Consigli (o sconsigli) per gli acquisti: Tempo guadagnato, di Wolfgang Streeck
Con tre anni di ritardo rispetto alla sua pubblicazione, ci troviamo a segnalare un interessante testo di Wolfgang Streeck capitatoci per le mani. Come si legge nell’introduzione, “Tempo guadagnato” è la versione ampliata delle lezioni su Adorno tenute dall’autore nel giugno del 2012 presso l’Istituto di ricerche sociali di Francoforte. Il libro ha il merito di mettere a tema, anche se da un punto di vista non rigidamente marxista, la questione del rapporto tra capitalismo e democrazia alla luce della rivoluzione neoliberista e le trasformazioni dello Stato che ne sono conseguite. La tesi iniziale da cui l’autore muove, e che ci sentiamo di condividere, è che sia possibile comprendere la crisi in cui si dibatte il capitalismo del XXI secolo solo se la si interpreta come il culmine provvisorio di un processo più ampio, un processo che ha avuto inizio alla fine degli anni 60 del Novecento con la fine dei cosiddetti Trente Glorieuses. Prima di aggredire il tema cardine del suo lavoro Streeck fa però i conti con i limiti mostrati dalla “teoria della crisi” elaborata dalla cosiddetta “Scuola di Francoforte” sottolineandone soprattutto l’incapacità di prevedere la finanziarizzazione. Le ragioni di tale incapacità analitica, stando all’autore, sono da ricercare nel modo con cui anche a sinistra venne di fatto accettata l’autodescrizione che l’economia capitalista dava di sé come di un sistema capace di realizzare una crescita stabile e superare definitivamente le sue criticità interne. Nelle teorie di quegli anni le contraddizioni del modo di produzione capitalistico vennero così progressivamente relegate a residuo ideologico di un certo marxismo ortodosso. L’idea condivisa con il pensiero mainstream era che l’economia capitalistica si fosse trasformata in una macchina che produceva benessere e che fosse una questione ormai puramente tecnica. Il punto di rottura del capitalismo, dunque, non stava più nella sua struttura economica, ma nei suoi modelli politici e sociali. Il problema non riguardava più la produzione di plusvalore quanto piuttosto quello della “legittimazione” del sistema da parte dei salariati. Nella realtà, come ci ricorda lo stesso Streeck, avvenne esattamente l’opposto. Non furono le masse a negare il consenso al capitalismo del dopoguerra decretandone la fine, bensì il Capitale. Nel sottolineare questo passaggio cruciale l’autore mostra però di maneggiare una concezione dello Stato che non fa i conti con l’analisi marxista, immaginandone una sorta di terzietà rispetto a “coloro che dipendono dal capitale” e a “coloro che dipendono dal salario”, e finendo così per rimanere ostaggio di quegli stessi limiti teorici da lui stesso rimproverati alla Scuola di Francoforte. In realtà dopo il 1945 il capitalismo si era trovato sulla difensiva in ogni parte del mondo e doveva puntare ad ottenere in tutti i paesi dello schieramento occidentale una proroga della sua legittimazione, un rinnovo della sua licenza sociale a fronte di una classe operaia rafforzatasi in seguito alla guerra, al fordismo e alla concorrenza tra i sistemi. Ciò si ottenne solo attraverso le notevoli concessioni previste e rese possibili dalla teoria keynesiana. Come sostiene l’autore il regime postbellico del capitalismo “democratico” andò però inevitabilmente in crisi di fronte al progressivo esaurimento del ciclo di accumulazione fordista-keynesiano e, per reazione, il Capitale iniziò a preparare la sua uscita dal contratto sociale che aveva sottoscritto nel dopoguerra. A partire dai primi anni Ottanta nelle società occidentali vennero sempre più rifiutati, o comunque messi in discussione, alcuni elementi centrali del keynesismo mentre, in parallelo, tornò a crescere con estrema rapidità la diseguaglianza economica.
Ciononostante, come sottolinea Streeck, nelle ricche società occidentali la lunga transizione al neoliberismo trovò una resistenza decisamente debole e venne anzi accompagnata e favorita da una “rivoluzione culturale” di segno ideologicamente opposto a quello prospettato sul finire degli anni Sessanta. Sempre stando a Streeck in questa “transizione” un ruolo decisivo venne assunto dalla politica statale che, in cambio di denaro, fece guadagnare tempo al sistema capitalistico assicurando in tal modo una lealtà di massa al progetto sociale neoliberista. All’interno di una società dei consumi che si stava rapidamente sviluppando la politica inflazionistica degli anni Settanta assicurò la pace sociale sostituendosi ad una crescita che non bastava più e provvedendo surrettiziamente al mantenimento della piena occupazione. L’espediente consisteva nel disinnescare il conflitto redistributivo tra Capitale e Lavoro tramite il ricorso a risorse aggiuntive che erano disponibili solo in forma di denaro, ma che non erano, o almeno non erano ancora, reali. Nella seconda metà degli anni Settanta, con l’inizio della stagflazione, si ruppe l’incantesimo incentrato sulla sostituzione della crescita reale con quella nominale. Sotto la guida degli Stati Uniti e della Federal Reserve venne avviata una drastica stabilizzazione monetaria che portò a un duro scontro e alla sconfitta del movimento sindacale. La deflazione delle economie capitalistiche, favorite da una persistente disoccupazione strutturale e dalle “riforme” di segno neoliberista del mercato del lavoro e del diritto del lavoro si portarono dietro una consistente diminuzione del tasso di sindacalizzazione e delle ore scioperate.
Parallelamente crebbero esponenzialmente le richieste nei confronti dei sistemi di sicurezza sociale. Questo perché, nonostante l’intero sistema del welfare fosse sotto attacco, il patto implicito che era alla base del contratto sociale corrente non poteva essere smantellato tutto in una volta. Per la seconda volta si fece ricorso al sistema finanziario, non più stampando moneta, ma facendo ricorso al credito privato. Fu l’inizio dell’era dell’indebitamento pubblico. Negli anni Novanta i governi iniziarono a preoccuparsi della porzione dl loro bilancio destinata al servizio del debito mentre i creditori iniziarono a dubitare della solvibilità dei paesi indebitati. Furono di nuovo gli Stati Uniti, sotto l’amministrazione Clinton, a percorrere per primi la strada del risanamento del bilancio attraverso i tagli della spesa sociale. Il consolidamento del bilancio statale minacciava però di produrre una pericolosa flessione della domanda e una perdita di reddito in ambito privato, la risposta fu un’ulteriore iniezione di solvibilità anticipata, realizzata attraverso una seconda ondata di liberalizzazioni dei mercati finanziari che permise un rapido aumento dell’indebitamento privato. E’ quello che Colin Crouch definisce “keynesismo privatizzato”. Riassumendo: secondo Streeck il tempo guadagnato dal capitalismo a caro prezzo si è manifestato in 3 forme e in 3 fasi successive. In questo senso l’evoluzione compiuta dal paese leader del capitalismo moderno, gli Stati Uniti, assume un valore assolutamente paradigmatico.
Ognuna di queste 3 transizioni verso un nuovo modo di legittimazione è stata connessa ad una sconfitta dei salariati che ha poi reso possibile procedere con il processo di liberalizzazione: la fine dell’inflazione ha coinciso con la sconfitta sindacale e la disoccupazione strutturale; il consolidamento delle finanze statali con le privatizzazioni e la commercializzazione dei servizi pubblici; la fine del capitalismo del debito con l’impoverimento di massa, la precarizzazione del lavoro e l’ulteriore riduzione dell’intervento pubblico. Allo stesso tempo il terreno del conflitto politico-sociale per la redistribuzione si è allontanato sempre di più dal campo dell’esperienza e della capacità di influenza politica da parte dei salariati. Per Streeck quanto profonda sia questa sostituzione del capitalismo “democratico” con il capitalismo neoliberista si può dedurre dal fatto che “la partecipazione dei cittadini alle elezioni diminuisce progressivamente soprattutto tra coloro che dovrebbero avere maggiore interesse a conservare i servizi del settore pubblico e la ridistribuzione statale dall’alto verso il basso. Im tutte le democrazie occidentali la partecipazione alle elezioni è aumentata negli anni Cinquanta e Sessanta per poi diminuire costantemente perdendo in media 12 punti percentuali. E più della metà delle elezioni politiche che hanno riscontrato i tassi di partecipazione più bassi hanno avuto luogo dopo il 2000″.
A questo punto l’autore si concentra sulle ripercussioni che questo “tempo guadagnato” ha avuto sulla forma Stato e sul rapporto tra capitalismo e democrazia. La teoria economica mainstream ha sempre spiegato la crisi delle finanze statali a partire dal “fallimento della democrazia” e dall’abuso che questa ne consentirebbe. Secondo la più classica impostazione hayekiana, dal momento che i politici ottengono i loro incarichi attraverso le elezioni, nella lotta per accaparrarsi l’elettorato essi alimenterebbero l’illusione che le risorse sino infinite, consentendo così alla popolazione di “vivere sopra i propri mezzi”. Per superare la crisi fiscale occorrerebbe perciò difendere le finanze pubbliche dalle pretese ingenerate dalla democrazia. Si tratta ovviamente di una lettura assolutamente ideologica che, però, ha da tempo fatto breccia nell’opinione pubblica a dispetto del fatto che l’accumulazione, la riduzione e la ricostituzione del debito pubblico hanno marciato di pari passo con la vittoria del neoliberismo. E con la conseguente de-democraticizzazione dell’economia. Prova empirica ne sia la pressochè contemporanea esplosione dell’indebitamento statale e della diseguaglianza sociale. Per l’autore la causa del debito pubblico non è dunque da ascrivere alle spese elevate quanto alle basse entrate connesse alla progressiva detassazione delle multinazionali e dei redditi da capitale.
Negli anni Novanta il fenomeno venne amplificato anche da altri fattori. La sempre più rapida internazionalizzazione dell’economia fornì alle grandi imprese l’opportunità fino allora inimmaginabile di spostare la loro responsabilità fiscale in paese meno esigenti. E anche dove alla fine non si realizzò la delocalizzazione della produzione, questo espose gli stati nazionali del capitalismo “democratico” a una crescente concorrenza fiscale spingendo i governi ad abbassare i tetti massimi di imposta alle imprese. La tesi sostenuta da Streeck è che la crisi dello Stato fiscale, il cui sviluppo aveva accompagnato lo sviluppo capitalistico, segna il passaggio allo “Stato debitore”. Ossia ad uno Stato che per far fronte a gran parte delle sue spese, oltretutto in aumento, prende denaro in prestito dai mercati internazionali piuttosto che attingere alle risorse private attraverso la tassazione. Creando così una montagna di debiti per il cui finanziamento deve spendere una quota crescente delle sue entrate. Con l’apparente paradosso che coloro ai quali la politica fiscale dello Stato ha permesso di formare un surplus di capitali privati possono ora trasformare questi stessi capitali in investimenti redditizi attraverso i prestiti allo Stato stesso. Sempre secondo Streeck la nascita dello Stato debitore può essere considerata sia come un fattore che ritarda la crisi dello stato fiscale, sia come una nuova formazione politica regolata da leggi proprie e che deve rendere conto a due diverse “comunità”: da una parte il “popolo dello stato”, dall’altra il “popolo dei mercati”.
Se dal primo lo Stato debitore pretende lealtà, dal secondo è invece costretto a guadagnare e mantenere la fiducia, pena la cessazione dei finanziamenti. Il conflitto fra questi due popoli, caratterizzati da un potere asimmetrico, da diverse rivendicazioni e dalla competizione per assumere il controllo dello stato stesso è un fenomeno in divenire, praticamente inesplorato, che segna però una fase nuova nel rapporto tra capitalismo e democrazia. Infatti, come ricorda l’autore, la democrazia a livello nazionale presuppone “una sovranità che è sempre di meno nelle disponibilità degli Stati debitori poiché essi dipendono sempre di più dai mercati finanziari”. Nel perseguire la “fiducia” dei suddetti mercati gli Stati debitori devono inoltre rendere credibile il fatto che si stiano adoperando per mantenersi nelle condizioni di adempiere ai propri obblighi e i migliori risultati in tale direzione si ottengono tramite istituti come il pareggio di bilancio, ancorati nel caso ideale alla Costituzione, così da limitare la sovranità degli elettori e dei governi futuri circa la gestione delle finanze pubbliche. Il popolo del mercato non potrà però stare del tutto tranquillo fino a quando gli elettori avranno ancora la possibilità di sostituire un governo che è al servizio del capitale. La sola presenza di un’opposizione potenzialmente in grado di governare con programmi meno compatibili con quelli del mercato può costare ad uno Stato la fiducia, e quindi l’acceso al denaro. Il migliore Stato debitore è, quindi, uno Stato retto da una grande coalizione.
L’autore però si spinge oltre e come conseguenza della crisi finanziaria esplosa nel 2008 e di quella fiscale indica la trasformazione dello stato debitore in quello che lui definisce lo “Stato consolidato”. Per Streeck la manifestazione più evidente di questa ulteriore evoluzione neoliberista sarebbe da ricercare proprio nel processo di integrazione dell’Unione Europea e nella sua definitiva trasformazione in un meccanismo di liberalizzazione delle economie nazionali europee. Questa trasformazione non sarebbe certo iniziata con la crisi del 2008, al più ne avrebbe ricevuto un’accelerazione, ma sarebbe il risultato e la compiuta realizzazione di un continuo processo di trasformazione che costituisce la versione europea del processo di liberalizzazione in corso a livello mondiale fin dagli anni Ottanta. “Tale processo di de-democraticizzazione dell’economia, che progredisce rapidamente e parallelamente alla de-economicizzazione della democrazia con lo scopo di raggiungere una egemonia istituzionale della “giustizia di mercato” rispetto alla giustizia sociale può essere descritto come una hayekizzazione del capitalismo europeo”. Nel percorso di complessiva domesticazione della politica proprio di questa fase di consolidamento rientra il fatto che gli stati debbano assumere su di sé l’onere del risanamento di bilancio nella speranza di essere premiati in un secondo momento da tassi di interesse più bassi, e la via che è stata scelta è stata quella di vincolare tali stati a un regime sovranazionale non democratico chiamato a governarli dall’alto. Lo stato consolidato europeo dell’inizio del ventunesimo secolo non è, per l’appunto, una struttura nazionale, ma una struttura internazionale. E’ un regime sovranazionale in cui la democrazia è ormai interamente addomesticata dai mercati, un modello statuale fondato sulla definitiva implosione del patto sociale che era stato alla base del capitalismo “democratico “ e che richiede strumenti efficaci per “marginalizzare ideologicamente, disaggregare politicamente e tenere sotto controllo chi non si adegua“.
Contrariamente a quanti ne prevedevano l’estinzione l’utopia neoliberista mantiene dunque il bisogno di uno Stato forte, capace di respingere le richieste di intervento pubblico provenienti dalla società. A detta dell’autore l’alternativa al “capitalismo senza democrazia” dovrebbe essere la proposta di una “democrazia senza capitalismo”, è questa per Streeck l’utopia forte da contrapporre a quella hayekiana, il punto di partenza da cui provare a ricostruire una nuova capacità di azione politica, senza la paura di sporcarsi le mani con quello che le élite europee definiscono con malcelato disprezzo populismo. Perché se un’opposizione costruttiva non è più possibile, al suo posto non rimane che praticare un’opposizione di tipo distruttivo.
Wolfgang Streeck, Tempo guadagnato, Feltrinelli, 25 euro.