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Prendete un saggio di storia delle classi subalterne: dettagliato, puntuale, potente. Aggiungete poi un romanzo scritto come si deve: appassionante, ben costruito, mai banale. Fatto? Adesso metteteci pure una robusta dose del vostro/nostro immaginario ricolmo di lotte, scioperi, rivoluzioni e shakerate, shakerate bene e poi lasciate riposare. Ne verrà fuori “Un sogno chiamato rivoluzione” uno di quei libri che non ti aspetti, che ti fa restare avvinghiato fino all’ultima pagina e che alla fine maledici pure, perché è finito troppo presto. Forse qualcuno potrà considerare esagerata tanta enfasi nel recensire un libro, eppure siamo convinti che Filippo Manganaro ci abbia regalato uno dei più bei romanzi storici degli ultimi anni. Un libro che dovrebbe entrare di diritto nella biblioteca di ogni militante. Nelle oltre 260 pagine pubblicate per i tipi della Nova Delphi la storia trentennale di una famiglia di proletari ebrei, quella che impropriamente saremmo portati a scrivere con la s minuscola, si intreccia indissolubilmente con la Storia… quella collettiva che vede protagoniste intere classi e popoli. Siamo nel 1903 e Shlomo Weizman, un tipografo russo, ebreo e militante del POSDR, è costretto ad emigrare negli Stati Uniti insieme alla nipote Chaya dopo l’ennesimo pogrom che ha terrorizzato Khishinev distruggendo, almeno temporaneamente, ogni sogno di unità fra proletari di confessioni diverse. “Dimenticate di essere ebrei” disse durante un discorso in Sinagoga. “Dimenticate di essere polacchi, tedeschi o russi. Ricordate che siete lavoratori con interessi comuni, opposti a quelli dei padroni. La classe padronale ha una sola bandiera: quella del profitto. Ha una sola nazione: quella dello sfruttamento. Un solo dio: il dollaro. Anche i lavoratori devono unirsi dietro un’unica bandiera, un’unica nazione, un unico dio: l’unità della classe operaia.” Ad accoglierli sul molo di New York troveranno però, così come quando erano partiti, un’esistenza divisa tra lavoro e stanchezza in cui riusciranno caparbiamente a lasciare spazio alle lotte e alla solidarietà. “Che strano paese è questo” considerò Shlomo. “Da noi ci sono i padroni e i banchieri che ragionano proprio come i padroni e i banchieri di qui… Ma un operaio è un operaio e un sindacalista è un sindacalista. Qui tutto è più confuso… Sembra che ci sia una società privilegiata sopra di noi che ha ricreato le stesse categorie, padroni, lavoratori, sindacalisti… e sotto una massa di schiavi che lavora per mantenere la società soprastante ma che non è visibile dall’esterno. Da noi si diceva sempre: guarda gli Stati Uniti, ci sono diritti riconosciuti, le relazioni tra Capitale e Lavoro sono così civili… Ma parlavano della società visibile, non sapevano cosa c’era sotto!” Le vicende degli Weizman si incrociano in breve tempo con quella di molti altri immigrati permettendo così all’autore di tratteggiare vividamente le condizioni di vita e di lavoro di quei milioni di proletari che furono alla base della crescita economica statunitense. Perennemente in bilico fra l’essere assorbiti o espulsi dal ciclo produttivo, fra l’essere sommersi o salvati. Sono gli anni in cui deflagrano forti ed insanabili le contraddizioni tra i sindacati di mestiere e le organizzazioni come la IWW che tentano di unire tutti i lavoratori sotto una sola bandiera, anni in cui diviene evidente la commistione tra i primi ed il potere. “Ma mettiamo che, un giorno, i lavoratori non siano d’accordo con questi industriali’avanzati’: il sindacato da che parte sta?” “Sei anarchico?” “No, sono socialista!” Questa volta Shlomo si sentì pienamente legittimato a qualificarsi politicamente. “Senti, lo dico per il tuo bene: affrettati a lasciar perdere queste idee europee e a diventare Americano” concluse freddamente l’altro. Ma, come dicevamo, la storia degli Weizman non si esaurisce in se stessa, ma va ad incastonarsi nel più generale tentativo di assalto al cielo da parte delle classi subalterne. Ecco dunque affiorare tra le pagine del romanzo la rivoluzione del 1905 e poi quella bolscevica del 1917, la rivoluzione irlandese e quella zapatista, le lotte e gli scioperi che scossero gli Stati Uniti, la “comune” di Lawrence, la guerra di Spagna. E poi le storie e le biografie dei militanti rivoluzionari, come Sacco e Vanzetti, come Ricardo ed Enrique Flores Magòn, come Emma Goldman, come i Molly Maguires. Manganaro lascia tra le pagine decine di tracce che starà poi al lettore seguire se mai vorrà inerpicarsi lungo altri sentieri. Insomma un libro bello e “utile” capace però anche di emozionare e di regalare la voglia di lottare.
Dobbiamo resistere, a volte scavando come talpe, altre volando fieri e potenti come aquile e, magari, dopo un volo saremo costreti a tornare a scavare. Ma stai certa che un giorno, librandoci in volo dall’ennesima galleria, scopriremo finalmente di essere liberi!
Un sogno chiamato rivoluzione/Filippo Manganaro/Nova Delpghi/16 euro