Alcune riflessioni sulla manifestazione del 19 ottobre
Passato qualche giorno, è possibile riflettere con maggiore lucidità sulle mobilitazioni di questo ottobre e in particolare sull’evento principale, la manifestazione di sabato scorso. E’ importante valutare attentamente questa prima fase dell’autunno, perché ci sembra porti con se delle interessanti novità e alcuni storici problemi. Dividiamo perciò in due il ragionamento, partendo dai diversi dati positivi e analizzando successivamente le criticità.
Una nuova radicalità diffusa
Il dato sicuramente più evidente è quello numerico. Nonostante l’organizzazione e la promozione della manifestazione venissero portate avanti con convinzione, non ci nascondiamo che le nostre previsioni erano assolutamente pessimistiche. L’ondata emotiva dell’indignazione europea, che aveva caratterizzato il corteo di due anni fa, è chiaramente passata. Allo stesso tempo, anche quella mitologia da “popoli in rivolta” che hanno lasciato dietro di se le cosiddette “primavere arabe” è sempre più un ricordo sbiadito. Insomma, se il 15 ottobre 2011 poteva collocarsi in un quadro internazionale di marea montante generalizzata (per quanto esagerata), sabato i movimenti italiani viaggiavano più o meno da soli.
Oltre a questo, da diversi mesi la manifestazione veniva descritta come la solita vetrina dei “duri e puri”, il momento catartico dove dare sfogo alla frustrazione sociale, prodotta dalla crisi, dei settori più violenti e marginali della società. Anche qui la differenza col 15 ottobre 2011 era lampante. Mentre lì scese in piazza tutta la sinistra, il tentativo demonizzante di questo 19 la rendeva, nell’immaginario, una manifestazione molto più ristretta e molto più radicale. Anche questo fattore dunque non aiutava alla partecipazione al corteo delle cerchie non immediatamente militanti.
Terzo problema, la manifestazione della “sinistra giudiziaria” il 12 ottobre. L’immediata contrapposizione fra la manifestazione dei buoni e quella dei cattivi, fra la sinistra responsabile e quella impresentabile, rendeva ancora più arduo tentare di portare in piazza, nella piazza dei movimenti del 19, pezzi di società più larghi delle nostre solite – e sempre più ristrette – cerchie. L’indizione, due settimane prima, di una manifestazione il 12 ottobre, il tentativo di vari organi di promuovere il 12 oscurando il 19 (ad esempio, il Manifesto), pezzi di movimento che occhieggiavano al 12 non curandosi del 19 (ad esempio, Casarini), avevano di fatto creato il clima adatto per una scarsa partecipazione del corteo di sabato, soprattutto dopo l’ottima prova numerica dello stesso 12, che aveva visto una partecipazione di almeno 40 mila persone.
Tutto questo è stato smentito sabato. Oltre ogni previsione, almeno 70 mila persone sono scese, fregandosene della retorica mediatica demonizzante, a manifestare in un corteo che esprimeva una radicalità notevole, con delle parole d’ordine che qualche anno fa avrebbero portato in piazza forse mille persone. Non erano solo “casa e reddito”, le due parole chiave attorno alle quali, dalla scorsa primavera, si stava organizzando questo corteo. Era il corteo della lotta No Tav, e soprattutto delle sue organizzazioni più radicali. Era il corteo di chi occupa le case, cioè di chi compie una sacrosanta azione illegale per riaffermare un diritto sociale primario (alla faccia della sinistra legalitaria). Era il corteo della sinistra anticapitalista, che sebbene non abbia chiari i suoi obiettivi, ha invece evidenti i suoi nemici: l’attuale sistema economico di produzione, e il suo naturale corollario politico rappresentato dalla democrazia liberale. Questi fattori, lungi dallo spaventare la gente e relegarci in un cantuccio slegato da ogni dinamica reale, hanno motivato un pezzo importante di popolazione ad accorrere sabato a Roma. Anni di moderazione movimentista mascherata da intelligenza tattica hanno avuto sabato la loro riposta. Il corteo della sinistra “illegalitaria” doppia quello della sinistra per la Costituzione, la magistratura democratica e il legalismo pervadente. Chiarendo una volta per tutte quale sia la volontà di una fascia di popolazione sempre più larga, sempre più trasversale. Per inciso, quella parte di popolazione che non vota più, che si astiene, non legittimando un sistema politico ormai completamente “altro” dai bisogni politici di questa massa. Non era in ogni caso uno scontro fra cortei diversi, ma a bocce ferme è possibile comunque riaffermare che radicalità non fa rima con marginalità, se questa è interpretata in maniera intelligente e creativa.
Il secondo dato positivo riguarda la composizione del corteo, cioè il suo aspetto qualitativo. Il solo dato numerico non può bastare per giudicare positivamente una manifestazione, soprattutto guardando al futuro. In questi anni alcuni cortei della sinistra parlamentare (o trombata alle elezioni, il che è lo stesso – Sel, Prc, Pdci, Fiom, ecc…) avevano espresso dei buoni dati numerici. Ad esempio, la manifestazione dello scorso anno contro Monti e l’austerità. Ma erano cortei inservibili, soliti e stanchi rituali che portavano in piazza una composizione ovviamente dignitosa ma politicamente inservibile. Inservibile perché quella composizione era chiusa in se stessa, rivolta al passato, fatta di militanti dei vari partiti e da pensionati richiamati all’ordine dal sindacato di turno, e che se socialmente costituiva un pezzo importante della classe, politicamente era assolutamente inutile, perché legata ad un liderismo riformista che usava – e usa – quei numeri per la costruzione del suo piccolo partitino, la sua piccola scalata sindacale, il suo piccolo gruppo d’influenza.
Sabato, invece, la piazza era si multiforme, ma non eterogenea. In piazza c’era un pezzo importante del vecchio e nuovo proletariato. C’era una forte composizione precaria (del precariato vero, non quello cognitivo di chi passa da un master ad un dottorato di anno in anno); una fortissima presenza di migranti; una fondamentale partecipazione di quell’eccedenza che due anni fa si esprimeva in quei modi e che sabato ha avuto la forza di smontare la narrazione tossica precostituita, dimostrando che la rivolta di piazza la si fa quando si hanno le forze e gli obiettivi politici (tipo evitare gli accordi con Sel), non ad uso e consumo dei media. Un blocco sociale sostanziale che può diventare la base di una nuova ricomposizione politica. Almeno nelle premesse, le condizioni ci sono tutte.
Per concludere, dunque, sabato si è avuta la dimostrazione di come esista nel paese una nuova e consapevole radicalità diffusa, che non si lascia impaurire dalle retoriche mediatiche, che partecipa in massa a cortei che hanno come obiettivi politici quello della rivolta generalizzata contro l’attuale sistema di sviluppo, e che nel portare avanti questi obiettivi si serve anche di pratiche illegali, dell’uso della forza e della riaffermazione della propria autonomia di fronte alle neutrali logiche legalitarie. La stessa logica che ha portato all’affermazione e allo sviluppo del movimento No Tav, quella cioè di tenere unito il momento partecipato a quello militante, il momento democratico a quello rivoluzionario, il piano dell’azione diretta e quello dell’illegalità diffusa. Creando, attorno a queste pratiche, consenso popolare.
Vecchi e nuovi errori
Questo insieme di dati positivi, che fa pendere la bilancia del corteo nettamente a favore del dato politico sostanziale, non può però nascondere alcuni errori da cui questo autunno dovrebbe essere preservato. Qualche giorno dopo il corteo del 15 ottobre 2011, Wu Ming esprimeva l’idea che la forma corteo, così come storicamente prodottasi e come diffusamente immaginata, in Italia stava arrivando a conclusione. Dopo le giornate del 14 dicembre e del 15 ottobre, la forma corteo, almeno in Italia, andava assumendo un’altra valenza, un altro significato, e probabilmente andava incontro a un lento ma inesorabile declino. Forse l’analisi era troppo affrettata. Una delle forme storiche che il movimento operaio, da secoli, ha espresso per rappresentare se stesso e le lotte che porta avanti, difficilmente entra in crisi per due manifestazioni che escono dai canoni del prevedibile. Finchè il movimento di classe non trova altre forme per rappresentarsi, la manifestazione, il corteo, nonché tutto l’armamentario pratico di cui si serve per dare risonanza alla propria lotta, continuerà a rimanere valido ed utilizzato. Detto questo, però, Wu Ming non si sbagliava del tutto. La forma corteo si è storicamente prodotta come momento finale, o mediano, di rappresentanza di se stessi. Ogni passaggio significativo delle lotte di classe era intervallato da una manifestazione, che in sostanza esprimeva il bisogno di visibilità. La manifestazione costituiva il momento culminante di una o di varie lotte. Il momento in cui si ricercava visibilità e si ponevano le premesse per una allargamento numerico di quanti sostenevano la determinata lotta. Da un po’ di tempo invece il meccanismo si è inceppato: invece di essere il momento culminante, in assenza di reale movimento di classe, si utilizza la forma corteo per tentare di creare artificialmente quella scintilla che possa dare fuoco alla prateria. In assenza di conflittualità diffusa, si punta sull’effetto visibilità per creare quella conflittualità, sperando in un suo proseguo una volta dato l’esempio dall’alto, o dal centro. Ma questo è un modo artificiale, e in questi anni dimostratosi inservibile, di creare conflittualità e utilizzare la forma corteo. Se il corteo dev’essere utilizzato come momento iniziale di un possibile percorso di lotta, siamo d’accordo con Wu Ming: questo diverrà sempre più inservibile, e andrà perdendo inesorabilmente il proprio significato. Sempre più frustrati da scopi politici inarrivabili, obiettivi militanti lungo i percorsi preclusi a una reale pratica dell’obiettivo, iperfetazione di azioni e di flashmobbing, c’è il rischio che cortei del genere si trasformino in momenti di sfogo piuttosto che in strumenti di visibilità. E questo potrebbe produrre non tanto la fine della forma corteo, quanto la sua progressiva irrilevanza politica.
Se una manifestazione viene chiamata sulla scorta di parole d’ordine quali sollevazione, assalto, assedio, ecc…se poi questo non si produce c’è il rischio di credere che o la manifestazione si trasformi continuamente nel 15 ottobre/14 dicembre o non sia riuscita. Il problema è che non è la manifestazione che produce l’assedio, ma le lotte di classe, di cui questa costituisce il momento di visibilità, che lo determinano. Non si possono sostituire queste con degli scontri di piazza. Questi producono risultati se c’è un obiettivo politico immediato e realizzabile attraverso di questi. Ma sabato questo obiettivo non c’era. E il 15 ottobre non è stato politicamente importante perché ha prodotto una sollevazione di piazza, ma perché il soggetto di quella sollevazione era costituito da un’eccedenza sociale che ha scavalcato tutte le organizzazioni politiche, e che dunque, nella sua disperata ricerca d’espressività e nella riaffermazione della propria autonomia, ha deciso di rappresentarsi attraverso quella modalità. Il dato interessante, che sarebbe stato obbligatorio analizzare, non era lo scontro di piazza, ma il soggetto protagonista, espressione della nuova composizione di classe.
Detto questo, crediamo sia dunque un fatto positivo che il corteo non si sia trasformato in rivolta di piazza, in assenza dell’obiettivo politico. Questa rivolta, necessaria, dev’essere prodotta da lotte reali, e non risultare dalla frustrazione di chi non vede obiettivi politici immediati durante una manifestazione e crede che il processo di lotta si possa bypassare con una sua rappresentazione mediatica. Ogni strumento funziona se rimane, appunto, strumento, e non fine in se. Lo scontro di piazza è lo strumento con cui portare avanti le proprie battaglie. Se si trasforma in fallo di frustrazione, perde la sua efficacia.