A maggio fioriscon le rose
A maggio fioriscon le rose… e l’Occidente esce dall’ibernazione iniziata fuori stagione, quando già l’inverno era alle spalle. Nel farlo, non risponde tanto al richiamo di Madre Natura, ma a quello più prosaico del Profitto. Andiamo a vedere, però, se la quarantena del vicino è sempre più verde. Nel frattempo sono verdi le zone della Francia dove, dall’11 maggio in poi, si ritornerà alla libertà di movimento: l’intero Paese è stato diviso in zone colorate. Quelle rosse, come l’Île-de-France (la regione parigina, che da sola “pesa” dodici milioni di abitanti e che una volta era rossa anche per colore politico), dovranno attendere un altro po’. Le scuole riapriranno proprio l’11 maggio (anche nella zona rossa, per quanto domenica 3 maggio oltre trecento sindaci dell’hinterland parigino abbiano manifestato la loro contrarietà), mentre le università saranno ferme fino a settembre. I famosi “assembramenti” saranno consentiti non prima di metà luglio, mentre ancora non c’è un’indicazione precisa per i ristoranti, i cinema e quant’altro. Il confinement per gli anziani e i soggetti a rischio non era tecnicamente obbligato, ma “consigliato”. In tutto ciò, passa quasi in secondo piano – tanto da essere sottolineato solo dalla stampa di sinistra (che Oltralpe ancora esiste, a differenza dell’Italia), che il governo abbia prolungato fino al 24 luglio lo stato di emergenza sanitaria, che gli conferisce, di fatto, i pieni poteri, facendo saltare gli equilibri tra gli organi dello Stato, già piuttosto sbilanciati, tra l’altro, in un regime semipresidenzialista. In vista della riapertura del Paese, il ministro dell’Interno, ad esempio, ha elencato le numerose categorie di “agenti” che potranno erogare multe a chi non rispetterà le regole del déconfinement: riservisti (della polizia e della gendarmeria), agenti aggiunti di sicurezza, gendarmi volontari, addirittura “agents de sécurité assermentés”, che sarebbero una specie di guardie giurate. Facile passare, quindi, dall’emergenza sanitaria a quella sanzionatoria.
In Spagna attenderanno settembre per riaprire scuole e università. Le attività produttive rimaste chiuse in quanto non strettamente interne alla filiera alimentare (l’industria e l’edilizia, per esempio) hanno riaperto il 14 aprile, mentre il 2 maggio c’è stato un generale via libera alla mobilità, per quanto solo ludica e canalizzata in fasce orarie, in attesa della “desescalada”, che è iniziata il 4 maggio, come da noi. La clausura è stata totale – coerente, del resto, con un Paese travolto da un’onda impetuosa e per fortuna breve di contagi e morti – poiché gli spostamenti erano limitati all’essenziale e le uscite risultavano del tutto interdette, se non strettamente necessarie. Dopo l’alleggerimento del lockdown in favore di bambini (26 aprile) e sportivi e anziani (2 maggio), il ritorno alla “normalità” sarà graduale, diviso sicuramente per regioni e, probabilmente, per classi di età, ma anche qui manca la certezza e l’improvvisazione (nonostante un “Plan para la Transición hacia una Nueva Normalidad” in apparenza così dettagliato che neanche un Piano quinquennale) sembra la cifra distintiva di un governo che, non dimentichiamolo, formalmente è di sinistra, “anfibio” nella sua natura riformista e “radicale” (socialisti e Podemos). Fatto sta che anche i compagni “istituzionali”, in quel di Madrid, non sono stati sordi alle lusinghe confindustriali, concedendo ampie deroghe alle attività svolte nelle fabbriche e nei cantieri, dopo solo un paio di settimane di blocco, appena scavallato il presunto “picco” e contro il parere delle diverse équipe mediche. In compenso, le scuole non ricominceranno prima di settembre, eppure anche qui il quadro è meno drammatico rispetto a quello italiano, sia perché la decisione non è ancora ufficiale, sia perché gli ultimi sondaggi davano la popolazione spagnola assolutamente pro-confinamiento (all’80%), tanto da avvantaggiare la spinta del governo su questo crinale.
In Scandinavia, la Danimarca ha riaperto gli asili e i primi cicli scolastici già dal 15 aprile, posticipando le scuole superiori e le università all’11 maggio. Per quanto concerne le attività, restano chiuse quelle pensate proprio per le grandi folle, come i ristoranti e i centri commerciali, mentre i parrucchieri, le autoscuole, gli studi dentistici, le spa e i centri massaggi… hanno riaperto già a fine aprile. In coerenza con quanto sopra, anche qui non si parla ancora della possibilità di “assembramenti”, per quanto misure particolari di quarantena non siano state mai prese. Mentre gli ultraottantenni sono invitati a rimanere a casa, gli studenti rientrano nelle aule con un minimo di accorgimenti: due metri di spazio tra i banchi, classi numericamente ridotte, la precedenza accordata alle attività esterne, da svolgersi all’aria aperta, tanto che alcuni parchi – interdetti alla popolazione, in questo periodo – sono stati riservati proprio agli studenti più piccoli. Gli assembramenti vietati qui riguardano un numero di visitatori non inferiore a dieci; intanto il sistema sanitario regge (i morti per Covid-19 sono stati solo 355, i casi dichiarati 7.500), nella piena consapevolezza che la diffusione del virus sia stata ben più larga di quanto non dicano le cifre ufficiali. Anche perché, fino a pochi giorni fa, i test avevano riguardato appena centomila danesi.
In Germania, che l’attuale borsino del contest “Il Paese più bravo contro il Covid-19” segnala in testa (ma in un passato anche recente il medesimo giudizio era stato attribuito anche al Regno Unito, alla Svezia, al Portogallo, persino all’Italia!!) il 4 maggio hanno riaperto le scuole dalla quinta elementare in su, mentre gli asili nido restano chiusi. Gli studenti maturandi, in compenso, erano tornati in classe già il 20 aprile. Ci si potrà “assembrare” felicemente per strada non prima di settembre; gli esercizi commerciali hanno riaperto dallo scorso 20 aprile, a meno che non fossero più grandi di 800 metri quadri e sempre che predisponessero una particolare profilassi igienica. Nessuna misura particolare di confinamento domestico, pure le funzioni religiose erano permesse: la popolazione si è vista consegnare una modalità “morbida” di distanziamento sociale, che prevedeva la raccomandazione di stare ad almeno 1,5 metri (che arrivano a 2 in qualche länder) dagli altri, senza però l’obbligo di rimanere a casa. Il dibattito pubblico, lì, è stato molto più sereno e i diversi reportage testimoniavano il clima sociale giustamente preoccupato, ma non isterico: nessuna zona rossa, nessuna interdizione oraria, la maggior parte dei negozi aperti e controlli di polizia manifestatamente indirizzati solo agli assembramenti di almeno tre persone. Alberghi e ristoranti chiusi, calcio fermo almeno fino ad agosto, ma neanche le mascherine sono obbligatorie (tranne che in Sassonia), solo consigliate. Il risultato? Un quinto dei morti di Italia e Francia, giusto per fare un paragone, a fronte di sedici milioni di abitanti in più; e la Merkel che, pare, vola nei sondaggi.
Il Regno Unito (in cui Boris Johnson continua a inscenare una sorta di one-man-show, tra elezioni, referendum, trattativa con l’Europa, contagio, terapia intensiva, guarigione, paternità: quanto normalmente accade in tre vite, ma sviluppato nel suo caso in quattro mesi) si è chiuso in casa dal 23 marzo, dopo aver addirittura minacciato di lasciare piena libertà di movimento, inseguendo quello che è stato una sorta di Sacro Graal del Covid-19, vale a dire “l’effetto gregge”. In settimana il governo deciderà se ammorbidire il lockdown, considerando che il “fuso orario” di due settimane rispetto all’Italia è stato ormai smaltito, a livello di picco di intensità, tanto che il Paese ci sta per superare, in quanto a decessi. Si parla di una “nuova normalità” da fine maggio, con un percorso di avvicinamento che si compone di controllo della temperatura, distanziamento nei locali pubblici, accesso contingentato al trasporto locale.
L’Austria si è chiusa fino allo scorso 2 maggio, mantenendo in seguito gli obblighi del distanziamento fisico e dell’uso delle mascherine. Il Paese ha avuto 15mila contagi e circa seicento decessi; le scuole riapriranno il dal 18 maggio (scaglionate, fino gli istituti professionali, previsti per il 3 giugno), tre giorni dopo le messe. Per cinema, parchi e teatri bisognerà aspettare fine giugno. I lavoratori stagionali potranno entrare nel Paese dopo essersi sottoposti a una quarantena di due settimane (ma c’è anche una possibilità, che temiamo si diffonderà presto anche altrove: test in aeroporto, a pagamento, con risultato nel giro di due ore), mentre i frontalieri che passano il Brennero devono avere il permesso; i voli dall’Italia, invece, saranno vietati ancora fino a fine maggio. Per una volta gli indesiderati siamo noi. Non ci vogliono neanche in Slovenia, dove il governo ha ceduto alle pressioni popolari (tremila in piazza venerdì sera a Lubiana) e ha allentato il lockdown, considerando che il Paese ha avuto meno di cento morti. L’accesso dall’Italia, è stato già annunciato, sarà molto più rigido di quello dagli altri Paesi confinanti, Croazia compresa.
Il Belgio ha più o meno fatto lo stesso (chiuso dal 18 marzo al 3 maggio), per quanto con un tasso di letalità decisamente più elevato (qui, però, la limitata base demografica rende scorretta la comparazione); la Svizzera è stata più sbrigativa (dal 20 marzo al 27 aprile), il Portogallo si è allineato (19 marzo – 3 maggio). Quest’ultimo, peraltro, è stato forse il vero vincitore della battaglia statale contro il Covid-19. Ci piace pensare che ciò sia avvenuto perché è governato da una coalizione di sinistra meno gattopardesca che altrove, ma non è questo il punto: per l’alta concentrazione di anziani, molti dei quali giunti da altri Paesi europei dopo il pensionamento, e la vicinanza con il bubbone spagnolo, il Portogallo era l’indiziato perfetto per una mattanza di vittime. Al contrario, si è fermato a meno di ottocento decessi, sia per la decisione di istituire il lockdown alla comparsa dei primi casi (quando l’Europa, comunque, risultava abbondantemente colpita), sia soprattutto perché le politiche espansive in materia di sanità pubblica (con un aumento degli investimenti pari al 18% rispetto al 2016) hanno permesso al Paese di farsi trovare preparato rispetto alle necessità di personale sanitario e di posti in terapia intensiva.
Il quadro europeo, quindi, è piuttosto omogeneo, a livello di limitazioni emergenziali della libertà individuale, ma il diavolo – si sa – si nasconde nei dettagli: analizzando aspetti solo apparentemente secondari della lotta contro il Covid-19 si può distinguere la diversa intensità con cui i singoli Stati (ancora) forniscano servizi pubblici alla propria popolazione oppure, al contrario, intendano la loro funzione istituzionale solamente in senso repressivo. Certo, non la Grande Repressione – che d’altronde sarebbe difficilmente giustificabile, in assenza di conflitto – ma la sottile Repressione Questurina, il cui brodo di coltura è dato dalla delazione spicciola (che la Giunta Raggi ha addirittura istituzionalizzato, con uno spazio apposito sul sito del Comune…), dal piccolo spionaggio della porta accanto, dallo sguardo rancoroso attraverso le feritoie delle persiane. La Francia, ad esempio, ha accompagnato la ripresa con la produzione statale di 17 milioni di mascherina settimanali (quelle lavabili, peraltro, non quelle che ritroveremo questa estate in spiaggia, sempre che ci si riesca ad andare) e la predisposizione dell’occorrente per eseguire mezzo milioni di test a settimana, il triplo di quanto non faccia già oggi. E parliamo di test virologici, non quelli fatti sfogliando i petali delle margherite (“ce l’ho”, “non ce l’ho”). Impietoso il confronto con l’Italia, il cui governo è riuscito a partorire solo il topolino di un prezzo calmierato di cinquanta centesimi sulle mascherine usa e getta, “imposto” peraltro solo dopo cento giorni di lockdown e solo dopo, soprattutto, aver fatto diventare la produzione di questo oggetto una sorta di “affare dell’anno”, addirittura con improbabili riconversione industriali di aziende che prima producevano, magari, reattori nucleari e adesso si dedicano ai pezzi di stoffa da mettersi sulla bocca e il naso.
Il sistema scolastico è diventato l’involontario protagonista (tra i servizi non medico-sanitari) della vita collettiva al tempo del Covid-19, per la sua involontaria capacità di coinvolgere più sfere sociali: gli studenti e la formazione, i genitori e la conciliazione tra lavoro e famiglia, il welfare e gli aiuti a chi ha di meno (si pensi alla disponibilità dell’hardware per usufruire delle lezioni), gli insegnanti e i contratti (con “l’esplosione” dell’orario scolastico e il venir meno della distinzione tra tempo di lavoro e tempo di non lavoro), il Paese e l’effettivo livello di sviluppo tecnologico – così si scopre che la connessione necessaria a seguire le videolezioni non arriva dappertutto, alla faccia “dell’Internet delle cose” e del 5G – la classe politica e la sua concreta lista delle priorità. Il risultato è noto: mentre in quasi tutti i Paesi il ritorno a scuola viene calendarizzato, pur dentro un sistema di inevitabili tutele (in Francia vengono previsti per maggio rientri scaglionati a seconda della regione e doppi turni, per evitare aule troppo affollate), in Italia questo argomento assume il carattere di assoluta residualità, come accade, del resto, in pochi altri Paesi (si veda la Spagna), dove pure dovrebbero governare partiti progressisti.
Guardando in prospettiva, un altro tipo di servizio pubblico che si candida come fronte di conflitto è costituito dai trasporti collettivi. L’implementazione su bus e metro del distanziamento sociale rischia di far saltare totalmente gli equilibri già precari di servizi che, nella Città neoliberista, da anni sono rimodulati al ribasso. L’affollamento che caratterizza le vetture e i vagoni mal si concilia con il metro di distanza (o quello che è) necessario a evitare i colpi di coda del virus. Essendo improbabile, però, sostituire il gomito a gomito a cui eravamo abituati – quando riuscivamo a salire su un autobus o un vagone della metro – con una spaziosa e algida permanenza e conseguente spostamento da un punto A fino a un punto B, è facile immaginare all’orizzonte tutti i nodi che arriveranno al pettine per gli autisti, i passeggeri e i vertici delle singole aziende (e i sindaci). La città di Milano ha ipotizzato una riduzione di un terzo del volume di utenti ammessi a salire sui mezzi, a Parigi – più realisticamente – si prevede una soluzione draconiana: solo il 10-20% dei passeggeri attualmente in circolazione potrà continuare a farlo, nei prossimi giorni. Va al di là di qualsiasi immaginazione, invece, la simulazione di cosa accadrà a Roma e nelle grandi città del Sud. Certo, la variabile indipendente sarà fornita dalla pedissequa applicazione dei protocolli di comportamento oppure da una gestione “all’italiana”, ma già adesso si può notare come l’argomento sia una ideale sentina delle tattiche degli attori politici e sociali coinvolti. In Francia, ad esempio, sui giornali circola un documento dei sindacati in cui le principali organizzazioni dei lavoratori dei trasporti (l’UTP, la Ratp, la SNCF) chiedono al premier Philippe l’obbligo delle mascherine per i passeggeri – e fin qui va bene – e addirittura “la mobilisation des forces de l’ordre”, dal momento che la pesante riduzione nella capienza dei mezzi provocherà sicuramente problemi di ordine pubblico. Fa un po’ specie, sinceramente, che quegli stessi sindacati pronti a mandare al macello i lavoratori, accettando che lavorassero ininterrottamente durante il lockdown, spesso senza alcuna protezione, sentano adesso l’esigenza di mettere i marines sui mezzi pubblici per evitare le proteste di chi non riesce a raggiungere il posto di lavoro oppure tornare a casa. Il caso ricorda un po’ quanto accadde all’azienda romana del trasporto pubblico (l’Atac), il cui sindacato maggioritario (la Cisl) chiese e ottenne, negli scorsi anni, un unico intervento migliorativo “strutturale”, da parte dell’azienda – famosa per mandare in giro ancora le vetture degli anni Sessanta – vale a dire imponenti poster in quadricromia, messi su ogni autobus e vagone del tram, che ricordavano ai passeggeri che picchiare l’autista avrebbe comportato l’arresto dell’aggressore. Senza parole.
La panoramica che abbiamo appena proposto, con l’obiettivo di analizzare le politiche dei principali Stati europei sulla gestione dell’emergenza dettata dal Covid-19 e del ritorno alla normalità, sarebbe dovuta partire da una premessa, che invece abbiamo saltato a piè pari: ha senso confrontare modelli diversi di isolamento e di lockdown, inevitabilmente connessi all’organizzazione sanitaria (e, più in generale, alla governance) del singolo Paese? Ilenia Rossini, in un articolo su «Dinamo Press» in cui analizza ottimamente la risposta cubana al Covid-19, nega questa possibilità. Noi siamo, invece, del parere opposto: se l’obiettivo del ragionamento non è espressamente epidemiologico – non siamo, del resto, esperti di malattie infettive – ma politico, il confronto ha senso quando riguarda Stati che condividono le medesime linee guida e gli stessi criteri di spesa pubblica, spesso a prescindere dal colore del governo in carica. È quello che accade, evidentemente, dentro l’Unione Europea, la cui impalcatura neoliberista imbriglia i consociati, ma concede sorprendenti deroghe quando le fondamenta iniziano a traballare: ed è qui che emerge la cultura politica del singolo Stato e del suo ceto politico, nella gestione di questa improvvisa (per quanto ancora presunta) agibilità di spesa, nella decisione sull’allocazione delle risorse, nella capacità di contrattare le eventuali condizioni, infine nella lungimiranza di evitare di ottenere oggi un’elemosina che diventi, domani, un grosso debito. Ed è qui che siamo messi molto male: il governo Conte si è azzerbinato alla Confindustria delineando una road map delle riaperture con cui provare a bilanciare le linee della profittabilità con quel minimo di buonsenso per cui, dopo settimane di bombardamento mediatico e di conseguenti misure fortemente restrittive, sia necessario attendere qualche ora prima di organizzare mega-raduni in posti chiusi. In un Paese che ancora oggi ha le tre Regioni più produttive con un numero quotidiano a tre cifre di nuovi contagiati (e in cui la Regione più ricca ha un numero quotidiano a tre cifre di decessi) riapriranno prima quelle attività, come i bar, con una forte propensione alla vicinanza fisica, che non servizi essenziali come quello scolastico. Senza neanche voler citare – perché già abbondantemente citati – gli innumerevoli e autocertificati casi di chi ha costretto i suoi lavoratori a salire sui ponteggi o ad andare in fabbrica senza soluzione di continuità anche durante l’isolamento, ci soffermiamo sul fatto che la riapertura dei parrucchieri o delle toelette per animali sia stata considerata prioritaria rispetto alle scuole. Per non parlare, poi, delle modalità tuttora “terroristiche” con cui viene ammantato il ritorno settembrino nelle classi, in sfregio ai più elementari diritti tanto degli studenti, quanto dei docenti, i quali avranno – salvo augurabili marce indietro – orari di lavoro spalmati lungo l’intera giornata, se non addirittura l’intera settimana, come in una sorta di “bancomat dell’insegnamento” oppure di “hot-line della didattica”, da animarsi rigorosamente con le proprie risorse (hardware, costo delle utenze, produzione e diffusione di materiale didattico). Confrontando come i diversi Paesi europei stiano gestendo l’emergenza di un virus che per tutti è allogeno e che si è diffuso dall’esterno con modalità di volta in volta diverse, dobbiamo quindi premettere che solo una componente parziale di tale modalità (cioè il dato temporale) non si presta a critica politica – per quanto si potrebbe indagare anche questa variabile, sulla base dell’evidenza per cui i Paesi che hanno ricevuto il virus dopo di altri avrebbero potuto far valere un minimo di consapevolezza in più (come verificatosi in Portogallo) – mentre la velocità del contagio e la capacità di predisporre efficienti risposte (in termini di cura dei malati e di isolamento delle aree infette) sono conseguenze di scelte politiche e non variabili indipendenti, da accogliersi passivamente. A meno di non pensare, hegelianamente, che tutto ciò che è reale è razionale, traendone la conseguenza che “non poteva che andare come è andata”, trovando una inevitabilità nel fatto che la Germania abbia avuto 40mila contagiati e 23mila morti in meno dell’Italia. Invece che ipostatizzare la Natura, preferiamo proporre una possibile linea di interpretazione: nei cento giorni che hanno sconvolto, nelle democrazie liberali, il rapporto tra governanti e governati come non accadeva da decenni, la classe politica ha inizialmente fatto perno sullo shock sanitario per rafforzare la propria posizione, spesso traballante. Capocorrente, in questo senso, è l’ungherese Orbán, che prima si è fatto affidare dal Parlamento poteri assoluti e sostanzialmente perpetui e poi ha di fatto riaperto il Paese, con qualche eccezione per la sola Budapest, sulla base dell’evidenza che il contagio non fosse poi così diffuso. Dietro di lui, disposti in buon ordine, tutti i governi hanno rafforzato il proprio gradimento presso l’elettorato. Nel passaggio – ancora in transizione – dallo shock sanitario a quello economico alcuni hanno cercato di bilanciare profitti privati e servizi pubblici, altri hanno dato assoluta priorità ai primi a discapito dei secondi. In attesa di capire quanto profonde e vaste saranno le ferite che dovremo leccarci, già adesso è possibile affermare come il “Partito del PIL”, con la grancassa di una inedita unanimità giornalistica, abbia causato in Italia un ulteriore arretramento del fronte dei diritti sociali. All’orizzonte, oltre a segnali di ulteriori ritirate, si intravedono due considerazioni di fondo, una micro, l’altra macro.
1) Nonostante tanti iniziali elogi sul “modello italiano” di contenimento della pandemia, la gestione del post Covid-19 renderà l’Italia ancora di più anello debole della catena europea. Colpevole sarebbe, quindi, non provare a forzare la rottura proprio in questo punto.
2) Allargando lo sguardo oltre le-democrazie liberali, la battaglia contro il Covid-19 e la conseguente minaccia alla tenuta interna del singolo sistema può essere letta anche come confronto tra il liberalismo occidentale e la centralizzazione cinese. Come accade sempre nei casi di “sfida globale”, l’esito avviene per contrarietà, non per esplicito successo: saranno decisivi i difetti, non i pregi. In questo senso, conteranno di più i limiti del pluralismo politico (per quanto in forma di simulacro) e dell’individualismo di massa, da un lato, oppure la rigidità burocratica di uno Stato a partito unico, dall’altro? Sta vincendo la Cina.