A un anno da Ferguson. Alcuni spunti di riflessione su #BlackLivesMatter e sul movimento degli afroamericani negli Usa
Tanta gente nera, tanti fratelli neri conoscono queste tattiche fasciste per averle subite di persona, conoscono anche troppi casi, anche troppe situazioni in cui gente nera, giovani fratelli neri, sono stati abbattuti a fucilate e assassinati da questi poliziotti, e sanno che la situazione si va facendo di giorno in giorno più insostenibile. […] Intanto, i tribunali razzisti d’America giustificano le brutalità e gli assassini commessi dalla polizia ai danni dei neri e della gente di ogni razza. [Bobby Seale, gennaio 1970]
Philadelphia, 28 agosto 1964: più di 300 feriti e quasi 700 arresti. Watts, 11-17 agosto 1965: 7 giorni di scontri, 34 morti, più di mille feriti, più di tremila arresti. Detroit, 23-27 luglio 1967: 43 morti, quasi 2000 feriti, più di 7000 arresti, 2000 edifici distrutti. Ferguson, 9-25 agosto 2014. Ferguson, 9-11 agosto 2015.
Per uno strano caso della storia, le principali rivolte dei neri statunitensi – quelle non determinate da eventi eclatanti (l’uccisione di Martin Luther King o le assoluzioni dei poliziotti responsabili degli omicidi di alcuni neri), ma dalla reazione alle quotidiane sopraffazioni – sono avvenute quasi tutte d’estate. E anche questa, ormai giunta al termine, è stata una stagione calda sul fronte dei cosiddetti Afro-American riots. L’ultimo episodio, pochi giorni fa, il 19 agosto: a St. Louis (Missouri), un poliziotto bianco ha ucciso un diciottenne nero, Mansur Ball-Bey, descritto dai conoscenti come un ragazzo di buona famiglia, recentemente diplomatosi, con un lavoro part-time. A questo omicidio, sono seguiti un pomeriggio e una notte di incidenti, con 9 arresti tra i manifestanti. Ball-Bey aveva 18 anni, ma sui media si è parlato di un «uomo nero»: se sei nero, a 18 anni sei uomo (del resto, fin da piccoli ci abituano ad avere paura dell’«uomo nero», no?) – e lo sei anche già molto prima: raramente vieni percepito solo come un bambino o come un ragazzino, l’essere «nero» rappresenta sempre un dipiù – mentre se sei bianco, probabilmente, a 40 anni vieni considerato ancora un «ragazzo».
La dinamica dei fatti non è chiara: secondo la polizia, il ragazzo li aveva minacciati con una pistola per fuggire a una perquisizione. Certo è che, se sei un nero statunitense e la polizia bussa per un controllo a casa tua o ti ferma mentre guidi, la fuga potrebbe costituire un modo per sopravvivere.
Nella contea di Saint Louis (Missouri), del resto, la situazione era tesa già da alcuni giorni. Nel primo anniversario dell’omicidio di Micheal Brown, all’inizio di agosto, a Ferguson sono state organizzate manifestazioni e proteste. Per tre notti, si sono avuti blocchi stradali, lanci di lacrimogeni da un lato e di qualche bottiglia dall’altro, scontri dovuti più che altro all’atteggiamento aggressivo della polizia contro semplici blocchi stradali, decine di arresti indiscriminati e ingiustificati (anche di giornalisti presenti sul posto per documentare le proteste!), colpi d’arma da fuoco (leggi, leggi e leggi): una situazione che ha portato a dichiarare lo stato d’emergenza e il coprifuoco, come se fosse riducibile a una questione di ordine pubblico.
La polizia, dicevamo, ha anche sparato: uno dei proiettili ha colpito Tyrone Harris, un ragazzo amico di Mike Brown, che è stato ferito gravemente. Il video diffuso dalla polizia tende a colpevolizzarlo, affermando che era armato: una riprovazione morale per il possesso di armi e per il diritto all’autodifesa davvero paradossale in un paese che, con il II emendamento, garantisce a tutti i cittadini il diritto di girare armati. Si tratta, forse, di un diritto garantito solo ai bianchi: nelle stesse ore, infatti, tra i manifestanti di Ferguson hanno fatto la loro comparsa, con intento chiaramente provocatorio, gli Oath Keepers, un gruppo paramilitare di destra formato da ex militari bianchi (leggi e leggi). Essi hanno affermato di voler garantire che la polizia rispettasse i diritti dei cittadini, ma già l’anno scorso si erano presentati a Ferguson per difendere negozi e abitazioni dai presunti espropri dei manifestanti neri: per giorni avevano sostato armati sui tetti della città, senza essere disturbati dalla polizia. Armati di tutto punto con fucili d’assalto (!!), anche in questa occasione sono stati ben tollerati dalla polizia: avere una pistola, chiaramente, è riprovevole solo sei un ragazzo nero.
Alla luce di questi eventi, ci sembra molto importare cercare di comprendere meglio e di contestualizzare ciò che sta accadendo negli Stati Uniti in queste ultime settimane. La situazione va analizzata con attenzione, andando oltre tanto il comprensibile entusiasmo per i riots e per ogni momento in cui gli oppressi si rivoltano contro gli oppressori, quanto l’appoggio e la simpatia per il movimento #BlackLivesMatter (BLM), nato per opporsi alle uccisioni arbitrarie dei neri da parte dei poliziotti e sempre più forte.
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Partiamo da una domanda – cosa ha determinato l’emergere di un movimento che afferma che «le vite dei neri sono importanti»? – e da alcune cifre. Nel luglio scorso, negli Usa sono stati uccisi 31 neri, uno al giorno, con un incremento del 39% rispetto al mese precedente. Nel 2015, risultano circa duecento i neri uccisi dalla polizia negli Usa – almeno 208 secondo mappingpoliceviolence, 198 secondo il «Guardian». In totale le persone uccise dalla polizia o morte mentre erano sotto la sua custodia, negli Usa, nel 2015 sono almeno 774. I neri, chiaramente, non costituiscono la maggioranza di queste vittime – al contrario di quanto si legge spesso, in una confusione che tra l’altro cela le dinamiche di classe dietro queste uccisioni, riducendole a una questione razziale – ma l’incidenza di questi omicidi per appartenenza etnica è di 1,89 su un milione per i bianchi e di 4,74 per i neri, che costituiscono circa il 13% della popolazione statunitense. In altre parole, negli Usa, un nero ha il triplo delle possibilità di un bianco di venire ucciso dalla polizia. Di questi 774, 161 (il 22% circa) erano disarmati. I neri disarmati sono 61 su 194 (31,4%), i bianchi disarmati 65 su 374 (il 17,4%).
Alcune di queste persone sono state uccise dalla polizia in seguito a un fermo del loro veicolo per un controllo: si tratta un contesto in cui la polizia si dimostra particolarmente diffidente, aggressiva e violenta, e non è un caso se questi eventi sono stati storicamente la miccia che hanno fatto accendere alcune rivolte afroamericane, da quella di Philadelphia del 1964 a quella Watts del 1965, da quella di Miami del 1980 – in seguito all’omicidio di Arthur McDuffie, picchiato a morte da alcuni poliziotti dopo un controllo – a quella di Miami del 1992 – reazione alla famosa aggressione di Rodney King – a quella di Saint Petersburg, dove un altro automobilista nero fu ucciso in seguito a un controllo, nel 1997. Ma anche Sandra Bland, l’attivista del movimento BLM trovata misteriosamente morta in carcere a luglio, era detenuta in seguito a un arresto – del tutto arbitrario, oltre che incomprensibilmente violento – avvenuto in seguito a un fermo per un’infrazione stradale.
Fa impressione pensare a un episodio raccontato da Bobby Seale, uno dei fondatori del Black Panther Party (BPP), in «Cogliere l’occasione!», avvenuto cinquanta anni fa. Un giorno, alcuni poliziotti decisero di incontrare i ragazzi neri che seguivano il Programma contro la povertà di Oakland, sperando così di migliorare il giudizio sulla polizia da parte della comunità afro-americana:
Quei ragazzi saltarono letteralmente addosso agli sbirri. Gli saltarono proprio addosso. Parlarono di sbirri. Parlarono, ma dandoci dentro, delle brutalità della polizia che metà di loro avevano visto con i loro occhi. […] «E allora quella volta, – domandò una ragazzina, – giù nella 14a strada, di fronte alla sala da ballo, […] quando una donna fu agguanta da tre poliziotti, e stesa a terra e manganellata?» Era anche incattivita, mentre lo diceva. […] Uno degli agenti disse: «Be’, magari aveva un’arma in mano». Lo disse mezzo nervoso, ma cercando di mostrarsi serio e obiettivo. «Sì, ce l’aveva un’arma, e quelli gliela portarono via. Ma dopo averle portato via l’arma, è proprio allora che l’hanno picchiata e questo non è giusto […]». Quella sorella ci vedeva rosso. […] Ci furono alcuni articoli di legge che i poliziotti citarono in maniera sbagliata. Uno sbirro saltò addirittura su a dire: «No, voi non avete nessun diritto a difendervi […]. Quello che dovete fare è venir giù in ufficio e presentare il caso, e sporgere denuncia». «Certo, e allora tutti quelli che sono morti?», gli chiesi. Gente, questo fece saltare tutto là dentro! «Loro non possono venire in commissariato a fare reclami!». «Be’, ma… lo sai che questi… questi casi sono esagerazioni». «Esagerazioni col culo! – feci io. – Il 50 per cento di questi casi, dico, il 50 per cento sono casi lampanti di brutalità e assassini della polizia! Forse l’altro 50 per cento è legato ad attività delittuose di qualche genere, perché lo sappiamo che i fratelli commettono reati. Non stiamo cercando di nasconderlo. Ma il 50 per cento di questi casi sono lampanti brutalità poliziesche!» E questo fece saltare tutto là dentro, gente! [B. Seale, «Cogliere l’occasione!» La storia del Black Panther Party e di Huey P. Newton, 1968, pp. 55-56]
Si tratta di un racconto molto significativo: nonostante il movimento per i diritti civili, i Martin Luther King, i presidenti neri, in ben cinque decenni non sembra cambiato molto. Il perverso intreccio tra razzismo, repressione e violenza poliziesca – così incardinato nel sistema statunitense – è rimasto invariato. Queste osservazioni evidenziano che il razzismo – aggravato probabilmente dallo stretto rapporto tra la crescente militarizzazione della polizia statunitense e la cosiddetta «guerra al terrore» – sia un problema strutturale all’interno dei dipartimenti di polizia e che gli omicidi non possano essere attribuiti al singolo comportamento di un singolo poliziotto. Limitarsi a chiedere la punizione per i responsabili di casi di violenza o omicidi, dunque, non solo appare superficiale e insufficiente, ma rischia anche di rafforzare quelle retoriche delle «mele marce» per cui, in realtà, si tratterebbe solo di pochi casi di agenti deviati in un corpo di polizia altrimenti sano ed equo.
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Anche mettendo da parte le cifre sulla violenza di polizia e vigilantes contro i neri, i dati numerici sull’intreccio tra razza e classe negli Stati Uniti sono molto significativi. Secondo alcune statistiche pubblicate nella versione online della rivista statunitense «Jacobin», il tasso di povertà è di gran lunga più imponente tra i neri – e soprattutto per quelli che hanno un titolo di studio inferiore alla scuola superiore, tra i quali tocca il picco del 45% – che tra i bianchi. Parallelamente, tra i neri, è più alto il numero di coloro che non sono coperti da un’assicurazione sanitaria e dei disoccupati (dei neri con un titolo di studio inferiore alle scuole superiori, solo il 35% risulta essere occupato). Inoltre, per gli uomini neri di età compresa tra i 30 e i 34 anni con un titolo inferiore alle scuole superiori, il rischio di incarcerazione sfiora il 70%: per i bianchi in uguali condizioni non raggiunge neanche il 30%. Notevole anche il dato sull’aspettativa di vita: per un maschio nero di 25 anni con un titolo di studio inferiore alla scuola superiore esso è di circa 68 anni: a livello nazionale, essa è di 79,5 anni. Undici anni di vita in più. I neri vivono peggio dei bianchi, i poveri vivono peggio dei ricchi e i neri poveri vivono peggio di tutti.
Secondo un articolo scritto qualche giorno fa da un’attivista afroamericana, inoltre, il 42% dei bambini neri riceve la sua istruzione in una «high-poverty school» (cioè una scuola in cui dal 76 al 100% degli studenti ricevono pasti gratuiti o a prezzo ridotto: una di quelle a cui sono indirizzate pochissime risorse pubbliche). Il tasso di disoccupazione per i neri con un titolo di studio di scuola superiore è del 46% contro il 26% di quello dei bianchi. Sebbene i neri costituiscano il 13,2% della popolazione statunitense, tra le persone in emergenza abitativa essi sono il 37%.
Un altro capitolo non trascurabile riguarda la vera e propria incarcerazione di massa della comunità afroamericana. All’interno di un aumento esponenziale della popolazione carceraria statunitense – tra il 1980 e il 2008 essa è quadruplicata, passando da 500mila a 2,3 milioni di persone e gli Usa hanno il 5% della popolazione mondiale e il 25% della popolazione carceraria (leggi) – infatti, quasi 1 milione di detenuti su 2,3 è afroamericano e per un uomo nero la possibilità di essere incarcerato è circa sei volte quella per un bianco. Inoltre, sono afro-americani il 26% dei giovani arrestati e il 44% di giovani detenuti. E ciò non perché i neri delinquono di più: ad esempio, gli afroamericani costituiscono il 12% dei consumatori di droghe ma il 38% di coloro che sono arrestati per crimini riguardanti la droga e il 59% dei condannati presenti nelle prigioni di stato per essi. Questo semplicemente perché, alla luce dei pregiudizi contro di loro, gli afroamericani vengono maggiormente controllati e più spesso arrestati, perché i giudici tendono a condannarli di più e a pene più pesanti, perché le istituzioni sono meno inclini a concedergli misure alternative al carcere. Delle ultime ore è la notizia della morte in un carcere della Virginia di un 24enne afroamericano, dovuta probabilmente alla denutrizione seguita al suo rifiuto del cibo: affetto da schizofrenia, era in carcere da quattro mesi per aver rubato una bibita e due snacks (leggi).
Questa situazione è stata resa possibile dalla crescente costruzione di un’immagine criminale dei giovani neri, spesso in nome della «guerra alla droga» o della politica della sicurezza: da qui fermi e arresti ingiustificati, a volte con un esito mortale. Se tutti i giovani neri sono considerati criminali, sparargli, picchiarli, usare contro di loro il taser con esiti a volte fatali viene considerato normale.
Tra il 1980 e il 2013, secondo i dati riportati in un articolo condiviso da Angela Davis su twitter, inoltre, 262mila uomini neri sono stati uccisi negli Stati Uniti: gli assassini di questi uomini erano, in gran parte, altri afro-americani e si stima che nell’80% dei casi assassini e assassinati si conoscessero. Omicidi che nascono, quindi, in un contesto di povertà, emarginazione, disoccupazione, mancanza di ogni prospettiva per il proprio futuro.
Da questi dati emerge come l’affermazione secondo cui black lives matter («le vite nere sono importanti») non può essere limitata all’ambito della lotta contro le violenze indiscriminate e ingiustificate della polizia o contro gli attentati e le violenze perpetrate dai razzisti bianchi.
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Il movimento Black Lives Matter è nato nel 2013, dopo l’assoluzione nel luglio 2013 di George Zimmerman, il vigilante volontario delle ronde di quartiere che, in Florida, aveva ucciso nel febbraio 2012 Trayvon Martin, un diciassettenne disarmato ma considerato «sospetto» in quanto giovane nero che indossava una felpa col cappuccio (leggi). La consacrazione di BLN è poi avvenuta nell’estate dell’anno scorso, nelle giornate di lotta seguite all’omicidio di Micheal Brown a Ferguson, dopo il quale niente è più stato come prima. Un’altra fase importante dell’affermazione del movimento è stata quella della scorsa primavera, dopo la morte, il 19 aprile a Baltimora, del 25enne nero Freddie Gray (leggi): egli era stato malmenato durante il suo arresto, riportando lesioni gravissime alla colonna vertebrale, ed era morto dopo due settimane di coma. Questo evento è stato all’origine di due settimane di proteste e rivolte, che hanno visto un’altissima partecipazione dei giovani delle classi popolari, e della dichiarazione dello stato d’emergenza e del coprifuoco a Baltimora. I fermati sono stati centinaia, ma la pressione della piazza sulle indagini ha portato all’imputazione contro sei poliziotti, accusati di omicidio, aggressione e abuso d’ufficio.
In questo contesto, BLM si è posto l’obiettivo di dare una risposta alla disumanizzazione dei neri e al razzismo strutturali nella società statunitense, aprendosi anche alle questioni di genere e alla lotta contro tutte le forme di discriminazione di cui sono vittime i neri. Tra le richieste di BLM, si leggono la creazione di una rete nazionale che si opponga alla violenza della polizia contro la popolazione nera, l’inizio di un processo di smilitarizzazione delle polizie locali e di abbandono dei programmi sulla «sicurezza» che legano criminalità e appartenenza etnica, il taglio dei fondi destinati alle polizie locali e il loro investimento all’interno delle comunità nere più colpite dalla povertà per creare lavoro, abitazioni e scuole. Si tratta, evidentemente, di un programma che coniuga l’analisi della repressione con quella della diseguaglianza sociale e delle opportunità: una prospettiva considerata pericolosa dal governo statunitense, che sottopone il movimento a uno stretto controllo e a una stretta sorveglianza poliziesca, utilizzando anche l’apparato anti-terrorismo (leggi, leggi, leggi e leggi). Come ha affermato l’attivista Maurice Mitchel, questo controllo non serve sotto a sorvegliare i militanti neri, ma soprattutto a non farli procedere troppo oltre sulla strada delle rivendicazioni e dell’organizzazione: «La sorveglianza è uno strumento di paura. Quando la polizia ti filma durante una protesta o ti ferma per strada perché sei un noto attivista, ciò ha un effetto paralizzante sull’organizzazione delle persone».
Almeno nelle sue esternazioni pubbliche più autorevoli, BLM punta il dito su come il razzismo e lo sfruttamento razzista siano caratteristiche strutturali del sistema, ponendosi in contrasto con la concezione liberale e socialdemocratica che considera il razzismo come una deviazione dai valori statunitensi, come un retaggio del passato che il progresso democratico farà scomparire.
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Una delle maggiori forze di BLM è stata quella di saper coniugare pacifiche azioni dimostrative (blocchi stradali, chiusure simboliche delle stazioni della polizia, presidi, ecc.) con momenti più conflittuali, oltre che quella di aspirare a creare una rete a livello nazionale che ricomponga le vecchie generazioni di militanti con quelle più giovani. L’affermazione di BLM, inoltre, ha determinato un effetto domino che ha portato a una ripresa dei movimenti neri in tutto il paese: ad esempio, sono nati dei gruppi che si richiamano al BPP, che manifestano armati, che proclamano il diritto all’autodifesa e che assaltano i cortei razzisti e dei suprematisti bianchi (leggi).
Ma la vasta diffusione di BLM ha anche determinato il fatto che al suo interno si sono raggruppate e unite anime molto diverse, che sembrano a tratti inconciliabili: esse vanne comprese, senza acritiche esaltazioni e senza altrettanto acritiche condanne.
Ha suscitato qualche polemica, ad esempio, il fatto che una delle due militanti di BLM di Seattle che ha interrotto il comizio elettorale del candidato democratico Bernie Sanders, Marissa Johnson, sia un’integralista cristiana proveniente da una famiglia di sostenitori di Sarah Palin (leggi). Patrisse Cullors, una delle fondatrici del movimento BLM, tuttavia, ha preso chiaramente parola sul senso dell’interruzione, mostrando come – al di là delle personali (e certo poco condivisibili) opinioni politiche e religiose di Johnson – la protesta contro Sanders sia condivisa da tutto il movimento:
Nella settimana successiva all’interruzione, almeno nove neri sono stati uccisi dalla violenza legittimata dallo Stato. Voi conoscete i loro nomi? Conoscete quale impatto la loro morte abbia avuto sulle loro famiglie e sulle loro comunità? Oppure siamo così collettivamente concentrati sui sentimenti dei candidati bianchi alla presidenza che non comprendiamo lo scopo essenziale dell’interruzione? Noi come movimento continueremo a interrompere l’attuale processo politico finché le vite dei neri non avranno valore. Opporsi a un candidato percepito come un alleato politico della comunità nera ha un fine strategico. Per troppo tempo, il Partito democratico ha munto l’elettorato nero per poi creare politiche che decimano completamente le comunità nere. Una volta Bill Clinton era ampiamente percepito come un alleato e un difensore dei bisogni dei neri. Invece, è stato il Violent Crime and Law Enforcement Act approvato dall’amministrazione Clinton a porre le basi per l’enorme ingiustizia razziale di massa che noi combattiamo oggi. […] L’obiettivo di BlackLivesMatter è di trasformare l’odio sistemico dell’America contro i neri. Sì, ci battiamo per le riforme politiche, ma sappiamo che ogni avanzamento in questo campo si può perdere se non si cambia la cultura anti-neri in questo paese. […] Noi non stiamo elemosinando i diritti che ci sono stati promessi dalla costituzione statunitense e dall’atto di emancipazione. Noi chiediamo che il respiro nel nostro corpo ci garantisca il diritto alla vita, alla libertà, all’amore, alla dignità e al rispetto.
Ha ragione, probabilmente, Cullors a concentrare l’attenzione sui «falsi amici» dei neri: l’interruzione del comizio di Sanders, infatti, ha suscitato molto più scalpore di tutte le altre interruzioni che BLM ha compiuto anche contro gli altri alleati presidenziali, democratici e repubblicani.
Questa interruzione, inoltre, ha aperto anche un’interessante discussione sulle «pratiche» da usare in politica. Un dibattito a cui non sono state estranee alcune iniziali prese di distanza di alcuni leader di BLM dagli episodi di violenza avvenuti a Ferguson in occasione del primo anniversario dell’omicidio di Micheal Brown.
Molti democratici liberal – in gran parte bianchi – si dicono contrari alla repressione e alla violenza di stato contro i neri, alle diseguaglianze e al razzismo, ma affermano di non essere d’accordo con le pratiche usate dal movimento BLM. Come affermato da alcuni attivisti in una bella intervista su questi temi, queste critiche hanno tuttavia rafforzato il movimento, evidenziando chi stia e chi non stia davvero sul suo lato della barricata. Ad esempio, Dante Barry del Million Hoodies Movement for Justice ha affermato che ci sta muovendo verso un rifiuto più generalizzato delle politiche moderate considerate «rispettabili» e che si sta capendo che è necessario utilizzare e supportare una pluralità di pratiche diverse per liberarsi, mentre secondo Akin Olla, dirigente della United State Student Association, «a molte persone piace giocare agli strateghi da poltrona, ed è più facile criticare i mezzi che gli altri usano nelle loro battaglie che combattere in prima persona». Ancora più significative le parole di Alicia Garza, cofondatrice del movimento BLM:
Ciò che è vero in questo momento è che non si tratta di una questione di pratiche. Se ti concentri sulle pratiche, non centri il fulcro del discorso. Noi neri veniamo uccisi ogni 28 ore da poliziotti e vigilantes. Ci sono un milione di noi in carcere e 9 milioni di noi in libertà vigilata. Ai nostri bambini non è permesso di diventare adulti. Se non sostieni il movimento perché non concordi con le pratiche, mi chiedo in primo luogo quando sia forte questo sostegno. Cosa è peggio: gridare, bloccare le autostrade e interrompere i comizi – o essere ucciso dalla polizia ed essere lasciato cadavere nelle strade per più di quattro ore, o essere trovato morto in una cella di una prigione dopo essere stato fermato in un controllo stradale?
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L’affermazione di BLM, inoltre, ha riacceso il dibattito intorno al rapporto tra classa e razza negli Usa. Alcuni attivisti neri, e tra essi anche Marissa Johnson, infatti, accusano tanto i marxisti quanto – e qui l’errore è evidente, trattandosi di una critica priva di senso – i liberals di «riduzionismo economico» o «riduzionismo di classe»: secondo queste critiche, stabilire un legame tra razzismo e diseguaglianza economica distoglierebbe l’attenzione dalle disparità razziali (leggi e leggi).
In realtà si tratta di una lettura – questa sì riduzionista – del pensiero marxista in merito, che tiene giustamente insieme la parallela affermazione, negli Usa, del razzismo e del capitalismo, che risultano essere quindi inseparabili. Il razzismo, chiaramente, non è solo un prodotto della disuguaglianza economica, ma soprattutto il modo in cui quella diseguaglianza viene creata e mantenuta. Per questo, una lotta solo contro la diseguaglianza economica non è sufficiente.
Chi lancia accuse di «riduzionismo di classe», in realtà, commette il grave errore di considerare la «razza» come qualcosa di immanente e non come il prodotto storico di rapporti economici e sociali: un errore non solo di analisi, ma anche di prospettiva, perché indebolisce proprio la lotta contro il razzismo.
È tra l’altro incomprensibile perché, nelle giuste critiche a politici liberals, li si accusi di «riduzionismo di classe». Essi, infatti, tendono a separare e non a collegare le disparità razziali dalla diseguaglianza economica e a legare la povertà e la diseguaglianza ad abitudini, attitudini e culture piuttosto che alla struttura del sistema economico. Anzi, negli ultimi decenni, l’idea che il razzismo sia strettamente legato allo sfruttamento economico è caduta quasi nel dimenticatoio: ciò è stato dovuto sia alla svolta conservatrice – che ha coinvolto anche i democratici – della politica statunitense sia ai limiti dimostrati da quelle che il BPP considerava le forme più razziste del «nazionalismo nero», che rifiutavano ogni forma di lotta di classe coi bianchi.
Marissa Johnson e alcuni attivisti neri, quindi, si trovano – loro! – a condividere le stesse prospettive tanto dei liberals democratici, tanto dei conservatori. Ciò non permette di comprendere, ad esempio, che alcune politiche come quelle clintoniane che hanno proposto l’abbattimento delle case popolari e l’edificazione al loro posto di «abitazioni a reddito misto» (cioè di complessi residenziali che comprendono diversi tipi di unità abitative, per persone con diversi livelli di reddito: esse, in pratica, hanno voluto dire l’allontanamento dei poveri dai loro quartieri) siano politiche di classe contro le fasce sociali più povere e che, per questo, penalizzano soprattutto i neri, pur se non direttamente rivolte contro di loro.
Il limite di posizioni come quelle di Marissa Johnson, quindi, è quello di considerare il problema razziale come un problema solo dei neri, senza leggerlo in una prospettiva di classe: un’impostazione che, indubbiamente, finisce con indebolire la lotta di movimenti come BLM.
Come ha scritto Touré F. Reed in un suo articolo su JacobinMag, che pure pecca in una critica delle pratiche mediocre e di scarsissimo spessore politico,
Separando il problema della violenza poliziesca dalla politica economica, molti attivisti […] non solo limitano l’opportunità di alleanze politiche e forse di raggiungere vittorie significative, ma eludono lo stesso punto cruciale sulla violenza poliziesca […]. Nel caso specifico, ci sono stati molti casi noti in cui i bianchi sono stati vittimi della violenza o di atti anche eclatanti di cattiva condotta della polizia (definiti «railroading»). Certo, le vittime bianche di questi abusi sono soprattutto poveri e appartenenti alla working class. […] Mentre le vittime nere della violenza poliziesca ovviamente coprono tutte le classi, la realtà mostra che anche tra di loro la maggioranza sono poveri e appartenenti alla working class. […] Vale la pena di notare qui che lo scopo della costruzione della razza in origine e la sua funzione ancora oggi era ed è quello di delimitare uno status socioeconomico, nonché un valore come lavoratore. All’inizio i cosiddetti «negri» e oggi i cosiddetti «neri» erano e sono essenzialmente un serbatoio di lavoratori altamente sfruttabili che, a partire dal secondo terzo del XIX secolo, erano ritenuti possedere caratteristiche distinte e innate che li rendevano più adatti ad eseguire «lavori pesanti e poco qualificati» – come