Quello che i padroni non dicono

Quello che i padroni non dicono

Domani saremo nella Facoltà di Lettere de “La Sapienza” di Roma per un’iniziativa che da tempo immaginavamo di fare; sarà l’occasione per parlare delle nuove prospettive che si stagliano in questo fine 2010 nel mondo del lavoro, un’occasione per parlare da vicino con chi sul lavoro e nel lavoro parla e pratica l’agire politico. Nel rinnovare a tutti i compagni e le compagne il nostro invito ad intervenire a questo momento di riflessione collettiva, cogliamo l’occasione per ampliare ancor più il ventaglio delle possibili riflessioni che domani saranno proposte, ripartendo da questo articolo di Alessandro Villari apparso su carmillaonline.com alcuni giorni fa; una spiegazione del “collegato lavoro” approvato dalla Camera il 19 ottobre dopo soli due giorni di discussione (parziale) e caduto nel più totale anonimato per colpa (e complicità) dei media mainstream.

BATTI IL PRECARIO FINCHE’ E’ CALDO


[Alessandro Villari è avvocato del lavoro a Milano. Ha un suo sito web, Avvocatolaser, da cui è stato tratto, con qualche modifica da parte dell’autore, il presente intervento.]

La sera del 19 ottobre, dopo appena due giorni di discussione, la Camera ha approvato senza ulteriori modifiche il famigerato “collegato lavoro”, aka ddl 1167, aka ddl 1441 (a seconda del ramo del Parlamento). Il disegno di legge conclude quindi definitivamente la sua lunga gestazione con la firma, stavolta obbligatoria, del Presidente della Repubblica, ed entrerà in vigore a stretto giro.
Curiosamente, nessun quotidiano in questi giorni dedica spazio alla questione, che pure è destinata ad avere molti più effetti per molti più italiani rispetto al Lodo Alfano che imperversa su TV e giornali. Quali effetti? Vediamoli.

Certificazione dei contratti e clausole arbitrali

È rafforzata la pratica, già prevista dalla “Legge Biagi” ma fino a oggi pressoché inutilizzata, della certificazione dei contratti. In pratica le parti possono chiedere che una commissione appositamente istituita accerti, anche preventivamente, che il contenuto del contratto di lavoro corrisponda alla reale natura del rapporto, con l’accordo del datore di lavoro e del lavoratore. Quanto il lavoratore sia davvero spontaneamente d’accordo e non invece costretto dalla necessità di ottenere o mantenere il lavoro, non c’è bisogno di spiegarlo. L’organizzazione di queste commissioni non a caso è affidata alla potente lobby dei consulenti del lavoro, che avrà “le funzioni di coordinamento e vigilanza per gli aspetti organizzativi”: le volpi che controllano l’organizzazione dei pollai.
Ma non solo: possono essere certificate allo stesso modo anche le clausole arbitrali che le parti (anche qui leggi: il datore di lavoro) potranno chiedere di inserire nel contratto alla fine del periodo di prova o, in mancanza di prova, dopo 30 giorni dall’inizio del rapporto. Le clausole arbitrali consistono nell’impegno vincolante delle parti (qui leggi: del lavoratore) a rinunziare preventivamente a rivolgersi al Tribunale per eventuali controversie legate al rapporto di lavoro. Per salvaguardare i propri diritti, una volta violati, i lavoratori dovranno così recarsi da arbitri privati e non da giudici, con diverse conseguenze tutte a loro svantaggio: costi più alti e da anticipare almeno in parte, minori garanzie processuali, soprattutto la possibilità per gli arbitri di decidere sulla controversia “secondo equità”, e quindi anche in deroga alla legge e ai contratti collettivi.
Se non altro, la legge prevede che la clausola compromissoria non possa riguardare controversie relative alla risoluzione del contratto di lavoro. È sventata quindi, per questa volta, ogni minaccia per l’art. 18 dello Statuto: segno che le proteste della scorsa primavera sono servite a qualcosa.
Di sicuro però vive su un altro pianeta (il pianeta Confindustria forse) il segretario della CISL Bonanni il quale ha dichiarato che le clausole compromissorie vanno bene, dal momento che anche i lavoratori possono scegliere se accettarle o no. Come se fosse una “scelta” quella fatta con la pistola alla testa!

Più precari per legge

La nuova legge introduce per i casi di licenziamento un nuovo onere per il licenziato: non basta più impugnare il licenziamento entro 60 giorni, ma occorre anche che nei nove mesi successivi venga depositato in Tribunale il ricorso. Fin qui, tutto sommato, nulla di tragico.
La tragedia colpisce invece tutti i tipi di precari: a termine, “interinali” (tecnicamente: in somministrazione), a progetto, ecc.. Se vogliono impugnare il loro contratto per ottenere l’assunzione in pianta stabile, infatti, devono decidersi a farlo entro i 60 giorni successivi alla cessazione del rapporto.
È fin troppo facile immaginarsi i dubbi amletici di chi vive sotto il ricatto perenne del rinnovo: “Se impugno il contratto non me lo rinnovano più, ma se poi non lo rinnovano lo stesso e intanto non posso più impugnarlo?”
Attenzione! La norma entra in vigore subito per tutti, si applica ai contratti in corso e perfino a quelli già scaduti (in questo caso i 60 giorni partono dall’entrata in vigore della legge).
Non solo: le stesse decadenze, con analoghe conseguenze precarizzanti, si applicano anche per il caso di trasferimento (da impugnarsi entro 60 giorni dalla comunicazione del trasferimento stesso), di cessione d’azienda (60 giorni dal trasferimento), di appalti simulati (l’enorme galassia delle cooperative).
La ciliegina sulla torta è la norma che prevede, anche nel caso fortunato che un lavoratore riesca a ottenere la trasformazione del contratto a termine in contratto a tempo indeterminato, un tetto al risarcimento massimo che il datore di lavoro può essere condannato a pagare. A prescindere da quanto tempo il lavoratore sia rimasto disoccupato per colpa del comportamento illegittimo del padrone, il risarcimento massimo sarà di dodici mesi di stipendio. La glassa sopra la ciliegina è che quest’ultima norma si applica pure alle cause in corso.

E adesso?

Fa specie che l’approvazione del disegno di legge sia rimasta praticamente sotto silenzio, mentre l’attenzione pubblica è distratta da specchietti per le allodole come il Lodo Alfano (vero, il Lodo Alfano è una porcheria, ma le priorità sono decisamente altre).
La prima necessità è che chi viene colpito dalla controriforma – tutti i lavoratori, e in particolar modo quelli precari – conosca la situazione: è indispensabile creare e diffondere informazione, con qualsiasi mezzo, da un lato per poter far valere i propri diritti in via individuale, dall’altro per poter organizzare una lotta efficace.
Una lotta efficace, all’altezza della violenza con cui il padronato cerca di sottrarci i diritti, non potrà passare per la Corte Costituzionale, come già sembra chiedere il Partito Democratico. La Corte Costituzionale (che interverrà comunque sicuramente a prescindere da ogni mobilitazione) potrà limare alcuni aspetti particolarmente stridenti, ma di sicuro non potrà modificare l’impianto sostanziale della legge: è bene sin d’ora non riporre alcuna speranza nei giudici né in alcun altro deus ex machina.
Soltanto la mobilitazione dei lavoratori, stabili e precari, può cambiare i rapporti di forza tra le classi, specialmente se saprà collegarsi alle lotte degli studenti (i precari di oggi e di domani) e soprattutto inserirsi nel percorso avviato dalla FIOM e dai tanti lavoratori in piazza lo scorso 16 ottobre: lo sciopero generale già annunciato acquista ulteriore importanza e dovrà essere soltanto il primo passo.