Consigli (o sconsigli) per gli acquisti
Simone Sarasso scrive bene. Dal punto di vista narrativo e stilistico “Settanta” è un libro riuscito. La trama è comunque avvincente, i personaggi reggono, i dialoghi pure e l’uso intelligente del dialetto non li fa mai scadere nella caricatura, ma anzi ne amplifica la realisticità. I periodi sono asciutti, brevissimi, spesso ridotti a scarni sintagmi che come le raffiche del mitra di “Brivido/Vallanzasca” colpiscono chi legge spingendolo ad andare avanti. Anche l’impaginazione asseconda il ritmo serrato della scrittura così che le 700 pagine del romanzo volano via senza nemmeno accorgersene. Fin qui la forma, almeno per come l’abbiamo vista noi. Poi, però, c’è la sostanza, c’è il contenuto. Insomma c’è quello che con un libro dici o fai dire ai personaggi e che inevitabilmente non può che riflettere il tuo punto di vista. Soprattutto su un terreno insidiosissimo come quello degli anni 70 da cui non se ne può uscire con uno 0 a 0 di comodo. E qui l’autore ci lascia alquanto perplessi. Sarasso sceglie di discostarsi dai molti scrittori che prima di lui hanno provato a cimentarsi sul tema e decide di raccontare l’Italia di quel decennio da un’altra prospettiva. Una scelta sicuramente originale e che inizialmente ci aveva anche convinto. Quello che tratteggia Sarasso è il belpaese, in bilico costante sul centro, visto dalle finestre di Palazzo Cenci a Piazza del Gesù, dai corridoi delle sedi dei Servizi Segreti, dalle aule dei tribunali, dagli studi di Cinecittà. I movimenti sociali, il conflitto di classe e le lotte di quel decennio nel libro restano solo un rumore di sottofondo che viene a malapena percepito dietro i doppi vetri delle stanze del potere dove, sempre secondo Sarasso, tutto si decise e si decide. Come dicevamo un punto di vista intrigante che però con lo scorrere delle pagine ci sembra che più che rappresentare un escamotage narrativo per indagare e raccontare quegli anni, finisca col rappresentare la sola chiave interpretativa con cui l’autore guarda all’intero periodo. E così facendo, nonostante le migliori intenzioni, l’autore finisce inevitabilmente per ricadere nel clichè conservatore che vuole quel decennio riassunto dalla orribile quanto fasulla formula degli “anni di piombo”. Come se quei due lustri iniziati con l’autunno caldo e terminati con la sconfitta operaia del 1980 non avessero rappresentato uno momenti più alti della storia italiana. Le piazze piene, la case vuote, le assemblee interminabili, le fabbriche occupate, le università in mano agli studenti, lo statuto dei lavoratori, il divorzio, l’aborto, il movimento femminista, i collettivi, i gruppi, le radio libere, la controcultura, la partecipazione e, perché no, i servizi d’ordine, i cortei autodifesi e l’assalto al cielo del potere. Tutto questo nel libro non c’è, oppure assume le sembianze delle false illusioni destinate inevitabilmente a fallire o, peggio ancora, ad essere strumentalizzate dal potere stesso in chiave auto conservativa. Come spiega lo stesso autore in un capitoletto in coda al libro per lui gli eroi di quegli anni sono i poliziotti onesti, i generali incorruttibili, i magistrati puliti. Insomma la cosiddetta parte sana dello Stato in lotta contro gli opposti estremismi e contro settori deviati dello Stato stesso. Come se esistessero uno Stato buono e uno cattivo, e non un unico apparato di potere che non si fece scrupolo di scatenare una guerra civile a bassa intensità pur di impedire il cambiamento. Il modo con cui viene narrato il sequestro Moro è esemplificativo di questo teorema tutt’altro che originale e che, non a caso, all’epoca venne fatto proprio da gran parte del PCI e di quella intellighenzia di sinistra incapace anche solo di comprendere quanto si muoveva alla sua sinistra. Significativamente quando Sarasso parla dei militanti delle Brigate Rosse li definisce sempre terroristi. La distanza incolmabile che esiste fra la lotta armata (al di la del giudizio politico che uno può darne) e l’uso indiscriminato del terrore praticato dallo Stato e dai fascisti viene annullata e le stesse BR vengono ridotte ad un drappello di folli assassini completamente avulsi dal tessuto sociale e, anzi, infiltrati dai servizi segreti ed eterodiretti da una parte della stessa DC per impedire il compromesso storico. Ci si contesterà che non spetta certo ad un opera narrativa o ad uno scrittore dipanare una matassa del genere, forse sarà anche così, ma noi crediamo che proprio perché si trattava di una fiction sarebbe stato possibile spingersi oltre le colonne d’ercole del politically correct e del senso comune. C’erano riusciti, tanto per citare i primi che ci vengono in mente Morganti con “La compagna P38”, Tassinari ne “L’amore degli insorti, De Michele col bellissimo “Scirocco”… non c’è riuscito Sarasso. Ma chi ha detto che non c’è…