Che fine ha fatto Antonio Di Pietro? Quando la politica post-moderna mostra tutti i suoi limiti
Fino al mese scorso Antonio Di Pietro era uno dei politici più presenti su ogni organo mediatico. Trasmissioni di approfondimento politico, telegiornali, varietà; interviste sui giornali, in radio, su internet. Non c’era giorno che non si aprisse e si chiudesse con una dichiarazione del leader dell’IDV, sempre pronto ad esternare su qualsiasi tema politico o sociale avesse risalto sui media. L’inutile partito creato come contenitore politico delle sue dichiarazioni, l’Italia dei valori, grazie alla presenza mediatica del suo leader riusciva ad accreditarsi come uno dei maggiori partiti dell’arco parlamentare. Poco prima della sua scomparsa infatti era quotato fra l’8% e il 10% a livello nazionale, una percentuale enorme per un partito inesistente socialmente. Poi, una banalissima puntata di Report è bastata a decretare la scomparsa mediatica e politica del suo leader, e di conseguenza il crollo dell’IDV. L’eclissi mediatica di Di Pietro ha determinato lo smembramento del partito, la sua invisibilità mediatica e, di conseguenza, la sua irrilevanza elettorale. Oggi come oggi i sondaggi più benevoli lo attestano al 2%.
Esattamente un anno fa si apriva la (sacrosanta) campagna giudiziaria contro la Lega Nord. Il famigerato “cerchio magico” bossiano veniva non solo colpito da una serie di inchieste della magistratura, ma anche sostanzialmente fatto fuori dagli organi direzionali del partito. La Lega, unico partito dell’arco parlamentare ad opporsi (formalmente) al governo Monti, veniva anche fatto oggetto di una campagna mediatica feroce, scioccante soprattutto perché fino a qualche mese prima – e per un decennio abbondante – veniva incensata su tutti i giornali quale genuino movimento che portava avanti le ragioni della piccola e media borghesia del nord.
Bene, nonostante gli attacchi, dopo poche settimane la struttura organizzativa della Lega ha saputo riprendersi come niente fosse. Accantonato il leader, ha saputo cambiare i vertici politici, ha mantenuto le posizioni sul territorio, ha portato avanti le sue battaglie rompendo con il PDL e oggi viaggia su percentuali elettorali simili a quelle pre-crisi giudiziaria e mediatica, inoltre con buone possibilità di esprimere il candidato governatore della regione Lombardia, cioè Maroni.
Ora, a nostro modo di vedere le due vicende rappresentano al meglio la differenza – sostanziale e politica – fra il modello liquido e leaderistico del partito personale e quello del partito organizzato. Nonostante l’antipolitica cavalcante, il ruolo fagocitante dei media, la retorica contro politica di professione e organizzazione, fatta di social network e media come unico obiettivo della struttura politica, queste due vicende dimostrano che anche oggi avere un partito organizzato e radicato è l’unico modo per poter godere di una propria libertà politica. Di Pietro, così come Grillo, Vendola, e anche come la parabola discendente di Berlusconi dimostrano, può raggiungere velocemente risultati elettorali importanti; può agevolmente orientare una macchina organizzativa snella e elementare; può bypassare e velocizzare discussioni, riunioni e congressi, consentendo prese di posizioni immediate; può essere più efficace mediaticamente e apparire meglio in televisione, ma sarà sempre sotto minaccia costante del ricatto mediatico. Il partito leaderistico, come ogni organizzazione che si trasforma esclusivamente in segreteria del capo, esiste finchè i media consentono la sua esistenza. Finchè è funzionale al discorso dominante, o al più finchè fa audience. Ma appena la presenza politica di questo o di quel leader non è più funzionale, come ad esempio la Lega Nord durante l’instaurazione del montismo, una qualsiasi campagna mediatica minimamente efficace lo rende inesistente. Non ha più alcuna organizzazione dalla quale ripartire, dei militanti da mobilitare, una struttura capace di reggere l’attacco, di ritirarsi nelle sue roccaforti e di ripartire una volta assestato il colpo. L’assenza mediatica del capo ne determina la sua irrilevanza politica e, soprattutto, elettorale; il crollo d’immagine del capo determina anche lo sfaldamento del partito, che altro non è che segreteria allargata del segretario, che scompare con l’eclissi del leader.
La vicenda dell’IDV riguarda da vicino anche il movimento di Grillo e il partito di Vendola. Infatti, esattamente come Di Pietro, sono ambedue movimenti politici inesistenti nella realtà. Non hanno militanti, non sono presenti nelle contraddizioni fra capitale e lavoro, ma esprimono solo una classe politica slegata da ogni rapporto con la base (che non c’è), funzionale solo alla rappresentanza nelle istituzioni, l’unico obiettivo di queste nuove forme-partito.
L’unica differenza con Grillo è che il leader del M5S questo discorso lo ha capito. Infatti, il divieto assoluto dei candidati del movimento ad apparire sui media è funzionale a non farsi fagocitare dagli stessi, sottraendosi ad un gioco che può portare voti ma che reitera il ricatto al quale sono sottoposti tutti i partiti “liquidi-leaderistici”, e cioè quello di dipendere univocamente dai media. Un discorso che avrebbe dovuto capire la sinistra già da molti anni, troppo impegnata a ritagliarsi la propria presenza in ogni trasmissione, ma poco lucida nel comprendere che ciò che ti porta qualche percentuale di voto in più rappresenta anche il potere che può decretare la tua rovina (come infatti è puntualmente avvenuto!).
Il problema di Grillo è che, nonostante abbia capito il meccanismo, non può alla lunga sottrarvisi, perché anche il Movimento 5 stelle è organizzato nella medesima maniera. Finchè rimane movimento virtuale e mediatico, un qualsiasi soffio di vento può produrne la scomparsa. E lo stesso discorso vale ancor di più per Vendola, che oggi rappresenta l’utile idiota funzionale alla rappresentazione democratica del potere politico, ma se un giorno non servisse più basterebbero due titoli di giornale per dimezzarne la dimensione elettorale, cioè l’unica dimensione che ha il partito di Vendola.
Dunque, per concludere, la Lega Nord non è certo il nostro riferimento politico, ma la sua strutturazione dimostra che anche negli anni duemila l’organizzazione politica consente di avere un peso reale, che va al di là delle percentuali elettorali e che permette la libertà di sottrarsi al ricatto di un esistenza basata unicamente sulla concessione di visibilità che il potere mediatico concede.