Caccia al nero

Caccia al nero

caccia al nero

Pubblichiamo il capitolo su Rosarno del libro “Servi. Il paese sommerso dei clandestini al lavoro” di Marco Rovelli, uscito in libreria qualche mese fa.  Il capitolo è significativamente intitolato “Caccia al nero” e descrive dettagliatamente la realtà di razzismo e di sfruttamento dentro cui è maturata la rivolta di questi giorni.  Finalmente è accaduta, ci viene da dire insieme a Rovelli.

da nazioneindiana.com

[A Rosarno è in corso una rivolta di braccianti subsahariani. Ancora una volta qualcuno gli ha sparato contro, e loro si sono presi le strade. Ripubblico il capitolo di Servi in cui raccontavo della mia esperienza rosarnese. Dove, come si può leggere, quel che accade oggi non è che una conseguenza naturale degli eventi. Naturale e giusta.]

La sezione è ancora quella del Pci. Uno stanzone con del materiale vario accatastato in fondo, vicino alla porta, dall’altro lato un vecchio tavolo, alla sua sinistra una bandiera del Pci, aperta, dispiegata, e a destra una televisione. Davanti alla televisione, o meglio sotto, ché la televisione è poggiata su un ripiano a due metri da terra, è seduto un vecchio iscritto al partito. Gli siedo accanto, ai piedi una stufetta elettrica, e lui smette di guardare la tv, ci mettiamo a parlare, e mi racconta di quando il suo maestro se ne andò a Varese che lui aveva quattordici anni e gli aveva lasciato la forgia, e lui doveva sostenere la clientela di tutti i contadini della zona, e fare falci zappe e roncole per tutti.
La casa del popolo di Rosarno è intitolata a Peppe Valarioti, che ne era segretario nel 1980, quando lo ammazzò la ‘ndrangheta. A cinquanta metri da qui c’è anche una piazza che gli è stata intitolata: non lontano da quella piazza un paio d’anni fa hanno ucciso un ucraino che ripartiva per il suo paese con un pulmino, come d’uso i suoi connazionali gli avevano affidato i soldi da portare alle famiglie, quei soldi guadagnati nelle campagne raccogliendo arance e mandarini, conviene far così, mandarli col pulmino ché la commissione della Western Union è più alta e il pulmino i soldi li porta direttamente a casa, ma le voci corrono, e in questa zona sono velocissime, tanto veloci che le cose qui si sanno prima che accadano, così l’ucraino lo hanno aspettato che era buio e stava per partire, dev’essere andata che gli si sono presentati davanti con una pistola e lui ha fatto resistenza, così la pistola ha declinato il suo verbo e lui è caduto al suolo, crepato, accanto al nome di Peppe Valarioti, crepato anche lui per una pistola mafiosa, in un ristorante, accanto al suo compagno sindaco Peppino Lavorato, che per festeggiarlo, la notte di capodanno dopo il suo insediamento, gli avevano regalato una pioggia di fuoco, cinquantanove attentati in una notte, fucili mitragliatori che sparavano contro le serrande dei negozi, contro i vetri del comune, contro i portoni delle case, e poi il botto finale, con Peppe Valarioti, giovane intellettuale, crepatogli in faccia, al tavolo di un ristorante, un’altra pietanza da offrire all’altare del sacrificio.Io ho paura, mi dice Giuseppe (c’è un’eccedenza di Giuseppi qui, almeno nei nomi la tradizione ancora resta), Ho paura perché non sono da solo, perché c’è la mia famiglia con me. Un giorno davanti alla sezione hanno appeso delle teste di vitello mozzate, e qui il senso di queste cose ce l’abbiamo chiaro.

Quando hanno ucciso Valarioti la gente aveva paura anche di pensare. C’erano trecentocinquanta iscritti alla sezione, allora, e dopo l’omicidio in questo stanzone erano in quattro. Uno di loro era il vecchio compagno che guarda la televisione, il vecchio compagno che tutti chiamano mastro Melo.

Avevo quattordici anni, dice mastro Melo, Non un mese in più non un mese in meno. E oggi a quello di trent’anni, anche di quaranta, lo chiamano “u’ figghiolu”. Ma quale figghiolu, dice mastro Melo, figghiolu ero io a quattordici anni, quello a trent’anni è vecchio! Oggi c’è corruzione, dice mastro Melo. Non mi piace affatto.

Rosarno, dove la famiglia Pesce che è la cosca più potente del luogo ha fatto pure l’impianto di condizionamento in chiesa, comincia da qui, dalla casa del popolo Peppe Valarioti, e proprio dietro l’angolo, affacciato su piazza Valarioti, c’è l’ambulatorio di Medici Senza Frontiere, dove forse era andato a visitarsi anche l’ucraino ammazzato lì vicino. Quelli di MSF, prima, stavano nel palazzo dell’Azienda Sanitaria Locale, ma poi li hanno cacciati, La cittadinanza non li vuole qui, dicevano, Hanno paura per l’igiene, le mamme vengono con i bambini e si trovano tutti questi neri, non è igienico, loro hanno paura, giustamente hanno paura. La paura è reciproca, signora mia. Solo che per i neri è elevata alla milionesima potenza.

Lo sport più praticato dai giovani di Rosarno è la caccia al nero. Dove “nero” non designa un subasahariano, ma indica indistintamente – senza discriminazione – un africano: di pelle scura o chiara è lo stesso. Il lunedì mattina, sugli autobus che portano a scuola, i ragazzi si fanno i reportage dei rispettivi pestaggi, sono motivi di vanto, di onore, a misurare il valore, tante croci sul petto. Ci sono delle tecniche, per linciare un nero. Anzitutto, evidentemente, essere in gruppo. Poi appostarsi nei luoghi strategici, dove sei obbligato a passare se vuoi andare da un punto all’altro del paese. Luoghi come via Carrara, via Roma, via Convento. Su via Convento, ad esempio, c’è un muraglione da dove si ha a portata di sasso chiunque passi di sotto. Ma anche sul corso (il corso, nei paesi come Rosarno, non ha un altro nome: è il corso e basta) – anche sul corso ci sono i presìdi, si aspetta che passi un nero per dargli la caccia. Appena due mattine fa, dice Antonino (ha i capelli alle spalle, un maglione colorato, un giubbotto di pelle scamosciato – “pure io quando cammino, mi sento dire drogato, frocio, come sei combinato…”), un ragazzino maghrebino correva, terrorizzato, lo rincorrevano in tre, con delle verghe in mano, l’ho fatto salire in macchina e l’ho portato via. E lo stesso ha fatto qualche tempo prima Giuseppe con un ragazzo algerino, a inseguirlo erano dei ragazzi più giovani di lui, avranno avuto dodici o tredici anni.

Io, quando li vedo passare, mi metto sul ciglio della strada, e lancio un sasso in aria, un bel sasso grosso, così gli faccio vedere che non ho paura, che sono pronto a reagire. Così mi dice Michael James, liberiano, che ho già incontrato all’ex zuccherificio di Rignano, vicino a Foggia, dove raccoglieva i pomodori, e che incontro di nuovo all’ex cartiera di via Spinoza, un posto che il miglior scenografo hollywoodiano saprebbe difficilmente restituire in tutto il suo scenario apocalittico, entri e ti trovi in mezzo a una cortina di fumo, e l’abbaglio di fuochi in mezzo a questo lucore tagliato da fasci di luce che entrano dalle feritoie del tetto coperte da plastica gialla ondulata, come fosse una cattedrale della desolazione, questa è la vera, realissima wasteland che nessuno spettacolo illumina, fuochi per cucinare accanto alle baracche di assi di legno inchiodate, con pareti di cartone e plastica e ancora cartoni a far da tetto, fissati da scarpe, sassi e stivali. Cumuli di terra. Rifiuti. Ethernit. Detriti. Laterizi.

Sul grande muro in fondo al capannone ci sono scritte, e numeri di telefono.Tra le scritte, Procrastination is a thief of time. By Goding King, Prisoner of conscience mess.
A giugno dell’anno scorso sono entrati nella cartiera, hanno bruciato le baracche, le fiamme sono arrivate fino al tetto. Un’altra volta dei ragazzini , “bad guys” hanno detto i ragazzi della cartiera, sono entrati in macchina nel cortile, Ve ne dovete andare, hanno gridato, agitavano le pistole, e anche stavolta le pistole hanno declinato il loro verbo ad altezza d’uomo, nessuno però stavolta è caduto sui detriti.

E se qualcuno fosse caduto, si sarebbe trattato di un regolamento di conti tra questa gente clandestina e dunque portatrice di colpa, gente che la propria innocenza deve sempre e solo dimostrarla. Come è successo quando hanno fatto in piazza la festa per la fine del ramadan, un vero e proprio gesto politico, un gesto forte, una manifestazione d’esistenza. A notte se ne sono andati a gruppetti, per non restare soli, ma qualcuno è stato costretto a fare un tratto di strada da solo, gli pareva che non ci fosse nessuno alle spalle, e invece sono sbucati all’improvviso, loro sì davvero uomini neri, clandestini, gli si sono parati davanti e gli hanno detto Negro di merda devi andartene di qua, e giù botte, il ragazzo (anche lui un nero di quelli chiari) è rimasto a terra, il viso coperto di sangue, qualcuno ha chiamato la polizia, e la polizia al nero chiaro gli ha detto, Ma tu che ci facevi in giro a quest’ora?

Il terzo giorno d’ospedale, il ragazzo, appena ha avuto un po’ di forze per alzarsi dal letto, è scappato. Ché il clandestino, per la legge, è lui.

Mi inoltro nella cartiera, cammino tra le baracche. Luogo di fantasmi. Fantasmi realissimi, però. Che stanno attorno a un fuoco e si cucinano un pezzo di carne. E’ tarda mattinata, e oggi non si lavora che fino a poco fa pioveva. Mi avvicino al fuoco, per scaldarmi. Un ragazzo mi saluta, ci presentiamo. Lui si chiama Charles, è liberiano. E’ venuto l’anno scorso col barcone, non parla ancora italiano. Qui aveva degli amici. Le sue venticinque euro a giornata, a cui vanno sottratte le due e cinquanta da dare al guidatore del pulmino, non riesce a guadagnarsele tutti i giorni. A volte sono solo tre in una settimana, a volte cinque. Dice che non vuole tornarci in Liberia, in Italia ormai si sta ambientando, ha da lavorare. Finita la raccolta delle arance tornerà a Castelvolturno, nel casertano, dove fa base. E dove ogni tanto riesce pure a trovare qualcosa da fare, nella campagna. Il suo amico che sta cuocendo la carne, invece, è togolese, è qui da un anno e mezzo, e anche lui fa base a Castelvolturno.

Esco dal teatro di fantasmi, nel piazzale.

Un ragazzo camerunense mi si avvicina, è disperato perché gli hanno rubato il portafoglio e dentro c’era il foglio di via. Non sa di preciso cosa sia, sa solo che è un documento, l’unico peraltro che attesti la sua esistenza qui,. Gli dico che non si deve preoccupare se l’ha perso, al limite è meglio così. Si fa felice d’un tratto, il volto risplende di un sorriso, Thank you! E’ sollevato, sa che non ha perso un’occasione, un rimpianto non gli sta più sullo stomaco, basta poco per riaprire il tempo…

Poi comincio a spiegare come funzionano le regolarizzazioni, e si forma un capannello. Nessuno sa niente. E tutti mi ringraziano, strano essere ringraziati per informazioni che dovrebbero scontate, e che per loro sono vitali. Poi mi raccontano dei loro problemi, siamo in trecento qui, e tutti senza documenti. “Ci mandano via con un decreto di espulsione, ma noi non abbiamo soldi, dove andiamo? E poi è assurdo che il comune ci fa docce e bagni, poi il giorno dopo arriva la polizia e ci lascia per strada, o nella migliore delle ipotesi ci prende i soldi dalla tasca.” Un ragazzo nero, lo sguardo teso, si fa largo con la voce e chiede di essere ascoltato. Mi chiamo Mohamed Bashir, dice, vengo dal Niger.

“Ho bisogno di aiuto.” Parla un po’ in inglese e un po’ in italiano. “Sono un musulmano, sposato a una cristiana. Do you understand what i’m telling you?

My foliodivia is here, I can give you right now! Ma se io torno, muoio. Ho trent’anni. I can die anytime, I don’t care, ‘cos I’m tired.”

Mia moglie è morta, dice. “Lei mi disse che non poteva sposarmi se non ero cristiano. Io volevo questa donna, e avrei fatto qualsiasi cosa che potesse soddisfarla. Così mi sono convertito. Because of my woman. Hanno avvelenato il cibo: i miei genitori, tutta la mia famiglia, sono stati loro. Hanno avvelenato mia moglie e mio figlio.”

Mi mostra l’orecchio accartocciato – they beated me – ed è evidentemente dovuto a una ferita. Ha anche una cicatrice vistosa sul labbro. “Sono venuto via dal Niger lo scorso anno, poi sono stato quattro mesi in Libia. Sono sbarcato a Pozzallo, poi mi hanno portato a Trapani. Lì mi hanno fatto l’intervista per l’asilo. Ma me l’hanno negato. Quando sono uscito da lì sono andato a Palermo, al centro di Biagio Conte. Ho avuto un contatto con un avvocato, ma voleva quattrocento euro per il ricorso, e io non li avevo. Ma io al commissioner che mi faceva l’intervista gli avevo spiegato tutto.

Mi aveva anche chiesto se so cos’è la comunione. Yes: the bread is the body of Christ and the wine is the blood of Christ. …and the glory of god. Io non posso più essere un musulmano. Io ho chiesto al commissioner di cambiare nome, non più Mohamed Bashir, ma un nome cristiano. Ha rifiutato. I don’t worry, I can die anytime, I give my life to God.”
Telefono subito all’avvocato, la mia amica Alessandra, gli espongo il caso.
Ed è dura dire a Bashir “There is nothing you can do”. “Ok, I go back to Niger.” E’ dura sostenere il suo sguardo che mi oltrepassa e va a infilarsi in un vuoto che solo lui sa. E’ dura vederlo girarsi e rientrare nel teatro dei fantasmi.

Quando ripassiamo dalla cartiera, nel pomeriggio, Bashir mi saluta. Ma il suo sguardo è spento, l’espressione incupita, cammina a testa bassa.

Prima di scendere a Rosarno avevo telefonato a Michael James, il liberiano incontrato a Rignano, dove ci eravamo scambiati i numeri, anche perché gli avevo promesso di informarmi a che punto era la sua domanda per lo status di rifugiato. Mi aveva detto che al tempo della mia discesa non ci sarebbe più stato – invece lo trovo dentro la cartiera. Quando mi vede mi si fa incontro con un cinque. Ma come, gli dico, Non dovevi già essere partito? Lui risponde con un sorriso, Ho trovato lavoro tutti i giorni quest’anno! – e chi se l’aspettava. Ehi che cappellino, gli dico. E’ un cappellino da baseball rosso e bianco con una foglia di marijuana sul davanti. Ma ho smesso di fumare, dice, anche le sigarette, guarda qui. E mi fa vedere un dente, marrone dal fumo. Eh, il nervoso dice… Mi racconta che a Monrovia era un taxi driver, e che i suoi genitori sono scappati da qualche parte in Ghana ma non sa dove.

Poi racconta che molti dei suoi amici stanno andando in Spagna, che proprio ieri un suo amico gli ha telefonato, lavora in campagna, come qui, ma guadagna quaranta euro al giorno. E poi molti altri vanno in Inghilterra, e Andama, quello che era con lui a Rignano, è riuscito ad arrivarci, nascosto in un camion, e adesso lavora in una piccola azienda. Ci vado anch’io, dice, appena ho un po’ di soldi per il viaggio.

“Devi avere i soldi anche per pregare – dice. Se hai i soldi allora preghi e dici, Grazie Dio! Se non li hai, la tua mente non riesce a pregare, e allora dici, Oh Dio perché mi hai punito…”

Quando ci salutiamo, con un abbraccio, fa l’ultima invocazione: “Dio dei documenti!” Non riesce a pregare Dio, ma invoca un dio che potrebbe salvargli la vita.

Qualche settimana fa nella cartiera c’era anche Philip, un ragazzo ghanese. Me ne racconta Antonino. Al nord aveva avuto problemi con lo spaccio, e qui lavorava nei campi. Stava andando dal padrone a riscuotere la paga, lo accompagnava un amico con la sua auto. Un trattore esce da una stradina laterale d’improvviso e colpisce l’auto, che resta danneggiata. Che facciamo adesso? Il signore del trattore sembra disponibile, venite cinquanta metri più avanti, lì sulla destra c’è la campagna mia, ci fermiamo e parliamo. Ma appena all’ingresso del fondo, quello prende un badile e li colpisce sulla testa. L’amico riesce a scappare, Philip resta tramortito a terra, sul bordo della strada, finché una macchina passa e, guardandosi bene dallo scendere per aiutarlo vedendolo tutto sanguinante con uno squarcio sulla testa, chiama la polizia. Un’ambulanza lo porta in ospedale, dove gli danno dei punti di sutura, e insieme la polizia gli consegna il foglio dell’espulsione.

Philip non ha voluto far denuncia, per paura di quello che l’aveva picchiato. Non si sentiva protetto per farlo, né sentiva di avere qualche chance per avere giustizia. Del resto la polizia non aveva proceduto nemmeno alla denuncia d’ufficio.

La polizia, agli abitanti della cartiera, si era fatta conoscere nel gennaio 2006 arrivando con le camionette, facendo uscire tutti e disponendoli in fila sul bordo della strada. Trattati con i guanti, nel senso che tutti i poliziotti avevano i guantini da infermieri, e il messaggio che passa è quello di infezione. Quando all’indomani del blitz Antonino era entrato nella cartiera, aveva incontrato chi aveva la macchina spaccata e gli erano state portate via le chiavi, chi diceva che i poliziotti gli avevano preso le borse con dentro telefonino e documenti, chi diceva che gli avevano preso cento euro. Tutto era stato sfondato, le baracche dove dormivano, le porte del bagno, un televisore con la parabola unica ricchezza, i due piccoli chioschi interni al luogo, e anche le stanze dove si esercitava la prostituzione. Perché questi sono come eserciti di uomini, e come tutti gli eserciti di uomini non manca mai il battaglione delle donne che vendono piacere.

La cartiera non è l’unico luogo abitato da questi braccianti. Ce ne sono almeno altri cinque. L’ex fabbrica della Rognetta, il ponte dei maghrebini, il ponte dei neri, il casolare della Fabiana, il casolare in collina dei senegalesi. Ci vado con Antonino e Giuseppe, che distribuiscono vestiti.

Se alla cartiera ci sono solo subsahariani, alla Rognetta ci sono anche egiziani, marocchini, tunisini. Mi fermo a parlare con un egiziano di Alessandria che è stato due anni e mezzo a Milano, abitando in un appartamento con molti amici nella zona di Loreto, facendo il carpentiere. Dopo l’obbligo del cartellino voluto dal decreto Bersani ha avuto grosse difficoltà per lavorare, finché è stato trovato in metropolitana, dove oltre alla multa gli hanno dato il foglio di via. Così ha deciso di scendere. Solo che se lavorando tanto a Milano riusciva, col padrone che aveva, a guadagnare anche 120 euro al giorno, adesso non supera le 25. E in Egitto ha una moglie e due figli da mantenere.

Alla Fabiana c’è un casolare isolato dove ci stanno regolari. Lui si chiama Michael, è del Burkina Faso dove ha moglie e tre figli, e quando gli nomino Marcella della Campagna Tre Titoli si stupisce, Come fai a conoscerla! Poi, condividiamo anche un altro nome – onorato non solo dai burkinabé: quello del presidente Thomas Sankara, rivoluzionario e martire.

Ci sono quelli più fortunati che stanno in affitto, per la maggior parte esteuropei, otto persone per stanza, anche cento euro a persona. Una manna per i padroni di casa di qui, dove gli affitti sono molto bassi. Gli esteuropei tendono spesso a risiedere sul territorio per tutto l’anno, un po’ meno i maghrebini: negli ultimi anni sono rimasti in meno ad abitare in queste zone, e qualcuno dice che dietro a questo decremento c’è la mano della ‘ndrangheta. Si tratta di due tipi di migrazioni differenti, del resto: la maggior parte degli esteuropei viene con la famiglia, le donne cercano posto come badante, ma lavorano anche nella raccolta (non solo le arance, ma anche le fragole nelle serre di Lamezia, o le cipolle a Tropea); i maghrebini invece – le cui case si riempiono a rotazione, per far festa con tè alla menta, violino e tamburello – sono giovani soli. I subashariani, poi, sono legati al circuito della stagionalità, e arrivano a Rosarno tra ottobre e novembre. Come Michael, come Charles.

Rosarno veniva chiamata Americanicchia, una volta, quando i braccianti della Jonica ci andavano a lavorare, e i grandi commercianti amalfitani e napoletani aprivano negozi, empori. Oggi la ‘ndrangheta si è mangiata tutto, si sta comprando le terre stabilendo i prezzi con minacce e intimidazioni, il mercato delle arance e dei mandarini è in mano a un oligopolio criminale, le cooperative dei produttori a cui i singoli agricoltori devono rivolgersi sono legate con le mafie, e sono loro che gestiscono il denaro dell’integrazione dell’Unione europea, il cui sostegno non era indirizzato alle strutture o alla qualità del prodotto, ma al prezzo: questo ha favorito truffe organizzate su vasta scala (le cosiddette “arance di carta”). Così, si trovano agrumeti ovunque, a Rosarno, anche dove dovrebbero essere gli alvei di fiume, riempiti appositamente per strappare incentivi europei.

Come mi racconta Peppino Lavorato, l’ex sindaco che era al ristorante con Valarioti quando venne ucciso, i nuovi agrari, soppiantando i baroni, sono diventate le cosche – che si sono arricchite col traffico di droga e di armi, e hanno fatto investimenti in attività immobiliari al nord sia d’Italia che d’Europa. Gli investigatori stimano che l’80% della cocaina d’Europa arriva dalla Colombia attraverso il porto di Gioia Tauro, insieme a consegne di Kalashnikov e Uzi, e il commercio è controllato dal centinaio di famiglie delle cosche.

I capitali accumulati, poi, vengono reinvestiti. Immobiliari e finanza anzitutto. Ma anche gli anelli più bassi della catena mafiosa riescono a reinvestire: Don Giuseppe Demasi, referente dell’associazione Libera in questa zona, mi racconta, quando lo vado a trovare a Polistena nella sua canonica, che molte persone legate alla ‘ndrangheta e che lavorano nell’edilizia si sono spostate al nord, tra Reggio Emilia e Modena, una zona piena di affiliati. Hanno un piccolo capitale accumulato che reinvestono in quel modo, utilizzando manodopera e distribuendo lavoro, e possono farlo in territori dove possono godere di una sostanziale anonimità.

I migranti sono l’anello debole di questa catena: è anzitutto su di loro che si riversa la crisi generalizzata prodotta sul territorio dall’egemonia criminale (che ovviamente non esita a usarli al gradino più basso della catena, per spaccio o prostituzione). Un latifondista ha raccontato a don Giuseppe che la ‘ndrangheta stabilisce anche la paga giornaliera dei migranti, che impone una sorta di calmiere: Tu non puoi dare più di questi soldi, dice all’agricoltore. La crisi generale del settore ha aumentato la concorrenza sul mercato del lavoro per i braccianti immigrati, dell’est Europa o africani. I subsahariani – i neri più neri – sono quelli che ci hanno rimesso di più, e lavorano di meno.

La cifra normale per una giornata di lavoro è di 25 euro, ma trattandosi di clandestini capita più o meno regolarmente che qualche caporale non paghi. C’è chi fa parte di una squadra in maniera continuativa facendo riferimento a un caporale “compaesano” e – per la maggior parte – c’è chi cerca lavoro giorno per giorno, trovandosi prima dell’alba sulla strada principale di Rosarno, radunandosi per gruppi “etnici”: i maghrebini, i rumeni e i bulgari, i rom (rumeni anche loro, ma a distanza), i subsahariani. Come Michael.

Sono le cinque di mattina, sul lungo viale.

Davanti all’International Phone Center c’è un gruppo numeroso di marocchini. Sono quelli che, per la pelle chiara, hanno più facilità a trovare lavoro.

Più avanti un gruppo di Craiova, un signore anziano, con un berretto tipico, è in Italia con la moglie da un anno e mezzo: dice che sono qui da tre mesi ma lavorano poco, una giornata a settimana per 25 euro. Ho già conosciuto diverse persone di Craiova, e sono rom. Gli chiedo se anche lui lo è. Risponde con un sì sottovoce, come se fosse sorpreso di essere scoperto, e in quella voce che si abbassa risuona la paura. I rumeni, suoi connazionali, sono a distanza.

Più avanti parlo con un tunisino che è qui da 17 anni, ed è regolare. Dice con orgoglio di gestire una squadra di sessanta persone. Io dò di più degli altri, dice, 32 euro al giorno. I miei sono solo marocchini, tunisini, algerini – gli altri non mi piacciono. Ma oggi la mia squadra non lavora perché piove, per me va bene, allora vengo a reclutare altri lavoratori.

Incontro anche dei nigeriani, loro abitano a Napoli e mi chiedono notizie sulle leggi sull’immigrazione, vogliono sapere se una sanatoria la fanno o no. Macché nuova legge, gli rispondo.

I pulmini arrivano, si sale in fretta e in fretta si riparte. La donna che sta seduta davanti è rumena ma ha l’accento napoletano. Che cazzo guardi guaglio’? Sul parabrezza una busta di pane e il giornale Business. Sui sedili di dietro, giovanissimi maghrebini.

Sono clandestini, senza di loro le arance resterebbero sugli alberi. Di loro hanno bisogno i padri nei campi, ma di loro hanno bisogno anche i figli per prenderli a sassate, che nelle loro figure espiatorie trovano il bersaglio ideale della loro cultura modellata dalla mafiosità, che di sacrifici si nutre, come Peppe Valarioti sacrificato su un tavolo di ristorante, quella mafiosità che fa cultura, che sempre più spesso fa rispondere, alla domanda Cosa vuoi fare da grande? – Il boss.