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E’ in libreria ormai da qualche settimana “Cina, la società armoniosa” un saggio edito da Jaca Book di cui caldeggiamo vivamente la lettura. Il testo, che si compone di sette articoli frutto del lavoro di ricerca di Pun Ngai e di altri sociologi cinesi è introdotto da un elaborato di Ferruccio Gambino e Devi Sacchetto e vanta a nostro avviso più di un merito. Innanzi tutto il metodo. Ogni pagina del libro è la dimostrazione pratica di quale potenziale possegga ancora oggi il lavoro di inchiesta come strumento di indagine della realtà. L’inchiesta intesa qui (ovviamente) non nella sua accezione meramente accademica, ma come un lavoro militante in itere, finalizzato alla costruzione di un sapere collettivo, condiviso e, soprattutto, di classe. Parliamo di anni di interviste e osservazione partecipata fuori dalle fabbriche del “miracolo” cinese, dagli stabilimenti della Foxconn, dai cantieri edili dove regna il subappalto e dai dormitori in cui sono ammassati migliaia di operai. Uno stile di lavoro ormai abbandonato da troppa sinistra, cosa che ha spesso contribuito a far prendere, sempre alla suddetta sinistra, abbagli clamorosi. E qui veniamo al secondo punto di estremo interesse del libro, ovvero la confutazione empirica oltre che teorica dell’estinzione del lavoro salariato e della scomparsa della classe. Pun Ngai descrive in maniera estremamente vivida il processo di proletarizzazione “incompiuta” di oltre 200 milioni di operai-contadini (nongmingong) che dalle campagne si sono riversati nelle città per sperimentare sulla propria pelle il dagong, ovvero il lavoro di fabbrica sotto padrone. Gli operai-contadini non rappresentano una novità assoluta nella storia sociale della Cina, erano presenti prima della guerra ed anche durante l’epoca maoista, è però a partire dal periodo delle “riforme” introdotte da Deng Xiaoping che assumono un ruolo centrale nella progressiva trasformazione della Cina in quella che è stata definita non senza ragione “la fabbrica del mondo”. Alcuni dati possono far meglio comprendere ciò di cui stiamo parlando: “dal 2002 la Cina è diventata la prima produttrice mondiale di ottanta prodotti, tra cui abiti, tv, lavatrici, lettori dvd, macchine fotografiche , frigoriferi, condizionatori, motocicli, monitor per PC, trattori e biciclette. Nel 2005 poi la Cina è diventata la terza nazione commerciale al mondo, superata solo da Germania e Stati Uniti. Parallelamente a questa sensazionale crescita economica, anche la struttura manifatturiera si è trasformata indirizzandosi verso merci di alta qualità: nel 2006 i prodotti tecnologici hanno rappresentato il 56% delle esportazioni totali. L’esportazione cinese di tecnologia avanzata è seconda solo agli USA, e nel 2007 la Cina ha superato il Giappone divenendo il secondo investitore mondiale in sviluppo e ricerca“. Un processo di proletarizzazione, quello degli operai-contadini, che per vastità è senza precedenti nella storia contemporanea e che è stato indubbiamente “stimolato” e sostenuto dalla rivoluzione informatica e dei trasporti e dalla ipermobilità del capitale produttivo che ne è conseguita (globalizzazione), nonchè assecondato dalle progressive “riforme” del sistema cinese per attrarre i capitali alla spasmodica ricerca di bassi salari e forza lavoro scarsamente sindacalizzata e politicizzata. Pun Ngai definisce questo processo “incompiuto” descrivendo come ai lavoratori migranti venga negata de jure, se non de facto, la possibilità di risiedere nei centri urbani attraverso il sistema di registrazione abitativa, l‘hukou. Questo sistema stabilisce che, una volta che un individuo sia nato in un’area rurale, non possa godere dei diritti di cittadinanza forniti ai residenti urbani dal loro status di abitanti della città. In sintesi si determina per questi lavoratori una separazione spaziale inconciliabile tra i luoghi della produzione (aree urbane) e quelli della riproduzione (aree rurali). Il corollario di questo apparente paradosso è stata la nascita all’interno dei recinti delle fabbriche di immensi dormitori destinati ad alloggiare la manodopera. Nel “campus” di Shenzhen Longhua della Foxconn sono “ospitati” 430.000 operai che di fatto vivono in fabbrica. Questo sistema ha garantito la possibilità di utilizzare la forza lavoro migrante anche per brevi periodi e ne ha facilitato al mobilità tra i diversi siti produttivi abbattendo di fatto la necessità di corrispondere un salario indiretto (casa, trasporti, istruzione, sanità). Il regime della fabbrica-dormitorio si è inoltre dimostrato estrememente congeniale ai paradigmi dell’accumulazione flessibile fornendo al capitale lavoratori “alla spina“, just in time, annullando ogni separazione tra tempo di lavoro e tempo di riposo. Ci sono i picchi di produzione? Lavori più di 12 ore al giorno. La produzione rallenta? Te ne resti nel tuo dormitorio. La produzione cala? Arrivederci e tanti saluti! Nella relazione introduttiva che presentammo al nostro seminario (qui) sulla nuova composizione di classe e che poi è diventata l’introduzione alla pubblicazione degli atti (qui) scrivevamo che “ la nostra impressione è dunque che nell’era del “capitalismo globale” inaugurata dopo l’89 e caratterizzata dall’ipermobilità del capitale produttivo una delle figure dominanti della classe tenderà ad essere sempre di più proprio quella del lavoratore dequalificato (ma generalmente istruito), difficilmente sindacalizzabile (almeno con gli strumenti “classici”) e totalmente disponibile allo sfruttamento“. Questa deduzione, quasi esclusivamente speculativa, sembra però trovare conferma nelle inchieste su questo nuovo proletariato, e soprattutto da quelle condotte alla Foxconn dove “ogni operaio di linea si specializza ed esegue movimenti monotoni e ripetitivi ad alta velocità” e “in generale, agli operatori alla produzione non sono richieste competenze particolari, nè è richiesto di pensare, ma da loro si esige solo la rapida applicazione delle istruzioni ricevute dalla direzione ed una ripetizione meccanica di ogni movimento semplice“. Nella descrizione di questa classe ancora ben al di la da divenire “per sè”, Pun Ngai si concentra sulla cosiddetta seconda generazione di lavoratori migranti, quelli nati dopo le riforme del ’92 in cui venne abbandonata la politica del doppio binario per l’allocazione delle risorse (pianificazione e mercato). Soprattutto le interviste ne fanno emergere la soggettività, le aspirazioni, le frustrazioni sottolinenado così una differenza fondamentale con la generazione precedente di nongmingong. “Se la transitorietà era una caratteristica dominante della prima generazione di lavoratori migranti, è invece la rottura a caratterizzare la seconda generazione. La transitorietà implica un’esistenza instabile, e incoraggia così speranze e sogni di trasformazione, mentre la rottura crea una barriera: non vi è più speranza nè di trasformare se stessi in lavoratori urbani, nè di ritornare alla comunità rurale per riprendere la vita del contadino“. Ci sembra di poter dire che la ricercatrice attribuisca proprio a questa peculiarità il livello crescente di conflittualità e di resistenza operaia che quotidianamente si manifesta nelle fabbriche cinesi confermando così alcune delle conclusioni a cui era giunta la Silver in un altro bel libro “Le forze del lavoro”, ovvero l’inconciliabilita tra Capitale e Lavoro e l’impossibilità di impedire il sorgere del conflitto di classe (anche se in forma carsica e scarsamente politica) ovunque si allochi il capitale produttivo. Un dato che come marxisti dovremmo ritenere quasi scontato ma che comunque fa bene al cuore.
Cina, la società armoniosa/Pun Ngai/Jaka Book/20 euro