Consigli (o sconsigli) per gli acquisti. Ritorno a Reims.
A volte capita di imbattersi senza nemmeno volerlo in libri che si rivelano molto più interessanti di quanto non si immaginasse quando li si è presi in mano. Ritorno a Reims, di Didier Eribon e pubblicato in Italia nel 2017 per i tipi della Bompiani è sicuramente uno di quei casi. Si tratta di un lavoro difficilmente catalogabile perché lo si potrebbe approcciare come un piccolo saggio di sociologia sulle trasformazioni delle classi popolari francesi, oppure, senza per questo sbagliare, potrebbe essere letto tranquillamente come l’autobiografia di un proletario cresciuto in un ambiente pieno di pregiudizi che si ferma a riflettere sulla propria omosessualità e sul percorso di soggettivazione e “reinvenzione di sé” che l’ha portato a scappare dall’ambiente sociale della sua infanzia e della sua adolescenza, fino a farne, come lui stesso si definisce, un “transfugo di classe”. A ben vedere, però, la definizione che più si addice a questo libro è quella data dallo stesso Eribon: un’analisi storica e teorica fortemente ancorata, però, ad un’esperienza personale. La morte del padre, che non vedeva ormai da anni, spinge infatti l’autore ad intraprendere un viaggio di ritorno verso quel “periurbano imposto”, quello spazio istituito della segregazione urbana e sociale in cui sono stati spinti a vivere i suoi genitori, due operai di tradizione comunista che nella loro vita avevano avuto la fabbrica come unico orizzonte sociale possibile.
Muizon, così si chiama il paesone alle porte di Reims nel nord della Francia, appare così a Eribon, che non c’era mai stato prima, come un esempio caricaturale di “riurbanizzazione”, uno di quegli spazi semicittadini nel bel mezzo dei campi, di cui non si capisce se appartengano ancora alla campagna o se con il tempo siano divenuti una sorta di periferia. Per Eribon il ritorno a Reims è però soprattutto un percorso di riflessione che lo riporta nella “regione di sé stesso” da cui aveva cercato di evadere e che di fatto lo reintegra nel perimetro del mondo sociale da cui proviene, in quei luoghi che lui definisce come indelebilmente marcati dall’appartenenza di classe e in cui la geografia collettiva e la topologia sociale finiscono per coincidere strettamente. Un ritorno che lo spinge a porsi una serie di domande sui destini sociali, sulla divisione della società in classi, sull’effetto dei determinismi sociali nella costruzione della soggettività fino a chiedersi provocatoriamente quali siano le ragioni per cui il parlare di sé e della propria condizione di omosessuale rappresentino oggi una posizione valorizzata, valorizzante e perfino richiesta dai contesti contemporanei della cultura mainstream e della politica, mentre lo stesso non accade quando si tratta di affrontare il retaggio della propria origine sociale popolare. Senza farla troppo lunga e per evitare di tediare oltre chi legge ci sembra di poter dire che siano essenzialmente tre le questioni affrontate da Eribon e che risultano particolarmente utili ai nostri ragionamenti politici. La prima questione è come e perché si sia rotta quella connessione sentimentale, quasi antropologica, che si pensava inscindibile tra sinistra e classi popolari. Mandando così in mille pezzi quegli schemi dentro cui tutti ci siamo costruiti politicamente. Parlando del padre Eribon scrive infatti che “era comunista così come i borghesi erano di destra: per lui era naturale, come se l’appartenenza di classe l’avesse ricevuta alla nascita”.
L’Autore è ovviamente consapevole della distanza spesso siderale che è sempre esistita tra il proletariato reale, quello in carne e ossa e inevitabilmente pieno di contraddizioni, e la visione idealizzata della “classe mobilitata” o percepita come da mobilitare di cui anche la sinistra si è a lungo nutrita. E polemizza con il Deleuze de l’Abecedario quando sostiene che “essere di sinistra” sia “prima di tutto percepire il mondo” (considerare che i problemi urgenti siano quelli del terzo mondo, più vicini a noi di quelli del nostro quartiere), mentre “non essere di sinistra” sarebbe, al contrario, focalizzarsi sulla strada e il paese in cui si vive. La definizione proposta dal filosofo francese cozza infatti con la sua esperienza sensibile. Scrive Eribon riferendosi alla sua famiglia e all’ambiente in cui era cresciuto: “negli ambienti popolari, nella “classe operaia”, la politica di sinistra consisteva prima di tutto in un rifiuto molto pragmatico di ciò che si subiva nella vita quotidiana. Si guardava intorno a sé e non in lontananza, sia nello spazio che nel tempo”. Un rifiuto dell’esistente che assumeva più che altro i contorni della protesta e che spettava poi all’intellettuale collettivo, al Partito Comunista, trasformare in un progetto politico consapevole. Scrive ancora Eribon: “se qualcuno avesse voluto dedurre un programma politico dai discorsi che si tenevano quotidianamente nella mia famiglia in questo periodo, perfino quando si votava per la sinistra, il risultato non sarebbe stato troppo diverso dalle future piattaforme elettorali del Fronte Nazionale degli anni Ottanta e Novanta”. Ma grazie al Partito Comunista, e qui sta il secondo degli aspetti più interessanti indagati dal sociologo francese, gli individui oltrepassavano ciò che erano separatamente. E l’opinione che ne emergeva, attraverso la mediazione del partito che nell’esprimerla la plasmava, non rifletteva affatto le opinioni disparate di ciascuno degli elettori, ma dava loro un senso politico. “Quando si votava per la sinistra, di fatto si votava contro questo genere di pulsioni immediate e dunque contro una parte di se stessi. Questi sentimenti razzisti erano potenti e del resto il PCF non si astenne certo dall’assecondarli, in modo odioso e in molte occasioni. Ma non si sedimentavano come la fonte principale della preoccupazione politica“.
Si trattava insomma di due livelli di coscienza che potevano anche non coincidere senza per questo interferire sulle scelte politiche consapevoli, come l’adesione al Partito o l’iscrizione al sindacato. “Nel voto per il Fronte nazionale, invece, gli individui restano tali e l’opinione che producono non è altro che la somma dei loro pregiudizi spontanei, che il partito capta e mette in forma”. Quella dell’autore è a ben vedere una riflessione sulla differenza tra “rappresentanza politica” e “rappresentazione politica” che ben si presta anche all’analisi, ad esempio, delle ragioni del voto operaio a formazioni populiste come la Lega di Salvini. Il Partito Comunista dunque, come demiurgo capace, per riprendere una definizione di Enrico Guglielmetti, di “dare nome ad aspirazioni reali ma ancora confuse, che – senza il partito – resterebbero nell’anonimato o – peggio – potrebbero essere preda di un tentativo di nominazione allotrio e sviante”. Eribon non crede affatto allo spontaneismo o, come li chiama lui, i “saperi spontanei”, non lo ritiene possibile all’interno di un modo di produzione che si fonda sull’alienazione del lavoro salariato, e lo afferma in maniera molto chiara: “non esiste il “sapere spontaneo” dei dominati o, più precisamente, il “sapere spontaneo” non ha un significato fisso e legato ad una certa forma di politica: la posizione degli individui nel mondo sociale e nell’organizzazione del lavoro non basta a determinarne “l’interesse di classe” o la percezione di questo interesse, se poi i partiti e i movimenti non offrono come mediazione delle teorie attraverso le quali vedere il mondo”. E ancora, in un altro passaggio che ci sembra importante riportare per intero: “per questa ragione, ogni sociologia o filosofia che vuole mettere al centro del suo approccio il “punto di vista degli attori” e “il senso che danno alle proprie azioni” rischia di non essere altro che una stenografia del rapporto mistificato che gli agenti sociali mantengono con le loro pratiche e i loro desideri e, di conseguenza, di non essere niente di più che un contributo alla perpetuazione del mondo tale e quale è attualmente: un ideologia della giustificazione (dell’ordine costituito). Solo una rottura epistemologica con il modo in cui gli individui si pensano spontaneamente permette di descrivere, ricostruendo l’insieme del sistema, i meccanismi attraverso i quali l’ordine sociale si riproduce. (…) La forza e l’interesse di una teoria risiede precisamente nel fatto che non si accontenta mai di registrare le parole che gli “attori” pronunciano sulle loro “azioni”, ma al contrario si dà come obiettivo di permettere agli individui e ai gruppi di vedere e di pensare in modo diverso ciò che sono e fanno e, magari, anche di cambiare ciò che fanno e ciò che sono. Si tratta di rompere con le categorie incorporate della percezione e dei quadri di significato prestabiliti, e dunque con l’inerzia sociale di cui queste categorie e questi quadri sono vettori, al fine di produrre un nuovo sguardo sul mondo, e di aprire nuove prospettive politiche”.
Ma chi è in grado oggi di svolgere questa funzione? A chi possono rivolgersi oggi gli sfruttati e gli oppressi per sentirsi legittimati? Chi riesce a dare loro un posto nello spazio politico? Per Eribon (e su questo non possiamo che dargli ragione) non certo “la sinistra”, o almeno non quella che ha fatto propria quella che Timothy Snyder definisce come “la politica dell’inevitabilità”, ovvero l’accettazione della globalizzazione e della liberal-democrazia come definitivo e insuperabile punto d’approdo del percorso dell’umanità, in una narrazione chiusa in cui ogni superamento dell’esistente non sarebbe altro che un ritorno indietro nella precedente barbarie. Una “sinistra” che ha trasmigrato armi e bagagli nel campo di quello che una volta era il nemico di classe ed è arrivata ad abbandonare la lingua dei governati per iniziare a parlare quella dei governanti, espellendo la contrapposizione tra sfruttati e sfruttatori dal paesaggio politico per sostituirla con formule neutre come “patto sociale” e “relazioni industriali”, gli oppressi e i dominati sono così diventati, filantropicamente, “gli ultimi”, gli “esclusi”. Un’operazione ideologica dietro cui si è nascosto l’obiettivo politico di disfarsi dell’idea stessa di classe, di interesse collettivo per arrivare all’individualizzazione del diritto del lavoro e alla desocializzazione dei sistemi di solidarietà e di redistribuzione.
Non è quindi difficile capire perché una classe decostruita e atomizzata dalle politiche della “sinistra” abbia cercato altrove il modo di far conoscere il proprio punto di vista. Ancora una volta Eribon parte dal proprio vissuto, dal proprio particolare per arrivare al generale: “ho detto prima che, durante la mia infanzia, tutta la mia famiglia era “comunista”, nel senso che far riferimento al Partito Comunista costituiva l’orizzonte incontestato del rapporto con la politica, il suo principio organizzatore. Come ha potuto diventare una famiglia a cui è sembrato possibile, a volte perfino naturale, votare l’estrema destra o la destra? (…) Questo voto dei miei fratelli, tuttavia, per un partito che m’ispira un profondo orrore, e in seguito per un candidato alle presidenziali di una destra più classica che seppe attirare questo elettorato, sembra essere rivelatore di una tale fatalità sociologica, sembra obbedire a tal punto alle leggi sociali (che dunque valgono anche per le mie scelte politiche) da lasciarmi perplesso”. La conclusione a cui arriva il sociologo, come abbiamo già detto, è che proprio la “sinistra” abbia avuto in questo processo una responsabilità enorme spingendo interi settori delle fasce più svantaggiate a dirigere i propri consensi verso “quel partito che sembrava l’unico a preoccuparsi di loro, nonostante il ceto dirigente di quel partito non fosse affatto composto da membri provenienti dalle classi popolari”. Anche in questo caso le riflessioni di Eribon sembrano descrivere puntualmente la nostra realtà come quella della Trump’s America o della Brexit. Prosegue il sociologo: “a chi bisogna dare la colpa, se il ricorso ha preso poi queste sembianze? Se il significato di un “noi” in questo modo mantenuto e ricostituito si è trasformato al punto da designare i “francesi” opposti agli “stranieri”, piuttosto che gli “operai” opposti ai “borghesi”? A voler essere ancora più precisi: l’opposizione tra “operai” e “borghesi” è continuata, ma sotto la forma di un’opposizione tra “gente dal basso” e “gente dall’alto”. Questa opposizione ha integrato una dimensione nazionale e razziale, secondo cui le persone dall’alto erano percepite a favore dell’immigrazione, e quelle provenienti dal basso come quelle che più pativano nel quotidiano l’immigrazione, accusata di essere la causa di tutti i mali”.
Come uscire dunque da questo cul-de-sac? Eribon (e qui arriviamo al terzo motivo d’interesse) da questo punto di vista non intravede scorciatoie né strade facili da percorrere, e soprattutto sembra sottolineare come il superamento di questa impasse non possa poggiare esclusivamente su uno sforzo soggettivo, per quanto comunque indispensabile e indifferibile, ma debba necessariamente tenere conto delle condizioni di possibilità oggettive in cui l’azione politica si produce. Facciamo per l’ultima volta parlare il testo: “ai movimenti sociali e agli intellettuali critici spetta innanzitutto il compito di costruire quadri teorici e modalità politiche di percezione della realtà che permettano non di cancellare – lavoro impossibile – ma di neutralizzare al massimo le passioni negative che agiscono nel corpo sociale, in particolar modo nelle classi popolari. A essi spetta il compito di offrire altre prospettive e di delineare così un futuro per una sinistra che potrebbe, ancora una volta, dirsi tale. (…) Ma se è vero che sono i discorsi e le teorie che ci fabbricano come soggetti della politica, non abbiamo allora il compito di costruire discorsi e teorie che ci permettano di non trascurare nessun aspetto, di non lasciare fuori dal campo della percezione o fuori dal campo d’azione nessuna ambito dell’oppressione, nessuna registro della dominazione, nessuna assegnazione all’inferiorità, nessuna vergogna legata all’interpellazione ingiuriosa? Teorie che ci permettano anche di essere pronti ad accogliere ogni nuovo movimento che vorrà portare sulla scena politica problemi nuovi e parole inascoltate e inattese? (…) Ma è evidente che dovrà prodursi un certo numero di avvenimenti importanti – scioperi, mobilitazioni e così via – affinché questo avvenga: perché non ci si dissocia facilmente da un’appartenenza politica in cui si è mentalmente sicuri da molto tempo – fosse anche in modo instabile e incerto – per crearsi di punto in bianco un’altra appartenenza, vale a dire un altro rapporto con sé e con gli altri, un altro sguardo sul mondo, un altro discorso sulle cose e sulla vita”. Per chiudere torniamo quindi a dove eravamo partiti: quello di Didier Eribon è testo davvero interessante, denso di spunti di riflessione, forse non tutti completamente condivisibili, e che merita d’essere letto con attenzione, soprattutto da chi ancora oggi si cimenta sul che fare?, non foss’altro per il fatto che nonostante sia stato scritto nel 2009 (avevamo volutamente omesso di dirlo), quindi ben prima dell’emersione planetaria del cosiddetto “momento populista”, ne anticipa molti aspetti risultando così ancora assolutamente attuale.