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Bellissimo e struggente. Forse basterebbero questi due aggettivi per far capire come Sepùlveda sia tornato a volare talmente alto da riuscire a riportarci su quelle vette che qualche anno fa ci fece scoprire con “La frontiera scomparsa”. Molto probabilmente per riuscire ad amare un autore come Luis Sepùlveda bisogna condividerne la storia, le idee, l’immaginario. Di questo ne siamo consapevoli noi, “sepùlvediani” convinti e di lunga data, ma crediamo che in primo luogo ne sia assolutamente consapevole Sepùlveda stesso che certo non si nasconde o si “diluisce” per arrivare al grande pubblico. Soprattutto quando, come fa ancora una volta in questo libro, lo scrittore prende in prestito le vite dei protagonisti dei suoi romanzi per parlare del suo Paese, della sua generazione, dei sogni spazzati via dalla dittatura di Pinochet, delle complicità e dell’impunità, e quindi, in ultima analisi, di se stesso e della sua vita di esule. Uno dei pregi maggiori di Sepùlveda è che in questa lotta da tempo intrapresa contro l’oblio in cui un Cile “normalizzato” vorrebbe seppellire quegli anni lui non indulge mai nell’autocommiserazione nè, tantomeno, nell’autocelebrazione. Ma, al contrario, attinge a piene mani a quell’ironia squisitamente latinoamericana. Un’ironia a volte amara, a volte dissacrante, ma che mai si trasforma in sarcasmo. Della scrittura, poi, nenache a parlarne. Chi scrive ha tutti i libri di Sepùlvedà pieni di frasi e pagine sottolineate e nonostante questo continua ad emozionarsi e stupirsi di come riesca in maniera sublime a dare forma ai pensieri. La storia, anzi le storie e il loro intreccio non ve le anticipiamo per non rovinarvi la lettura; ci permettiamo solo una citazione: sono l’ombra di quel che eravamo, ma finchè c’è luce esisteremo.