Alcune precisazioni sul caso Pussy Riot
Il travagliato e impetuoso dibattito seguito al post sulle Pussy Riot è esattamente ciò che avevamo in mente scrivendo l’articolo stesso. Era facile prevederlo, eppure ci ha stupiti la quantità e, in qualche caso, la qualità dei commenti stessi. Non sono mancati gli insulti gratuiti e quelli scritti senza neanche aver letto l’articolo, ma questo fa parte del gioco, dove la voglia di commentare immediatamente senza leggere e capire ciò che si commenta prevale su ogni altro discorso.
Francamente, l’obiettivo è centrato e ne siamo contenti. Quello cioè di suscitare un dibattito vero, con accuse e difese, insulti e riflessioni, su un tema che da anni cova in senso ai movimenti europei, e cioè quello del femminismo e della lotta di classe declinata sessualmente da una parte, e dall’altra l’antimperialismo, categoria sempre meno usata dai compagni per leggere le vicende di politica internazionale. Sono due vicende che non vengono mai dibattute, crediamo più per paura che per mancanza di coscienza. Da una parte, la paura del politicamente corretto, per cui se una donna o un gruppo di donne mette in piedi una protesta politica questa deve per forza essere appoggiata, unicamente perché a promuoverla sono delle donne. Difficile fare un dibattito vero (e non stereotipato) su queste cose e, a quanto ne sappiamo, questo è l’unico luogo (non ambiguo) dove ciò sia avvenuto. E poteva avvenire solo qua, perché tutti sanno perfettamente la collocazione politica e l’impegno quotidiano del collettivo nei movimenti antagonisti. E infatti, abbiamo letto e apprezzato, anche gli insulti, e nessun commento è stato censurato. Dunque, avendo la coscienza a posto, possiamo anche spingerci oltre i normali confini del politicamente corretto dei movimenti. Questa è la seconda ragione per cui un dibattito del genere difficilmente può avvenire in altri luoghi, e cioè perché qualsiasi cosa accada nessuno può, razionalmente, tacciare il collettivo di ambiguità. Qualcuno l’ha pure fatto in qualche commento, ma evidentemente non sa di cosa parlava, oppure non ci conosce. Ma veniamo a noi e alle perplessità suscitate dall’articolo.
Più di qualcuno ci ha accusato di difendere Putin, eppure il pezzo era in questo chiaro sin da subito. Putin è l’altra faccia dell’imperialismo, nessuna collusione, anche solo ideale, ci può essere con chi ha contribuito a distruggere non solo il socialismo, ma ogni ipotesi di cambiamento di segno progressista in Russia. Detto questo, bisogna anche essere attenti a non confondersi con le condanne che vengono espresse dall’imperialismo americano e dai suoi megafoni, e cioè i media occidentali. Questi, infatti, accusano Putin per la scarsa attenzione che mostra per i diritti umani e le normali procedure democratiche. A noi questa cosa ci interessa relativamente, perché sono le stesse modalità che avvengono in occidente senza che nessuno si scandalizzi (non abbiamo mai sentito i compagni lamentarsi o insospettirsi per il processo elettorale italiano, se è pulito o meno, eppure se questo avviene in Russia tutti diamo per scontato che sia pilotato). Le condanne occidentali nascondono l’obiettivo politico di ridimensionare il ruolo internazionale della Russia, oggettivamente nemica degli interessi occidentali (non per questo buona o progressista, sia chiaro). Questo è fin troppo palese, ma la scomparsa della categoria dell’antimperialismo, e dell’internazionalismo, impedisce a tanti compagni di analizzare la politica internazionale.
Quello che invece qui ci premeva sottolineare, era la strana complicità fra una condanna tutto sommato normale (intendiamoci, non auspicata o giusta, ma normale nel senso che sarebbe accaduto così ovunque) e la sproporzionata campagna mediatica costruita attorno ad essa. Fossero state condannate a morte o a trent’anni di galera, avremmo capito. Ma due anni di lavori forzati, come qualcuno li chiama utilizzando le stesse terminologie del mainstream senza rendersene conto (mentre in realtà sono lavori pubblici obbligatori, sempre meglio che scontare la pena recluso in un carcere tutto il giorno, vero?), dicevamo, due anni di lavori obbligatori non ci sembrano la giusta motivazione per montare tale campagna.
Eppure a nessuno è sorto tale dubbio, e qui veniamo al secondo punto, e cioè l’elevazione della battaglia per i diritti umani a bene assoluto, che produce quello che in qualche ottimo commento veniva definito riflesso pavloviano, per cui a qualsiasi strillo mediatico in difesa di presunti diritti umani violati bisogna correre alla mobilitazione. Ora, noi non siamo contro i diritti umani, nel senso che non sacrifichiamo, in nome della lotta di classe, i diritti umani di chi viene a trovarsi in mezzo a essa. Ma se a illuminare le coscienze sono i media occidentali, le istituzioni politiche ed economiche europee e statunitensi, le ONG più ambigue che mai, gli oligarchi russi, allora qualche sospetto ci viene. E cerchiamo di leggere le vicende nell’ambito più generale degli interessi economici e politici in campo. La scomparsa del concetto di lotta di classe è stato sostituito, nell’ambito della sinistra liberale, da quello di lotta per i diritti umani. La sinistra antagonista, trovatasi improvvisamente e colpevolmente sprovvista di una qualsiasi forma di analisi della società, ha sussunto tale concetto elevandolo a obiettivo principale del proprio essere politico. Non riuscendo a cogliere il pericolosissimo sovrapporsi di concetti che vengono promossi anche dall’occidente liberale.
Tutti siamo per i diritti umani: padroni e lavoratori, ricchi e poveri, conservatori e progressisti e così via. Tale concetto è stato il grimaldello ideologico che ha promosso e attuato tutte le guerre umanitarie degli ultimi venti anni. Guerre che tante volte sono state anticipate da oscure operazioni politico ideologiche create ad arte da determinate strutture occidentali. Otpor è solo uno degli esempi principali. Nel 1999, sempre in nome dei presunti diritti umani violati, più di qualche compagno incontrò l’associazione di Soros condividendone gli obiettivi politici. Non ci sembra sia mai giunta autocritica, parola ormai sconosciuta dal lessico antagonista.
Quanto all’antimperialismo, è la diretta conseguenza della scomparsa del concetto di lotta di classe nei movimenti. L’antimperialismo infatti altro non è che lotta di classe declinata a livello internazionale, la lotta di classe fra paesi. E’ ovvio dire che Russia, Cina e Stati Uniti condividono il medesimo sistema di produzione e di asservimento che combattiamo. Meno ovvio è dire che, fra questi, si sta giocando una lotta di classe evidente fra un polo imperialista occidentale e uno orientale, in cui però quello orientale ha l’oggettiva funzione di proteggere (per suoi scopi) determinati paesi che sono sabbia negli ingranaggi dello sviluppo capitalistico. Non è un caso che un commento tirava in ballo anche Chávez quale lacchè di Putin. Venuto meno il concetto di antimperialismo, tutto rientra nello stesso calderone. A meno che uno stato non instauri qui e subito il comunismo realizzato, questi è da attaccare perché al suo interno persistono ancora modalità di sviluppo capitalistiche. La miopia politica elevata a rango di scienza, insomma.
Qualcuno si è anche inalberato rispetto alla traduzione, letterale, di Pussy Riot in Fighe Riottose. Come se lo stesso concetto, riferito in italiano piuttosto che in inglese, cambiasse di segno e diventasse, in tal modo, maschilista. Altro riflesso pavloviano (mirabile sintesi) di come è ormai impossibile dibattere razionalmente di femminismi senza incorrere nella scomunica di femministe più femministe di te. Il problema è che noi non siamo femministi. Essendo antisessisti, non facciamo politica in base al sesso di una persona. La liberazione della donna, soggetto ultra sfruttato nella dinamica di produzione capitalista, può avvenire solo con il cambiamento del modo di produzione, non nello stesso ambito di produzione, sperando in qualche concessione del capitalismo che liberi da se la condizione femminile. Questo è bene precisarlo. Non ci sono le *donne sfruttate* ma, nell’ambito della condizione femminile, ci sono le donne povere che sono sfruttate e le donne ricche che sfruttano. A meno di non voler equiparare la condizione della Marcegaglia, per dire, con quella della casalinga-lavoratrice doppiamente sfruttata dal sistema di produzione. Che poi sia necessaria una battaglia culturale che spezzi il maschilismo strisciante anche fra i compagni, è un fatto su cui siamo completamente d’accordo, ma questo non nega il ragionamento precedente: non c’è liberazione sessuale senza liberazione di classe, e soprattutto la liberazione sessuale è conseguenza della liberazione di classe, e non viceversa.
La violenza di certi commenti, infine, la dice lunga sulla disponibilità al dialogo di certe persone. Noi poniamo un dubbio: guardate, stiamo dalla stessa parte di Repubblica e Corriere, Unione Europea e Amnesty International, Obama e Merkel, Monti e Khodorkovsky; non sentite anche voi odore di bruciato, qualcosa che puzza e che però non riusciamo a definire? Non è strano che gruppi creati da dissidenti russi, come Voina da cui sono emerse le Pussy Riot, appoggino così convintamente una battaglia che appoggiamo anche noi? Il dubbio può essere espresso o bisogna relegarlo nel non-detto che caratterizza il dibattito di movimento?