Come si pensa una rivoluzione?
E’ in edicola, in verità da qualche settimana, la pubblicazione degli atti del convegno che abbiamo organizzato lo scorso autunno al Csoa Intifada. Nel centenario della Rivoluzione tentare la strada del ricordo originale non era certo cosa semplice. Crediamo, nonostante ciò, che i contributi ospitati in questo breve volume colgano l’essenza della Rivoluzione russa, che è un fenomeno storico ben preciso e inaggirabile anche guardando al futuro dei movimenti di classe, e non solo al loro passato. Ancora oggi, è da lì che siamo costretti a ripartire. Proprio per questo, pubblichiamo per interno il contributo di Paolo Cassetta sul bolscevico come “nuovo tipo di rivoluzionario”. Dedicato soprattutto a tutto coloro che considerano, sulla scorta dell’imbalsamazione del leninismo operata dal Pci, Lenin e il bolscevismo come qualcosa inerente all’ortodossia del socialismo. Al contrario, la Rivoluzione è il frutto della capacità sinergica del bolscevismo di far vivere il marxismo dentro le particolari condizioni sociali, culturali e rivoluzionarie russe, in modo tutto fuorché ortodosso. Buona lettura.
L’irruzione della Rivoluzione russa nella storia. Il bolscevico come nuovo tipo di rivoluzionario
Paolo Cassetta
Non bisogna fermare il bisturi
N.G. Černyševskij, Che fare?
Il tema che devo svolgere è quello del militante bolscevico, inteso come nuovo tipo di rivoluzionario.
Si tratta di un argomento complicato, perché il bolscevico produce senz’altro la rivoluzione, ma ne è in pari tempo e in larga misura il prodotto. Inoltre, non possiamo parlare del bolscevico al singolare, in quanto egli si propone alla storia e a se stesso come figura plurale per eccellenza: come un soggetto che riesce a imporre e consolidare l’Ottobre solo per mezzo del partito al quale appartiene.
Nel 1917 questo partito si chiamava ancora “socialdemocratico”. Ma nella II Internazionale i bolscevichi erano considerati con preoccupazione e diffidenza. Appartenevano alla sinistra del movimento operaio, e, per esempio, avevano contribuito a scrivere la famosa risoluzione contro la guerra imperialista votata nel congresso di Stoccarda del 1907. Però avevano modi e abitudini che, spesso, scandalizzavano anche i più fieri avversari del revisionismo. Si preferiva trattare con i menscevichi, altrettanto ortodossi rispetto a Bernstein, e tuttavia più affini ai metodi organizzativi e alle forme di pensiero prevalenti nel marxismo dell’epoca. I bolscevichi erano russi. Troppo russi, litigiosi e testardi, per gli standard di un ambiente in cui il progresso della causa proletaria era percepito come inesorabile e sostanzialmente pacifico. I bolscevichi erano un caso a parte. Un esempio di sopravvivenze cospirative giustificabili solo in base alla eccezionalità dell’oppressione zarista. Non si capiva bene come prenderli. E proprio per questo riuscirono a fare la rivoluzione.
Che cos’è un militante rivoluzionario? Che cos’è un partito rivoluzionario? Dobbiamo chiedercelo perché, nella II Internazionale, era più facile dire e capire che cos’erano un militante e un partito marxisti. Parliamo di un movimento assai orgoglioso di se stesso, che negli ultimi due decenni del XIX secolo era riuscito ad affermarsi come il rappresentante politico indiscusso della classe operaia nei principali paesi europei. I socialisti della II Internazionale risultavano organizzati in solidi partiti nazionali insediati nei parlamenti e radicati nella società attraverso potenti sindacati ed efficienti centrali cooperative. Nei loro programmi si richiamavano esplicitamente al marxismo e agli orizzonti strategici del proletariato. Si trattava di una forza potente. Un complesso di energie sociali e politiche che si proponeva esplicitamente il superamento della società borghese attraverso l’abolizione della proprietà privata.
Ma come veniva pensata la trasformazione rivoluzionaria della società? Come un processo sostanzialmente pacifico. Come una lunga sequenza di vittorie elettorali che, al momento dello scontato insediamento al governo, avrebbe prodotto una debole reazione violenta da parte delle classi possidenti. Questa reazione sarebbe stata facilmente schiacciata dal popolo in armi, ormai conquistato alla politica socialista e legittimato dal riscontro democratico ottenuto. Marx ed Engels espressero sempre forti riserve circa questa concezione semplicistica della storia e degli effetti del suffragio universale. Molti anni dopo, essa attirò la famosa critica di Benjamin al «tempo omogeneo e vuoto», entro il quale, egli scrisse, la classe aveva disappreso «sia l’odio che la volontà di sacrifico»[1].
Abbiamo detto che Marx ed Engels sollevarono ripetute critiche alla concezione che, per usare ancora le parole di Benjamin, corruppe il proletariato tedesco con «l’opinione di nuotare con la corrente»[2]. Molti di questi giudizi li troviamo sparsi nel loro epistolario. Ma, soprattutto, essi spiccano nella Critica al programma di Gotha scritta da Marx nel 1875, e nella Critica del progetto di programma del partito socialdemocratico redatta da Engels nel 1891. La Neue Zeit, la rivista teorica della socialdemocrazia tedesca, arrivò al punto di censurare alcune parti della Introduzione che nel 1895 Engels aveva steso per la prima ristampa delle Lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850. In questo testo, Engels riconosceva i progressi ottenuti dai socialisti attraverso la tattica elettorale. Consigliava di non cadere in provocazioni e di procedere nella legalità fino al momento decisivo. Ma non avvalorava affatto le illusioni pacifiste che, un po’ dappertutto, si impadronivano dei dirigenti del movimento operaio europeo. Nella già citata critica al progetto di programma della SPD, aveva anzi strigliato i suoi estensori proprio sul punto del presunto passaggio indolore al socialismo nella Germania guglielmina:
Una simile politica, alla lunga, non può non indurre in errore il partito. Si pongono in prima linea questioni politiche astratte, generali, e si celano così le questioni concrete e più urgenti, quelle questioni che al primo grande avvenimento, alla prima crisi politica si pongono da sé all’ordine del giorno. Che altro può derivarne, se non il fatto che al momento decisivo il partito si trovi improvvisamente perplesso, che sui punti decisivi regnino la confusione e la discordia perché questi punti non sono mai stati discussi?[3].
Come vediamo, Engels ci andava giù secco. Nella lotta politica esiste sempre un «momento decisivo». E questo imbuto, questa strettoia, si presenta con caratteri di urgenza e concretezza tali da gettare nella confusione e nella discordia una soggettività impreparata, nutrita prevalentemente di discussioni astratte e generali. Erano le riflessioni di un vecchio rivoluzionario, in cui si scaricavano cinquanta anni di esperienza politica. Il socialismo scientifico si era affermato, non senza fatica e soprattutto come dottrina ufficiale, nei principali partiti operai dei paesi capitalistici. Ma la rivoluzione era rimasta una specie di affare interno alla storia francese, dove, da Robespierre alla Comune, il gioco sanguinoso delle insurrezioni e dei colpi di mano aveva illustrato il contenuto sociale della lotta fra le classi, sottolineando tanto il coraggio e l’ambizione ideale del proletariato, quanto la sua insufficienza teorica, politica e organizzativa.
Ecco, Marx ed Engels avevano attraversato mezzo secolo di storia del movimento operaio inseguendo una rivoluzione di cui avevano indicato e studiato la necessità, costretti a registrarne l’affiorare singhiozzante e ogni volta immaturo. Tutta la loro attività politica era stata dedicata alla causa dell’indipendenza politica del proletariato, senza alcuna feticizzazione delle forme organizzative. Avevano cominciato dai rapporti con gli artigiani comunisti ancora impregnati di mentalità cospirativa. Si erano incontrati con le lotte aperte del Quarantotto francese e tedesco, constatando la difficoltà del proletariato a esercitare una propria egemonia sulle altri classi, e il suo complicato rapporto con gli effetti del suffragio universale. Nell’esilio londinese, avevano sperato dapprima in un rilancio dell’iniziativa rivoluzionaria, per dedicarsi poi allo studio e alla riorganizzazione paziente del movimento operaio su nuove basi. Ne era scaturita l’esperienza della I Internazionale, dove, fra l’altro, avevano dovuto fare i conti con un tipo rivoluzionario, quello anarchico, contro il quale avevano combattuto alleandosi spesso con il vecchio centralismo dei blanquisti francesi e con il tradizionale pragmatismo dei cartisti inglesi. Alla fine, l’esperienza sfortunata ma decisiva della Comune di Parigi aveva inghiottito tutto, chiudendo un ciclo, e aprendo quello della costruzione dei partiti nazionali su base operaia. In questa nuova situazione, il loro materialismo storico era divenuto la ideologia prevalente di un movimento operaio in crescita apparentemente inarrestabile entro condizioni di lotta relativamente pacifiche. Nel frattempo, era giunto al capolinea il tipo rivoluzionario blanquista, energico, coerente, pronto a osare ogni cosa nei giorni che valgono anni. E risultava in via di sgretolamento anche il tipo rivoluzionario anarchico, spontaneista, romantico, incapace di calcolo e soggetto alle fluttuazioni dispettose della collera popolare.
Qui bisogna essere chiari. In Marx ed Engels non c’è una concezione definita del partito proletario. E non c’è, e non può esserci, proprio perché la storia del proletariato era, anche per loro, un work in progress al cui servizio avevano messo le risorse intellettuali e pratiche di cui disponevano. In questo senso, è davvero importante la coerenza che, in tanti anni di attività, essi posero nella difesa del rapporto fra teoria faticosamente conquistata e azione concreta del movimento operaio. Ed è importante la disponibilità che dimostrarono sempre nell’apprendere dalla realtà della lotta di classe, fosse quella del Quarantotto e della Comune, o quella della situazione irlandese e della ancora più complicata condizione della Russia di fine secolo.
Non abbiamo la possibilità di addentrarci nell’affascinante tema degli studi marxiani sulla comune rurale russa. Oggigiorno, i testi che ne documentano l’importanza vengono quasi sempre citati a sproposito, sia per contrapporre l’immancabile Marx sofisticato al solito marxismo dogmatico, sia per ridurre il materialismo storico a una poltiglia sociologica accattivante, buona per giustificare ogni genere di moderatismo o di indigenismo eco-pacifista[4]. Marx, invece, studiava la Russia soprattutto perché seguiva con partecipazione la dura ma emozionante battaglia in corso nella grande retrovia della reazione europea. Gli abbozzi stesi per la sua famosa lettera a Vera Zasulič forniscono in questo senso prove inequivocabili. Uno di essi contiene un passo tranciante nel quale l’analisi teorica precipita nella concretezza storica, trasformandosi in esortazione politica contraria a qualsiasi rassegnazione:
Ciò che minaccia la comune russa – scriveva Marx –, non è dunque una fatalità storica, né una teoria: è l’oppressione da parte dello Stato e lo sfruttamento da parte di intrusi capitalistici, rafforzatisi a sue spese. Qui non si tratta più di un problema teorico da risolvere; si tratta di un nemico da abbattere. Per salvare la comune russa, occorre una Rivoluzione russa[5].
La verità era semplice. Una verità a tutt’oggi ancora poco conosciuta. Marx ammirava i lanciatori di bombe della Narodnaja volja. Nel marzo del 1881, essi avevano posto fine alla vita dello zar Alessandro II con una azione di risonanza eccezionale. Scrivendo a sua figlia, Marx li aveva definiti «estremamente abili e semplicemente, positivamente eroici, senza frasi melodrammatiche»[6]. D’altra parte, nutriva alquanta diffidenza verso il gruppo che si era raccolto a Ginevra intorno a Plechanov, sottraendosi allo scontro diretto con l’autocrazia[7]. Chi vuole, può trovare i riferimenti esatti nelle sue lettere del 1880 e del 1881. E ne è una ulteriore riprova anche la prefazione da lui redatta per l’edizione russa del 1882 del Manifesto del partito comunista, nella quale ironizzava sul nuovo zar subentrato ad Alessandro II, descrivendolo come un «prigioniero di guerra della rivoluzione»[8].
Ma i populisti della Narodnaja volja furono sconfitti. Il capitalismo prese a svilupparsi più rapidamente in Russia, e il marxismo conobbe una grande crescita fra le nuove generazioni, che desideravano sentirsi dalla parte giusta della storia e, forse, avevano anche bisogno di una tregua dopo le rese dei conti culminate nei tanti ergastoli e nelle tante impiccagioni. In questo periodo Plechanov fu molto importante. Promosse la diffusione del materialismo storico, richiamando l’attenzione sul nuovo ruolo del proletariato nella Russia del gran mare contadino. Guadagnò una innegabile statura europea, divenendo insieme a Kautski il campione della ortodossia marxista nel dibattito generato dalle tesi revisioniste di Bernstein.
Come sappiamo, il Partito Operaio Socialdemocratico Russo venne fondato nel 1898. Quasi immediatamente il suo Comitato Centrale fu debellato dalla polizia politica. L’autorità di Plechanov era praticamente indiscussa. Ma ben presto iniziarono serie controversie, destinate a culminare in una grave scissione che si consumò al II congresso del Partito, tenuto tra Bruxelles e Londra nell’agosto del 1903.
Ci siamo arrivati. Parliamo della scissione fra bolscevichi e menscevichi. Quintali di libri ci abituano a percepirla come un evento scontato. Ma, in realtà, nella sua primissima fase, quella precedente la rivoluzione del 1905, il bolscevismo si presentò soprattutto come una scommessa originale e, in un certo senso, scandalosa. Si trattava di operare una forzatura. Si trattava di prendere spunto dalla lotta contro il cosiddetto economismo per determinare una sterzata complessiva nell’evoluzione del marxismo russo.
Il dirigente di questa battaglia è senza dubbio Lenin. Appartiene alla generazione successiva a quella di Plechanov, Aksel’rod e Vera Zasulič. Ma si è già messo in luce per le sue opere polemiche nei confronti degli epigoni del populismo, per i suoi studi sullo sviluppo del capitalismo russo, e per una spiccata propensione all’attività organizzativa che lo ha condotto in prigione nel 1895, e poi per qualche anno in Siberia. Dalle colonne dell’Iskra, Lenin reagisce rabbiosamente alla tendenza economicista che vorrebbe ridurre i compiti dei socialdemocratici alla semplice organizzazione degli operai, confinando in secondo piano la lotta politica aperta contro lo zarismo. Tutta la redazione del giornale è su questa linea, perché gli economisti si presentano grosso modo come la variante russa del revisionismo bernesteiniano. Ma Lenin cala un affondo, pubblicando un proprio opuscolo in vista del II congresso del partito. A marzo del 1902 esce a Stoccarda il suo Che fare?. Il titolo è ripreso da un famoso romanzo di Černiševskij del 1863. Il contenuto presenta tesi singolari, destinate a dividere e a modellare il profilo del nuovo tipo di rivoluzionario che, quindici anni dopo, saprà realizzare l’Ottobre.
Non possiamo esporre in dettaglio la materia di questo libro famoso. Come è noto, il Che fare? sostiene che la coscienza rivoluzionaria giunge alla classe operaia solo dall’esterno delle lotte economiche. Inoltre, il Che fare? parla di una differenza sostanziale fra la lotta politica «tradeunionista» e la lotta politica «socialdemocratica». Infine, il Che fare? sottolinea l’esigenza di un partito il cui nerbo sia costituito da rivoluzionari di professione. Tutte e tre le tesi possono essere assoggettate, e lo sono state di fatto, a un processo di giustificazione o di smentita specificamente teorico. Ma a noi interessa capire che il carattere dirompente del libro era dato non solo dal rivendicato centralismo presente in molte sue pagine, quanto dall’idea di un marxismo attivo, capace di ereditare la lezione migliore della Narodnaja volja, candidando la socialdemocrazia russa a vera protagonista dell’abbattimento dello zarismo.
Infatti, quello che molto spesso non si capisce del Che fare? è il suo reale contesto. Dietro lo scritto di Lenin non c’era solo la diffusione tra le fila socialdemocratiche del moderatismo economista. C’era anche la ripresa degli scioperi operai e delle proteste studentesche. C’era la nuova ondata di repressione che aveva prodotto una reviviscenza degli attentati. C’era il ritorno sulla scena di una nuova generazione di narodniki che nel 1902 aveva fondato il Partito Socialista Rivoluzionario. Non parliamo di bazzecole. I neopopulisti uccidono il ministro dell’istruzione, uccidono il ministro dell’interno, uccidono il governatore di Vilnius, che pochi giorni prima aveva fustigato in piazza i dimostranti del primo maggio.
Negli anni seguenti i socialisti-rivoluzionari compirono molti altri attentati, anche più clamorosi. Ma intanto il Lenin che scrive il Che fare? frigge di rabbia. In questa corsa accelerata, la socialdemocrazia rischia di rimanere indietro. Non si tratta di rincorrere i duelli isolati degli epigoni populisti. Si tratta di mettere la classe operaia al centro della lotta politica, attraverso una rete di rivoluzionari di professione che produca, come dice Lenin, i nostri «Željabov socialdemocratici»[9]. Andrej Željabov era stato uno dei maggiori dirigenti della Narodnaja volja, finito sul capestro per l’uccisione di Alessandro II. E forse è proprio questo il momento per ricordare che anche il fratello maggiore di Lenin, Aleksander, era stato impiccato nel 1887 perché coinvolto in un tentativo di riorganizzazione della Narodnaja volja da cui doveva scaturire un attentato al nuovo zar Alessandro III.
Il punto, allora, è proprio questo. Per la controversa tesi della «coscienza esterna», Lenin poteva anche appellarsi a Kautski, come è documentato proprio dal Che fare?[10]. Per il centralismo e la natura effettivamente militante degli appartenenti alle organizzazioni del partito, poteva anche allearsi con Plechanov, come accadde durante le votazioni del II congresso[11]. Ma la miscela esplosiva che queste due caratteristiche generavano, unite all’idea di un nuovo protagonismo politico del partito nella lotta all’autocrazia, creava un problema irrisolvibile nel quadro tradizionale del marxismo russo.
Non per caso dopo la fine del congresso Plechanov ruppe con Lenin. Il padre del marxismo russo seppellì la teoria della «coscienza esterna» sotto una valanga di citazioni dotte. Ma soprattutto accusò malignamente Lenin di «bauerismo», e di una riedizione tardiva della teoria degli eroi e della folla[12]. Lenin restò solo, senza alcun bel nome, con i cosiddetti militanti pratici che ormai erano anche soprannominati i «duri». Lenin li chiamava «agenti», in omaggio alle vecchie tradizioni cospirative. E fornì loro una interpretazione organica dei dissensi esplosi durante il congresso nell’opuscolo intitolato Un passo avanti e due indietro. L’opportunismo nelle questioni organizzative, martellava Lenin, delineava una frattura che, per analogia, rimandava alla vecchia divisione fra giacobini e girondini[13]. Rosa Luxemburg, riferendosi a queste tesi, parlò di «centralismo spietato», di un elogio della disciplina che derivava più dal modello della caserma che da quello della fabbrica, di una trasposizione meccanica di schemi blanquisti nel contesto completamente diverso della socialdemocrazia[14].
Era vero? Era vero che Lenin, come del resto lui stesso ammise durante lo svolgimento delle sedute del congresso[15], stava torcendo il bastone in una direzione precisa. Una lunga nota contenuta in Un passo avanti e due indietro ci consegna una definizione dei legami organizzativi fra militanti che lascia impressionati. Lo statuto, dice Lenin, «è sfiducia organizzata del tutto verso la parte, del reparto d’avanguardia verso il reparto arretrato»[16]. Sicché a Rosa Luxemburg rispose più o meno che stava parlando a vanvera, senza cognizione della situazione reale. La dialettica, invocata dalla rivoluzionaria polacca contro lo schematismo bolscevico, era stata chiamata in causa con imprudenza. «È appunto il suo articolo – scrive Lenin acidissimo – ad essere in contraddizione con l’abiccì della dialettica. Quest’abbiccì afferma che non esiste una verità astratta, che la verità è sempre concreta»[17].
L’espressione è passata in proverbio. Proveniva da Plechanov, che l’aveva trovata in Černiševskij, il quale a sua volta riteneva di poterla attribuire a Hegel. Lenin l’aveva già usata due volte in Un passo avanti e due indietro. E la usò spesso in seguito, travasandola infine, nel 1920, nella richiesta dell’«analisi concreta della situazione concreta», intesa come «l’essenza stessa, l’anima viva del marxismo»[18], e quale precondizione di ogni efficiente tattica rivoluzionaria.
Dunque, una efficiente tattica rivoluzionaria, una nuova impostazione nella mentalità e nelle abitudini organizzative, che assicuri ai marxisti un ruolo attivo nello sgretolamento dello zarismo, senza confinarli a portatori d’acqua del liberalismo o a spettatori dei colpi di mano dei nuovi narodniki: questo è il senso del primo bolscevismo. E la scelta si dimostra giusta, perché interpreta una esigenza assai sentita dai militanti che, in Russia, sono attivi nelle cellule clandestine del partito. I cosiddetti pratici si rammaricano della disunione insorta tra gli emigrati. Ma vogliono una linea chiara che conferisca incisività e legittimità alla loro azione nel sommovimento più generale della società. Il bolscevismo fornisce loro risposte precise. Ed è pertanto una creazione di Lenin solo nella misura in cui corrisponde alle effettive necessità di una militanza rivoluzionaria storicamente determinata: quella militanza che, nelle particolari condizioni russe, doveva tenere insieme organizzazione operaia e attacchi armati contro l’autocrazia, lotta sindacale e lotta politica per una democrazia nella quale il proletariato riuscisse ad assumere il più in fretta possibile una funzione dirigente.
In questo modo arriviamo a toccare un altro dei caratteri salienti del bolscevismo: quello del suo rapporto con la storia e con le occasioni che in essa si propongono. Abbiamo visto che, all’inizio del secolo, la lotta sociale e politica in Russia riprende quota, proponendo ancora una volta uno scenario di repressione e di più o meno aperta insoddisfazione di tutte le classi. L’edificio dello zarismo è marcio. Ma il suo crollo non avviene spontaneamente, e può in ogni caso dar luogo a una situazione confusa, nella quale la stabilizzazione borghese finisca per essere l’opzione prevalente. In questo quadro, un senso di urgenza pervade fin dall’inizio l’azione dei bolscevichi. Sappiamo che Željabov aveva detto: «bisogna dare una spinta alla storia»[19]. E anche Tkačëv, il giacobino russo che Lenin aveva citato con ammirazione nel Che fare?[20], si era abbandonato spesso alla critica del progresso «passo per passo», erompendo in invettive furibonde:
Affermiamo che in Russia la rivoluzione è realmente indispensabile – scrive Tkačëv –, e indispensabile proprio adesso. Non ammettiamo alcun rinvio, alcun ritardo. Adesso, o forse, ben presto, mai! Ora le circostanze giocano a nostro favore, tra dieci o vent’anni saranno contro di noi. Capite la vera ragione della nostra fretta, della nostra impazienza?[21].
Questa febbre passa al bolscevismo. La Russia è un campo di possibilità. Come scrive Lenin in una lettera, «non esistono leggi storiche le quali stabiliscano che una crisi stagnante non possa trasformarsi in un buon tafferuglio. Non vi sono leggi di questo genere. Tutto dipende dalle circostanze»[22].
Se tutto dipende dalle circostanze, allora la soggettività è una di esse. Nel 1913 Lenin scrive l’articolo Karl Marx per il Dizionario Granat. In esso si sofferma sulla dialettica e sul suo rapporto con l’idea di sviluppo e di evoluzione. È evidente l’influsso della lettura diretta di Hegel, a cui, come ricorda la Krupskaia[23], Lenin si dedicò in quel periodo proprio per redigere l’articolo. Grazie al rapporto con Hegel, scrive Lenin, l’idea di sviluppo si presenta in Marx ed Engels in una forma «molto più completa e ricca di contenuto dell’idea corrente di evoluzione». L’«idea corrente di evoluzione» non era solo la dottrina positivista cara ai professori universitari del tempo. Era anche la base della concezione della lotta di classe propria del marxismo della II Internazionale. Ebbene, a questa visione Lenin contrappone una interpretazione del concetto di sviluppo marxiano che, insieme, risulta rigorosa e provocatoria. Si tratta di uno sviluppo, egli scrive, «non rettilineo ma a spirale; uno sviluppo a salti, catastrofico, rivoluzionario»[24]. Ciò che interessa a Lenin, e lo scrive esplicitamente, è «l’interruzione della gradualità»[25]. Il bolscevismo è pratica politica rivolta alla interruzione della gradualità. Lo si vedrà immediatamente dopo i primi dibattiti del 1903 e del 1904, nel banco di prova della rivoluzione del 1905. Il bolscevismo saprà aprirsi all’esperienza dei soviet, senza perdere la propria indipendenza. Saprà partecipare alle insurrezioni, tirando il freno di emergenza di fronte alle derive avventuriste. Saprà approfittare dei meccanismi elettorali, miscelando intransigenza e duttilità.
Tuttavia la rivoluzione del 1905 è ben presto sconfitta, e il bolscevismo con lei. Ma l’apparato dei rivoluzionari di professione, che aveva saputo aprirsi a nuove forme organizzative durante i mesi dell’esplosione aperta della lotta di massa, riesce a salvare il partito. È in questo periodo, in questi anni duri, che i bolscevichi restano praticamente l’unica forza organizzata della sinistra russa. I menscevichi franano sotto il peso della reazione, trasformandosi sostanzialmente in un gruppo di emigrati. I socialisti rivoluzionari portano all’acme la sfida degli attentati, implodendo in una catena di arresti, generati dalla infiltrazione della polizia ai più alti livelli delle loro organizzazioni di combattimento. Anche tra i bolscevichi si determinano sbandamenti, e si verificano infiltrazioni. Ma la struttura degli «agenti» immaginata nel Che fare? regge. Questo partito, anche un po’ stanco, arriva all’appuntamento con lo scoppio della guerra mondiale capace di reazione sia teorica, sia pratica. Diviene un protagonista della ricostruzione del marxismo rivoluzionario europeo nelle conferenze di Zimmerwald e di Kiental. Inizia a guardare alla guerra come a una nuova, suprema occasione, a patto di rinunciare ad astratte parole d’ordine pacifiste, come quella degli Stati Uniti d’Europa, e di saper scorgere nell’enorme massacro l’opportunità di rovesciare la guerra imperialista in guerra civile tra proletariato e borghesia.
Anche qui, è bene guardarsi dalle semplificazioni. Non tutto quello che i bolscevichi fecero durante il 1905 e il 1907 fu esente da errori. E la loro acuta percezione del ruolo della soggettività nella storia produsse una esigenza di chiarificazione che sfociò nell’aspra polemica tra Lenin e l’ultra-bolscevismo di Bogdanov e Lunačarskij. Siamo abituati a considerare questo episodio come un fatto minore della storia del bolscevismo, documentato soprattutto dal primo scritto espressamente filosofico di Lenin, intitolato Materialismo ed empiriocriticismo. Invece si tratta di uno snodo fondamentale. Erano in gioco importanti questioni politiche, come la partecipazione alla Terza Duma russa. E l’ultra-bolscevismo di Bogdanov poteva veramente pretendere la direzione del partito, indirizzandolo verso un soggettivismo consapevole di se stesso, iper-operaista, e basato su una cultura gnoseologica di prim’ordine, filosoficamente nutrita della cosiddetta crisi dei fondamenti di fine secolo.
Qui Lenin torce il bastone dall’altra parte. Dalla parte dell’oggettività. La corrente di Bogdanov rappresenta una buona fetta, e non la meno decisa, dell’apparato bolscevico. Al suo fianco si trova anche uno scrittore ormai famoso come Gor’kij, che nel 1906 ha appena pubblicato La madre. Lenin tiene duro. Non ha polemizzato con Plechanov per approdare a un agnosticismo sofisticato, le cui ricadute in politica possono solo generare un sinistrismo inefficace. Già nel 1895, proprio rifiutando di ridurre il materialismo a un oggettivismo imbelle, aveva comunque sostenuto che «il determinismo non solo non presuppone il fatalismo, ma, al contrario, offre precisamente la base per l’azione razionale»[26]. Questa «azione razionale», dunque, resta elemento centrale del bolscevismo. L’ossessione del tempo debito, il senso dell’urgenza e dell’occasione storica vogliono e debbono rimanere ancorati alla analisi concreta e oggettiva della realtà.
La polemica con i cosiddetti empiriocriticisti ci offre l’occasione per mettere in evidenza un’ultima caratteristica del bolscevismo: quella che potremmo definire la sua visione dell’etica rivoluzionaria e dello stesso significato umano della militanza collettiva. I machisti russi, sottolineando il ruolo della soggettività, e di quella soggettività essenziale costituita proprio dal lavoro operaio, giungevano a una sorta di mistica proletaria che apriva le porte a una singolare religiosità atea e antropocentrica. Lenin non poteva sopportare questi esperimenti. Dietro il Che fare?, come abbiamo detto, c’era quello di Černiševskij. C’erano gli «uomini nuovi» russi degli anni Sessanta del XIX secolo, che, come scrive Černiševskij, operavano con «fredda praticità», con «attività sistematica e avveduta», con «attiva ragionevolezza»[27]. Il personaggio più esemplare del romanzo, Rachmetov, è ascetico, diretto, privo di qualunque leziosità intellettuale nella sua ansia di conoscenza. Può essere brusco e sgradevole, ma applica le sue regole innanzitutto