Consigli (o sconsigli) per gli acquisti: Il sole dell’avvenire di Valerio Evangelisti
Tebe dalle sette porte, chi la costruì? Valerio Evangelisti, con il suo ultimo romanzo, sembra voler dare corpo e sostanza alla domanda di Brecht sul corso della storia e i suoi concreti protagonisti (qui la poesia, che fa sempre bene rileggersi). Non le guerre e gli armistizi, le scoperte o le alleanze, ma quella massa di senza nome, sempre uguale a se stessa nel suo sfruttamento, riabilitata solo nel Novecento da un filone storiografico che rimise al centro della ricerca storica il suo soggetto principale: la massa di sfruttati attraverso cui venne edificata la società, ogni società. Non possiamo che accogliere con favore dunque il tentativo di riproporre uno studio anti-evenemenziale della storia, ormai attaccato ovunque come “idealista” da una ricerca storica ritornata alla sua mansueta opera di supporto ideologico del potere costituito.
Il romanzo narra le vicende di una umile famiglia romagnola di braccianti e mezzadri, che nel suo continuo peregrinare fra povertà e disgrazie, repressione e sfruttamento, delinea lo sviluppo economico e sociale dell’Italia di fine Ottocento come si è andato effettivamente producendo. Qualsiasi siano stati i governi, di destra o di sinistra, seguiti in quel trentennio, e qualsiasi siano stati gli eventi politici e bellici, le alleanze internazionali o le avventure coloniali che caratterizzarono quel periodo, la capacità di Evangelisti di descrivere la distanza degli sfruttati dai giochi della politica liberale (oggi tanto di moda) raggiunge qua un livello notevole. E’ storia anche quella della famiglia Verardi, la protagonista del libro, anche se difficilmente la troveremo nei libri di testo, colmi di dettagli sulla disfatta di Adua o sull’”interesse dell’Italia” a stipulare la triplice alleanza con l’Austria e la Germania.
Il libro non scade neanche nell’apologia dell’antipolitica, così in voga di questi tempi. Ma l’unico orizzonte politico possibile è il processo storico di organizzazione delle classi subalterne, fra le sue contraddizioni e lotte fratricide, che porterà infine ad elevare quella massa informe a protagonista politica del Novecento. Le vicende della povera famiglia si intrecciano cioè con lo sviluppo romagnolo del Partito Socialista Rivoluzionario, confluito poi nel Partito Socialista italiano. Anche qui, l’angolo d’osservazione non è quello dei dirigenti politici o delle lotte ideologiche fra marxisti e anarchici, quanto gli occhi dei braccianti, dei senza casa o dei senza lavoro, che percepivano quel movimento in ascesa come qualcosa di “oscuro” ma al tempo stesso edificante, vicino ai loro interessi. Più interessati alla famiglia, alla ricerca di lavoro e alla bevute collettive che ai congressi e alla riunioni di partito, il rapporto fra lavoratori e la politica viene qui descritto con punte di sano realismo, che non sconfinano mai nell’opposizione fra i due lati della vicenda ma piuttosto in un pragmatismo anti-retorico forse più fedele alla realtà di alcune descrizioni romanzate della politicizzazione di massa sviluppata in quegli anni. Meno fantasiosi discorsi politici fra lavoratori, più istinto sociale, percezione che, per quanto difficili o poco comprensibili, quelle organizzazioni politiche rispondevano ai loro interessi materiali e si contrapponevano ai loro nemici storici.
Emerge con forza dal racconto la distanza fra il potere costituito e il mondo del lavoro. Qualsiasi sia stato il governo, qualsiasi sia stato questo o quel sindaco, questo o quel padrone più o meno buono, il corso della storia per le classi subalterne è già segnato, e solo la loro diretta organizzazione può cambiarlo. In questo senso, il romanzo è pervaso da un certo pessimismo sulla reale potenzialità del mondo del lavoro di emanciparsi secondo gli obiettivi dati in partenza. Non possiamo non notare in questo caso l’influenza del presente sul romanzo, un presente in cui questo sole dell’avvenire è sempre più lontano, fumoso, all’apparenza irraggiungibile. Pessimismo che si fa anche storico: laddove è stato in apparenza raggiunto, questo sol dell’avvenire mai ha corrisposto alle aspirazioni di quel mondo del lavoro, sempre e comunque soggetto storico sfruttato. In questo caso non ci sentiamo di condividere tale afflato, che rischia di degenerare in rifiuto di ogni orizzonte politico davvero rivoluzionario, caratterizzato inevitabilmente dalla sconfitta. Ma è un sottofondo impercettibile, e che nulla toglie alla potenza di una narrazione che rimette, come dicevamo, al centro di ogni discorso il suo soggetto imprescindibile: il mondo del lavoro. E nel fare questo, lontano da ogni retorica, avendo la capacità di narrarlo non in forme stereotipate, ma nella sua effettiva concretezza colma di contraddizioni, forse anche insanabili.
Il libro costituisce il primo episodio di una trilogia che andrà a coprire tutta la prima metà del Novecento italiano. Questo prima parte, ma in realtà romanzo assolutamente autonomo e che non risponde alla necessità del sequel, ci sembra essere un passo in avanti nella capacità narrativa dell’autore, soprattutto nell’assenza di ogni possibile lieto fine conciliante o consolatorio. Non può esserci pace fra i lavoratori se non con la loro emancipazione. Neanche all’interno della loro vita familiare. Non possiamo che condividere.
Il Sole dell’Avvenire, Mondadori, Euro 17,50