Consigli (o sconsigli) per gli acquisti: Contro i beni comuni di Ermanno Vitale
Con estremo ritardo recensiamo Contro i beni comuni. Una critica illuminista di Ermanno Vitale, pubblicato da Laterza nella collana “Saggi tascabili”. Uscito nel 2013, forse ci sarebbe sfuggito se non l’avessimo trovato citato nelle pagine conclusive di Utopie letali. Contro l’ideologia postmoderna (pp. 228-231), in cui Carlo Formenti, criticando la «moda “benecomunista” che seduce la sinistra» argomenta giustamente che «dire né pubblico né privato sia come dire privato» e che «l’ideologia benecomunista sia omologa all’ideologia della domanda di nuovi diritti, e come entrambe restino ancorate al paradigma liberale».
Chiariamo subito che, in realtà, neanche Ermanno Vitale, docente di filosofia politica e di storia delle dottrine politiche all’Università della Valle d’Aosta, pensa minimamente a uscire da questo paradigma, pur adottando una prospettiva riformista e socialdemocratica. La sua, come dichiarato nel titolo, non è una critica marxista, ma una critica illuminista ai «benecomunisti» (ci scuserete il termine cacofonico – che persino Guido Viale ha definito sul «Manifesto» come «orribile, ridicolo e neogotico. Sembra il nome di una congregazione iniziatica fantasy» – ma non sappiamo come altro definirli in modo sintetico: e poi, del resto, come scrive ironicamente Vitale, «se gli adepti si vogliono definire tali, bisogna rispettare questa loro volontà, e augurare loro buona fortuna»). E, del resto, riferendosi ai saggi teorici di Toni Negri e Micheal Hardt dichiara senza mezzi termini che
parallelamente alla ricerca di un mondo nuovo, scorre un progetto che potremmo definire di riformismo radicale. Almeno in un’occasione affiora chiaramente nel percorso proposto dai due autori, nitido e per me largamente condivisibile, e l’impressione è che la sua proponibilità e difendibilità prescinda del tutto dalla complessa e macchinosa teoria del “comune”. È il programma di salvataggio del capitalismo a cui si è già accennato, un “salvataggio” che – nel lessico che mi è più familiare – ne comporta la sconfitta nell’attuale formula neoliberista e una profonda ridefinizione che lo riconduca all’interno del quadro di regole previsto dallo Stato di diritto democratico, e più specificatamente nel costituzionalismo dei diritti fondamentali della persona e del cittadino. […] Per venire ai nostri giorni, idee e proposte assai simili – derivanti in fondo dalla desacralizzazione della proprietà, del mercato e dello Stato-nazione – le incontro da oltre vent’anni nella riflessione di Luigi Ferrajoli, solo per fare un esempio, argomentate in modo chiaro, senza ricorrere al “velame delli versi strani”, al lessico oscuro e ambiguo della cosiddetta biopolitica. [pp. 63-65]
Non avrebbe potuto essere più chiaro: insomma, al contrario di quanto fatto da Marco Bascetta mentre scriveva la sua recensione al volume pubblicata sul «Manifesto», non ci metteremo a nostro agio e non penseremo «siamo tra amici» (del resto, ognuno si sceglie gli amici che gli pare, in base al noto adagio per cui «chi si assomiglia, si piglia»). Come evidente dalla seconda parte del pamphlet, quella dedicata alla pars construens del suo discorso (e, ovviamente, per noi meno ricevibile), Vitale si oppone ideologicamente alla dilagante «privatizzazione del mondo» e allo smantellamento del welfare, opponendogli – e opponendo all’ideologia dei «beni comuni» – «un sobrio concetto di bonum commune (al singolare)» che «fa riferimento al presunto fine ultimo delle decisioni politiche, che ha come obiettivo minimo la salvezza della res publica e come massimo il suo benessere e la sua potenza» (p. 90): insomma, ciò che Marx considerava una forma puramente ideologica e a cui contrappose la lotta di classe e la parzialità degli interessi delle classi. In definitiva, ciò che Vitale contrappone all’ideologia dei beni comuni è l’«ideale dello Stato democratico di diritto» (p. 124), di impronta illuminista, facendo riferimento alle teorizzazioni di Luigi Ferrajoli e di Norberto Bobbio: e, da parte nostra, non possiamo fare a meno di pensare, invece, che lo stato non possa essere il garante del bene comune, ma sia l’apparato politico/militare che permette il dominio di una classe su un’altra. Insomma, Vitale è un sostenitore di quella ideologia dei diritti che, secondo il lucido Formenti, non fanno la rivoluzione.
A porre irrimediabilmente Vitale in un campo politico diverso dal nostro, inoltre, c’è una certa incomprensione delle esperienze della Bolivia di Evo Morales e dell’Ecuador di Rafael Correa. Vitale, infatti, vuole dimostrare le debolezze e la contraddittorietà del richiamo benecomunista alle nuove costituzioni dei due paesi latinoamericani, per quanto concerne l’idea di rapporto tra uomo e natura in esse contenute e la definizione di così tante forme di «proprietà» da comprendere anche quella «comunitaria» delle terre e dei «saperi» degli indigeni. Facendo questo, con l’ironia che lo contraddistingue, destoricizza e decontestualizza – e deforma, sottoponendole allo sguardo etnocentrico occidentale – le due carte, che sono ad esempio accusate di contenere accenti mistici-religiosi che straccerebbero qualsiasi principio di laicità o di esprimere una figura «paramonarchica» (?) di presidente della Repubblica eletto direttamente dal popolo (pp. 49-54).
Infine, anche Marx – per quanto le sue teorie, come vedremo, siano utilizzate da Vitale per decostruire le (a dire il vero) deboli teorie benecomuniste – viene trattato con una certa ironia: «Le pagine di Marx vanno lette e rilette, sono ancora oggi interessantissime e toccanti. Basta non prenderle come il vangelo, giusto per non finire nelle fila dei fanatici che Bobbio confessava di detestare» (p. 23). Avvertimento, questo, del tutto superfluo se rivolto a un marxista.
E allora perché, nonostante queste doverose premesse, ci troviamo a consigliare fortemente la lettura del pamphlet di Vitale? La risposta è semplice. La pars destruens, che costituisce la parte più rilevante del volume, in cui sottopone a critica quella che definisce la visione «in molti casi intrisa di elementi irrazionalistici, mitologici, premoderni» (p. 79) dei benecomunisti, è ricca di spunti interessanti e utili per dimostrare l’inconsistenza politica di un concetto ormai così allargato da sembrare degenerato, che si è esteso fino all’improponibile slogan sindacale «lavoro bene comune».
Nel primo capitolo, Vitale sottopone a critica l’utilizzo delle opere di Garret Hardin (La tragedia dei beni comuni, 1968) e di Elinor Ostrom (Governare i beni collettivi, 2006), citate da tutta la letteratura italiana sui beni comuni. Egli evidenzia così una notevole forzatura nel loro utilizzo – Ostrom, ad esempio, parla di esperienze di gestione dei commons che, più che la Comune di Parigi, ricordano «la gestione condominiale di un caseggiato» (p. 13) – oltre che un approccio anacronistico ed eccessivamente attualizzante ai temi storiografici che fanno da sottofondo a tali volumi. Una forzatura così evidente che persino un intellettuale raffinato come Noam Chomsky – aggiungiamo noi (Vitale si concentra solo sui teorici italiani) – si è spinto a scrivere che «la defunta Elinor Olstrom ha vinto il Premio Nobel per l’economia nel 2009 grazie ai suoi lavori che dimostrano la superiorità della gestione diretta dagli utenti di riserve ittiche, pascoli, boschi, laghi e bacini di acque sotterranee».
Secondo i teorici dei beni comuni, le enclosures (il fenomeno della recinzione e privatizzazione dei campi aperti, verificatosi in particolare in Inghilterra tra il 1400 e il 1800) soppressero storicamente i beni comuni, privandone i loro legittimi fruitori (i poveri delle campagne), e portando all’affermazione di un modello basato sulla proprietà privata e sullo Stato sovrano. Se, a livello storiografico, un giudizio tanto netto e negativo è ormai attenuato (la fine dei campi aperti, infatti, consentì, secondo molti storici, un aumento della produttività delle campagne e un generale miglioramento delle condizioni di vita), a lasciare ancora più perplessi è la trasposizione non problematizzata né attualizzata di questo fenomeno nella contemporaneità: anche oggi, infatti, le politiche neo-liberarali sottoporrebbero a «nuove recenzioni» altri «beni comuni», tanto materiali (acqua, foreste, minerali, ecc.) quando immateriali (la conoscenza, il linguaggio, ecc.). Secondo Vitale,
sotto l’aspetto di una prospettiva rivoluzionaria – una comunità politica fondata sulla primazia dei “beni comuni” – si nasconde, o meglio riaffiora, una visione del mondo premoderna, una regressione romantica al medioevo, visto letteralmente come luogo di una vita comunitaria felice ed ecologicamente equilibrata. Per contro, l’Illuminismo […] è visto come la matrice ideologica non dei diritti dell’uomo e del cittadino, non del pensiero critico contro la superstizione, ma, al contrario, del mero individualismo possessivo, e in particolare di quel processo di accumulazione originaria del capitale che continua a riproporsi in forme sempre più distruttive per la società e per la “madre terra”. (p. VIII)
Questo apprezzamento per gli elementi premoderni (a cui, incredibilmente, secondo noi non si sottrae neanche Chomsky), inoltre, condurrebbe i benecomunisti a rivalutare non solo un medioevo immaginario (immaginario, perché non tiene assolutamente conto di una realtà storica fatta di fame, morti premature, malattie, sfruttamento e precarietà), ma anche le comunità latinoamericane di epoca pre-conquista, «contesti in cui chissà se poi a questi intellettuali da “tristi tropici” annoiati dell’Occidente piacerebbe vivere davvero» (p. 97).
I giudizi banalizzanti sulle enclosures, inoltre, evidenziano come l’impianto teorico dei benecomunisti sia solo apparentemente (e probabilmente involontariamente) marxista. Marx, infatti, aveva indicato nelle recinzioni l’avvio dei processo di accumulazione originaria: sottraendo risorse alla società nel suo complesso, si era «proletarizzato il contado», che si trasformò in manodopera a basso costo per la nascente industria. Come evidenziato da Vitale, dal punto di vista morale Marx condanna tale processo, ma non sostiene mai il ritorno a consuetudini e istituzioni medievali: anzi, «nel Manifesto del Partito comunista Marx ed Engels riconoscono alla borghesia il ruolo, e in certo modo anche il merito storico, di aver posto fine all’ipocrisia dei rapporti di dominio medievali» (p. 21), un ruolo «rivoluzionario». Richiamarsi miticamente al periodo pre-capitalista, quello appunto precedente alla privatizzazione dei «beni comuni», e auspicando un suo ritorno, si pone quindi in aperta contraddizione con le teorie di Marx e col suo materialismo storico.
Superato questo capitolo introduttivo, il primo bersaglio polemico di Vitale è il giurista torinese, legato a Sel, Ugo Mattei, con il suo Beni comuni. Un manifesto, pubblicato nel 2011 sempre da Laterza: la proposta in esso contenuta viene così definita «generica, infondata e mistificatrice» (p. VIII) e basata su tesi «retoriche, infondate, incoerenti» (p. XI). In particolare, viene criticata la contraddittoria prospettiva per cui «la strada da intraprendere è quella della istituzionalizzazione, a qualunque livello politicamente possibile, di un governo partecipato dei beni comuni, capace di restituirli in una prima fase alle “comunità di utenti e di lavoratori” (art. 43 Cost.) e poi definitivamente alle moltitudini che ne hanno necessità» (p. 28).
Anche dal punto di vista giuridico, secondo Vitale, non si riesce inoltre a giungere a una definizione di «beni comuni»: «Tutto è “bene comune”, perché ciò che definisce il bene comune non è un ambito o una tipologia di enti, ma la prospettiva, per l’appunto totalizzante, dalla quale si guarda questa o quella risorsa, situazione o prestazione» (p. VIII). E non è la gestione pubblica di alcuni beni fondamentali che viene rivendicata, ma la «gestione come “comune”, sul modello di una presunta auto-organizzazione che avrebbe gestito – all’interno di una comunità di pari – prati, boschi e foreste di un medioevo immaginario» (p. IX). La storia, aggiungiamo noi, ha insegnato che solo i concetti deboli possono essere contenitori così vuoti da poter contenere tutto: e, dunque, se tutto è «bene comune» (l’acqua, l’aria, il dna, il linguaggio, le conoscenze, internet, le ferrovie, i trasporti pubblici, persino il lavoro o l’Italia, come indicava il nome della coalizione di centro”sinistra” – Pd, Sel, socialisti – alle elezioni del 2013), nulla è «bene comune». Un bel regalo al capitalismo, appunto.
Queste considerazioni portano Vitale a formulare quattro domande ai benecomunisti che, evidentemente, fanno fatica a trovare risposta, evidenziando la contraddittorietà e la problematicità delle loro teorie:
Che cosa diavolo sono i beni comuni? […] A chi sono comuni i (o quali) beni comuni? A piccole comunità tradizioni, come nei casi studiati da Ostrom, alla nazione, a collettività (idealmente) sovranazionali come l’Unione europea, all’umanità in quanto tale? […] Chi amministrerà i beni comuni? Certo non lo Stato burocratico, autoritario o colluso, ma allora chi? Tutti i consoci (i comunardi) direttamente, come pare indicare l’espressione “governo partecipato dei beni comuni”, cioè in forme di democrazia assembleare, o saranno ammesse deleghe ad un “esecutivo” e forme di rappresentanza […]? […] La quarta domanda riguarda il terreno più solido e delimitato del costituzionalismo. Si fa riferimento all’art. 43 della Costituzione italiana […]. Francamente mi pare che, anche a voler forzare un’interpretazione, lo spazio che la Costituzione italiana riserva all’eventualità dei beni comuni sia residuale. Ahimè, la proprietà è pubblica o privata. […] Che ne vogliono fare i benecomunisti della nostra Costituzione? (pp. 33-35)
Nel terzo capitolo, Vitale sottopone a critica tanto la prospettiva presentata da Negri e Hardt in Comune. Oltre il privato e il pubblico (2010), quanto il «riformismo radicale» espresso da Stefano Rodotà. Il saggio di Hardt e Negri viene ritenuto da Vitale – in pagine contraddistinte da una rara ironia – un salto qualitativo evidente rispetto al Manifesto di Mattei:
La dotta narrazione – o forse meglio la commedia – filosofica che imbastiscono i due autori è rutilante e ricchissima […]. Sembra quasi che gli autori si divertano a giocare a rimpiattino – ma è il bello della dialettica! – col lettore: tutte le volte che gli pare di aver faticosamente afferrato un concetto, ecco che esso viene corretto, ribaltato o dissolto qualche pagina dopo. Questo è anche un modo, senz’altro involontario, per aver sempre ragione, per poter dire: “guarda che non hai capito bene”. Per esempio l’Illuminismo, vituperato tout court da Mattei, sta sì alla base della esecranda “repubblica della proprietà”, ma poco dopo è descritto come invito al “sapere aude!” – osa pensare – che fa saltare le fondamenta di tale repubblica. […] Forse anche a causa di questa eccitante ambiguità Negri e Hardt non sanno bene se sono rivoluzionari o riformisti radicali, e propongono piani di salvataggio per il capitalismo dicendo al tempo stesso che tali proposte non saranno neppure ascoltate, anche perché il capitale (questa entità ipostatizzata), se le accettasse, genererebbe i suoi becchini. Ma alla fine si capisce che – suvvia! – sono rivoluzionari col pedigree, anzi teorici della rivoluzione permanente. […] Non mancano i fiumi di retorica, anche questi sotto il segno delle franche contraddizioni. […] Il volume si conclude così: “Nella lotta continua contro le istituzioni che corrompono il comune, come la famiglia, l’impresa e la nazione, spargeremo molte lacrime, eppure continueremo a ridere. Nell’antagonismo contro lo sfruttamento capitalistico, contro il potere della proprietà e contro i distruttori del comune mediante il controllo pubblico e privato soffriremo tremendamente, eppure continueremo a ridere. Tutti saranno sepolti da una risata”. Magari due più di altri. [pp. 55-58]
Con il concetto di “comune”, aggiunge con meno ironia Vitale, i due autori intendono «un sacco di cose piuttosto eterogenee», tanto materiali (aria, acqua, piante, ecc.) quanto immateriali (linguaggio, affetti, espressioni umane):
Cambiata la “natura” del lavoro, cambia anche la “natura” delle persone, ormai in grado di praticare il “comune”, ovvero di agire con responsabilità e capacità all’interno delle forme di auto-organizzazione che dalla dimensione del lavoro possono trasferirsi anche alla dimensione della politica, ovvero all’organizzazione della società nel suo complesso. Ciò renderebbe finalmente praticabile la democrazia partecipativa […]. Le moltitudini degli sfruttati, dei dannati della terra a vario titolo, sono ormai pronte, o quasi pronte, a resistere al potere del capitale, d’altronde in declino per conto suo, visto che sta perdendo la sua funzione di organizzazione della produzione, fino alla sua sostituzione con quella società di liberi produttori che si riconoscere e auto-organizzerà nel “comune” andando oltre il pubblico e il privato. Si potrebbe obiettare che c’è molto ottimismo in questo disegno, che la realtà sotto i nostri occhi sembra andare verso ben altre direzioni – in direzione Pomigliano, per esempio […]. Non so se tale progetto sia davvero originale, ma è talmente generico e chiaramente in fieri – i dettagli li scriveranno le moltitudini passo dopo passo – che non possiamo far altro che sospendere il giudizio o, ancor meglio, credere per capire, come suggeriva Sant’Anselmo. [pp. 60-61]
Un’analisi, anche quella di Vitale, che – anche nell’ossessiva ed eccessiva ricerca (quasi sempre riuscita) di toni ironici – è a tratti semplicistica, anche perché basata su pochissimi saggi sulla questione dei beni comuni: tutti italiani, e probabilmente non tra i più acuti (anzi, sembra quasi che abbia voluto sparare sulla croce rossa). Tuttavia ci sembra che questo pamphlet possa essere utile per mettere in discussione un paradigma – svuotato di senso e ambiguo – che sembra ormai dominante anche nel campo della sinistra anticapitalista, o che comunque si autopresenta come radicale. Emblematico è che tale paradigma sia stato veicolato e sostenuto, oltre che dal movimento per l’acqua bene comune in Italia da Occupy Wall Street negli Stati Uniti, anche da formazioni politiche (M5S e Sel) e da cosiddetti «intellettuali di sinistra» ovviamente ultrariformisti (oltre a Mattei e a Rodotà, ci riferiamo a Salvatore Settis e a giuristi come Gaetano Azzariti e Paolo Maddalena, Andrea Segrè, Laura Pennacchi e Guido Viale) che di radicale hanno ben poco. Qualcosa di più hanno, invece, di radical chic.
Ciò dovrebbe mettere in allarme: un paradigma che si pone tanto contro il pubblico quanto contro il privato (e non certo per essere a favore dello «statale» o della «socializzazione»! Anzi, come afferma il benecomunista Alessandro Dani, «il ‘comune’ vuol essere soprattutto un ‘pubblico’ non statalistico-burocratico, gestito in modo da corrispondere veramente all’interesse dei cittadini ed in modo più democratico e partecipato. Qualcosa che può collegarsi per certi aspetti – ma non per altri – alla dimensione del ‘pubblico-comunitario’ della nostra lunga tradizione europea pre-moderna. […] Le anime timorose liberali prima di preoccuparsi dei pericoli reazionari dei beni comuni – a mio avviso piuttosto immaginari – dovrebbero forse meditare sui disastri – ben reali e forse irreparabili – compiuti in nome del liberismo selvaggio e dello statalismo. In fondo, due buoni vecchi amici») finisce con l’essere pericolosamente affine e utile al pensiero liberista a cui, apparentemente, si oppone. Ogni volta che sentiamo parlare di «nè pubblico, nè privato: comune» dovremmo drizzare le antenne. Stupisce, quindi, la meccanica adozione (non problematizzata!) del concetto di «beni comuni» anche da parte dei movimenti sociali, dei sindacati conflittuali, della sinistra anti-capitalista. Si tratta di un uso dell’espressione ormai scontato: perchè, ad esempio, parlare di «svendita dei beni comuni»? L’acqua, l’aria, le foreste al momento non sono «beni comuni», ma beni pubblici o (sempre più spesso) privati. L’espressione «beni comuni» dovrebbe indicare una prospettiva futura, non una fotografia della realtà: e, infatti, anche i più intelligenti sostenitori del «benecomunismo» parlano di un processo, il «commoning», il «farsi comune», non di un dato di fatto. A nostro avviso, descrivere quelli che sono beni pubblici in via di privatizzazione come «beni comuni», invece, mistifica la realtà, celando i rapporti di produzione e di sfruttamento, la «lotta di classe dall’alto», che stanno dietro questi processi. E non è un caso se la retorica dei «beni comuni» si accompagna – come se si trattasse di gemelle siamesi – a quella del «99% contro l’1%»: due prospettive assolutamente interclassiste e quindi, in definitiva, a-conflittuali.
L’uso dell’espressione “beni comuni” – per quanto ambigua – in tempi di privatizzazioni e di svendita dei beni pubblici e del patrimonio dello stato può avere, a livello di propaganda, una forza evocativa e un’immediatezza molto importanti: dobbiamo prestare la massima attenzione, però, al suo uso e al messaggio che cercano di veicolare i suoi teorici. Il pamphlet di Vitale, indubbiamente, aiuta a porsi su questa strada critica: se dal punto di vista del «merito» (l’obiettivo che si propone con il libro, cioè quello di veicolare la sua proposta politica alternativa tanto al «benecomunismo» quanto al capitalismo neo-liberista: quella, in definitiva, di un «capitalismo dal volto umano») non può che essere criticato, dal punto di vista del «merito», della critica alle degenerazioni del concetto di «beni comuni» e alla sua intrinseca ambiguità, non può che essere preso come utile base di partenza. Sta poi a noi accompagnarla con la nostra pars construens.