Chi ha vinto le elezioni iraniane?
Non che fosse una notizia inaspettata, ma la rielezione di Mahmoud Ahmadinejad ha comunque messo in fibrillazione l’intera stampa occidentale, condizionando (se mai ce ne fosse bisogno in questo caso) le reazioni politiche dalle principali capitali. Sarebbe quanto mai superfluo ora unirsi alle solite considerazioni su presunti brogli, sulla sterzata che il risultato delle urne ha dato ai processi di avvicinamento tra Iran e Occidente e sulla incontrollabile forza cui ora può liberamente attingere il neo confermato Presidente. E questo non perché non ci interessi la dinamica interna del voto iraniano e le ripercussioni che può generare su scala mondiale; riteniamo maggiormente fruttuoso – per una comprensione globale delle vicende del Medio Oriente – soffermarci sugli aspetti squisitamente “politici” del dopo elezioni, senza per questo prendere posizione sulla regolarità o meno delle operazioni di voto e sulla linea usata da Ahmadinejad in queste ore per gestire il dissenso delle piazze. Gli scontri che si stanno prolungando nella capitale iraniana hanno oscurato i primi e parziali dati che erano stati immediatamente dati in pasto all’opinione pubblica: il vero sconfitto non è Mousavi, ma è Barack Obama; l’unico vincitore sicuro è Israele. Dalle colonne del Corriere oggi è stato Franco Venturini a rilanciare sul duro colpo che deve incassare la Casa Bianca dopo il voto in Iran; l’ipotesi del dialogo, dell’apertura, dei negoziati sul nucleare, sembrano dissolversi tutti d’un tratto, quasi se la tornata elettorale avesse visto trionfare un outsider per nulla incline al dialogo con Washington. Non che il Presidente iraniano sia noto per questo; ma verrebbe da chiedersi – vista la vittoria dell’uomo cui gli Stati Uniti avevano rivolto l’invito al dialogo – se qualcuno non legga tra le righe una certa contraddizione. L’invito-shock di Obama a trattare direttamente con Ahmadinejad era stato sottolineato come un tentativo si azzardato ma finalizzato alla distensione dei rapporti tra i due Stati. Oggi la rielezione del Presidente iraniano è vista come un ostacolo al dialogo e come un problema per l’intera area geografica. Ora, nessuno vuole peccare di ingenuità; sappiamo quanto Washington anelasse alla vittoria del fronte moderato di Mousavi. Però ci sembra ipocrita (sempre per non peccare di ingenuità) questo nuovo clima di gelo che si respira a casa Obama. Non fosse altro perché, a nostro modesto parere, se qualcuno deve considerarsi sconfitto dopo il risultato delle urne – beh, sicuramente possono esserlo gli stati arabi sunniti e moderati, Egitto su tutti. E se in merito a questa considerazione ci troviamo d’accordo con Venturini, non lo siamo sulle motivazioni di base: sconfitti e spiazzati non solo perché “costoro non hanno mai nascosto i loro timori verso la crescente influenza dell’Iran sciita, e nella loro ottica un cambio di guardia a Teheran sarebbe stato […] un forte motivo di sollievo”, ma soprattutto per l’accanimento con cui l’Iran riproporrebbe alla comunità internazionale gli abusi dell’occupazione israeliana in Palestina. Un accanimento che fa il gioco di Israele; nuovamente e ancor più minacciato, dall’Iran e ancor più dalla nuova linfa vitale che la rielezione di Ahmadinejad ha dato ad Hamas. Due piccioni con una fava. Anzi, tre con gli Stati Uniti. Pronti adesso a fare dietrofront sul nucleare e a chinare il capo sull’offensiva sionista in Palestina – nonostante proprio in queste ore Netanyahu abbia “aperto” alla possibilità di un nuovo negoziato che riconosca lo stato palestinese (senza che si discuta dello status di Gerusalemme; escludendo il ritorno dei profughi allontanati nel ’48; ponendo come condizione la demilitarizzazione dello Stato Palestinese. Davvero conciliante…) ma che nasconde – in realtà – la sola volontà di ricevere un secco no da Gaza per poter poi procedere manu militari.
Insomma – nell’imbarazzo degli Stati Uniti e nella soddisfazione di Israele, gli stati della Lega Araba peccano nuovamente di miopia e lungimiranza politica; non che abbiano mai assunto posizioni decise contro lo strapotere sionista; sarebbe assurdo aspettarselo ora. Ma cominciano a divenire artefici di una politica blanda, inefficace e di facile lettura. Non a caso nell’ottobre 2008 Bijan Zarmandili (corrispondente dall’Iran per Limes e l’intero gruppo editoriale L’Espresso) e il sito Diplomazia Iraniana preconizzavano con rassegnata lucidità come “l’ipotesi di un’apertura di dialogo tra Washington e Teheran spaventa innanzitutto gli arabi, coloro che negli ultimi trent’anni hanno compiuto ogni sforzo perché permanga un clima di forte ostilità tra l’Iran e gli stati Uniti, coloro che hanno provocato e appoggiato gli otto anni di guerra di Saddam Hussein contro l’Iran, coloro che hanno sabotato ogni forma di compromesso tra l’Iran e gli Stati Uniti per la stabilizzazione della situazione dell’Iraq post-Saddam e che faranno di tutto perché gli Stati Uniti non riconoscano il peso strategico iraniano come potenza regionale”.<-->