeggiato dopo l’ultimo congresso (che aveva lasciato da sconfitto), adesso desiderato con passione. Pure troppa, di passione, dal momento che Claudio Grassi (altro grande artefice di trame perdenti) ha dichiarato di voler lanciare “un’offensiva unitaria verso Sinistra e Libertà”. Addirittura! Sembra una minaccia!
E arriviamo all’unica sinistra che vince nelle Regionali 2010, anche se solo in Puglia. Di sicuro, nelle Regionali conta il risultato dell’amministrazione uscente, più che il dibattito sui massimi sistemi, sul comunismo, il socialismo, il liberismo. Altrettanto sicuramente Vendola continua a giovarsi della pessima concorrenza del centro-destra pugliese: dal governo Fitto travolto dagli scandali (che gli facilitò la prima elezione, cinque anni fa) all’opposizione divisa tra la Poli Bortone (molto forte in Puglia, ma candidata nel partito più piccolo) e Palese (portato dal partito più forte, ma pressoché sconosciuto come candidato). Di sicuro Vendola avrà fatto cose buone durante il suo primo lustro al governo della Regione, probabilmente meglio di quanto avrebbe fatto una giunta di centro-destra. La battaglia per l’acqua pubblica è lodevole, non ci sono dubbi. Ci chiediamo dove stava Vendola, però, durante le mobilitazioni operaie nella sua Regione, alla Natuzzi di Laterza, la Franzoni di Trani, l’Adelchi, la Bar.sa. Ci chiediamo dove stava Vendola quando immigrati provenienti da Paesi in guerra erano costretti a vivere in alloggi di fortuna (infatti hanno contestato lo stesso Vendola in un comizio a Casamassima). Più in generale, ci chiediamo se la campagna elettorale di Vendola, giocata esclusivamente sulla sua popolarità (tanto che sugli immensi cartelloni pubblicitari a volte c’era solo il suo nome di battesimo), non richiami quei personalismi della penultima fase di Rifondazione Comunista, quella con Bertinotti alla plancia di comando. Ci chiediamo se l’uso ossessivo di aggettivi come “comunista”, “omosessuale”, “diverso” non siano strumenti oratori funzionali all’immagine di “poeta rosso”, piuttosto che un modo per lanciare battaglie politiche e civili.
Magari ci sbagliamo, ma è forte l’impressione di essere tornati alla “sinistra da salotto”, con un giullare piacevole da ascoltare e fondamentalmente innocuo per il padronato. Intanto il Pifferaio magico ha già ripreso a incantare la maggioranza di Rifondazione, passata in pochi mesi da bertinottiana in anti-bertinottiana in neo-bertinottiana. Dalla Falce e Martello alla Falce e Zimbello…