Consigli (o sconsigli) per gli acquisti
È con molto piacere che a pochi giorni dal 25 aprile recensiamo e consigliamo il nuovo libro di Massimo Recchioni, Francesco Moranino, il comandante «Gemisto». Un processo alla Resistenza, pubblicato da qualche settimana per i tipi di Derive Approdi.
Un libro importante, quello di Recchioni, che smonta e confuta una certa retorica revisionista in vigore da qualche anno in Italia, quella che attribuisce ai comunisti l’egemonia sulla memoria della Resistenza dal 1944 in poi. Un libro in cui il racconto della vicenda politica, giudiziaria e umana del protagonista – Francesco Moranino – è importante almeno quanto la ricostruzione complessiva del capillare attacco alla Resistenza comunista portato avanti dalla Dc e dai governi in carica a partire dal 1947.
Francesco Moranino, iscritto al Pci clandestino fin dal 1940, fu condannato nel 1941 a 12 anni di reclusione: il suo capo di imputazione – costituzione di associazione sovversiva – era quello previsto dall’articolo 270 del Codice penale, ancora oggi utilizzato contro i compagni – spesso in modo preventivo – che si vuole annientare socialmente e politicamente.
Liberato dopo la caduta di Mussolini nel luglio ’43, Moranino fu un importantissimo organizzatore della Resistenza nel biellese: il comandante «Gemisto», come scelse di farsi chiamare, divenne una figura leggendaria in quelle zone. Diventato un dirigente del Pci nel dopoguerra, nel giugno 1946 fu eletto all’Assemblea costituente, di cui fu il componente più giovane. Dopo essere stato sottosegretario alla Difesa nel terzo governo De Gasperi (2 febbraio 1947 – 1° giugno 1947), alle elezioni del 1948 fu di nuovo eletto deputato, prendendo quasi 70mila voti nel collegio di Torino-Vercelli-Novara. Negli anni successivi, fu coinvolto in un’inchiesta per l’omicidio, durante la Resistenza, di cinque civili accusati di spionaggio anti-partigiano e delle mogli di due di essi: dopo che il Parlamento concesse l’autorizzazione a procedere nei suoi confronti, aiutato dal Pci, si trasferì in Cecoslovacchia. Nel 1953, eletto nuovamente alla Camera dei deputati nelle file del Pci, tornò in Italia protetto dall’immunità parlamentare, ma nel 1955, dopo una nuova autorizzazione a procedere contro di lui, votata con i voti fondamentali dei missini, espatriò definitivamente e negli anni seguenti viaggiò nei paesi socialisti come segretario della Federazione mondiale della gioventù democratica (Wfdy): il Pci sostenne il suo esilio, ma gli chiese anche di accettare la condanna. Se continui attestati di solidarietà provennero a Moranino dall’amico Giancarlo Pajetta, conosciuto nelle carceri fasciste nei primi anni ’40, mai una parola in sua difesa fu spesa da Palmiro Togliatti, il segretario del partito.
«Gemisto» fu condannato per «omicidio plurimo» all’ergastolo, tramutato in 10 anni per effetto dell’indulto del 1953. Tornò in Italia solo dopo l’amnistia del 1966, che riconobbe i fatti per cui era stato condannato come azioni di guerra. Nel 1968 fu nuovamente eletto al Senato nelle file comuniste. Morì nel 1971, appena cinquantenne, per un infarto.
Quella di Moranino è una vicenda per molti versi esemplare: antifascista a ben prima del 1943, leader carismatico, organizzatore instancabile della Resistenza. Processare e condannare Moranino significò processare e condannare la Resistenza comunista, decontestualizzando gli eventi, giudicando fatti avvenuti in guerra, mentre la repressione antipartigiana era al suo apice, come se fossero avvenuti in pace. Come scrive Alessandra Kersevan nella bella introduzione al volume, anche il processo a Moranino, come quello per i fatti di Porzus, sarebbe un processo da rifare. Ammesso che abbia un senso ricercare l’innocenza o la colpevolezza per azioni decise in pochi minuti, in condizioni difficili, dove un’esitazione poteva costare la morte propria e dei compagni e l’annientamento di importanti forze della Resistenza. Una decisione drammatica, forse ingiusta, quella di Moranino e del Comando partigiano di uccidere le presunte spie e le loro mogli, ma l’unica possibile in quella «cruda, terribile, ma indispensabile guerra» (p. 184).
Il processo a Moranino, del resto, non fu estraneo al clima generale che si era affermato in un’Italia sempre più piegata alle logiche della guerra fredda: a partire dal 1948, infatti, i partigiani comunisti furono continuamente emarginati, allontanati dai posti di lavoro (e, in primis, dalla Polizia, dove erano entrati in migliaia nell’immediato dopoguerra), costretti a emigrare, arrestati, schedati – come al tempo del fascismo – dalla polizia nel Casellario politico centrale. Furono moltissimi i processi intentati contro di loro per azioni avvenute durante la Resistenza, derubricate a crimini comuni per l’impossibilità di condannare atti di guerra avvenuti dalla parte degli alleati: fu il caso anche di Moranino, accusato di aver rubato 40mila lire agli uomini che aveva fatto fucilare. Si trattava di una vera e propria «offensiva giudiziaria antipartigiana» che, come analizza Michela Ponzani nell’omonimo studio (curiosamente non citato nella bibliografia del libro di Recchioni), giunse a coinvolgere migliaia di ex partigiani. Finita la guerra, caduto il fascismo, i partigiani continuavano, dunque, ad essere considerati «banditen» da giudici e opinione pubblica.
Come nei precedenti volumi di Recchioni, Ultimi fuochi di Resistenza e Il tenente Alvaro, la Volante rossa e i rifugiati politici italiani in Cecoslovacchia (leggi la nostra recensione qui), anche questo libro riveste una particolare importanza perché da un lato restituisce il vero significato della Resistenza, spogliata da ogni agiografia e inserita nel contesto politico e sociale in cui germinò, e dall’altro decostruisce pezzo per pezzo tutte le costruzioni revisioniste che su di essa sono state edificate negli ultimi anni. Come scrive Recchioni in un passo molto significativo, infatti, la Resistenza
non fu solo eroismo, martirio e patria, sentimenti più riconducibili a una guerra santa oppure teorica, ma fu soprattutto sangue, tortura, eccidi, violenza gratuita, cose per rispondere alle quali i soli martirio ed eroismo non sarebbero stati affatto sufficienti. Per combattere un nemico tanto più forte, che poteva oltretutto muoversi alla luce del sole, erano anche necessarie le imboscate, fondamentali gli agguati, importante il rispondere colpo su colpo laddove possibile, e fare terra bruciata, politicamente ma soprattutto militarmente, attorno al nemico. (p. 103)
La Resistenza fu, quindi, «un periodo meraviglioso e insieme terribile», come dice il partigiano Argante «Massimo» Bocchio in un brano riportato da Recchioni (p. 61), come sono tutte le guerre per la libertà.