Costruiamo la nostra Fase 2
Domani saranno passati circa tre mesi dall’inizio della crisi epidemica e dall’entrata in lockdown del Paese. Tre mesi che, come scriveva qualcuno che di rivoluzioni ne capiva, potrebbero davvero valere come anni, a dimostrazione che il tempo della politica non scorre mai in maniera lineare. La crisi epidemica ha avuto quanto meno il “merito” di dimostrare, qualora ce ne fosse ancora il bisogno, l’assoluta insostenibilità del sistema economico dominante. Da anni la comunità scientifica ammoniva sulla inevitabilità di un evento pandemico di questa portata e quello che era in discussione non era tanto il “se”, ma piuttosto il “quando” si sarebbe manifestata una nuova pandemia. E questo perché la corsa all’accumulazione capitalistica tende a generare le condizioni sociali ed ecologiche affinché eventi del genere si verifichino con sempre maggiore frequenza. Eppure le classi dominanti si sono dimostrate sorde a questi appelli, ed anzi hanno contribuito a rendere ancora più fragili i sistemi sanitari nazionali attraverso i processi di spoliazione e privatizzazione che sono stati portati avanti in questi decenni di controriforme neoliberiste, tanto dalla destra quanto dalla cosiddetta “sinistra”.
Anche da questo punto di vista la crisi epidemica ha avuto la capacità di inchiodare alle proprie responsabilità storiche e sociali un’intera classe politica, ma forse a questo punto del ragionamento sarebbe meglio iniziare ad usare il condizionale e scrivere più correttamente che “potrebbe avere” queste potenzialità disvelatrici e “potrebbe assolvere” a queste funzione politica. Perché qui entrano in gioco tutti i nostri limiti e le nostre incapacità politiche che troppo spesso ci impediscono di cogliere al balzo le opportunità che la storia ci pone di fronte. Pensiamo, appunto, alla questione sanitaria. In questi mesi siamo stati sommersi da messaggi retorici sui medici “eroi” e sugli infermieri “angeli delle corsie”, e a propinarceli sono stati gli stessi che solo fino a qualche settimana fa chiudevano gli ospedali e tagliavano posti letto perché rappresentavano un “costo irrazionale”, bloccavano il turn-over, non rinnovavano i contratti ai lavoratori del settore e imponevano il numero chiuso all’università. Gli stessi che non riuscendo a garantire la disponibilità e la distribuzione dei dispositivi di sicurezza adeguati in poche settimane hanno fatto si che oltre 27mila operatori sanitari si contagiassero e che più di 200 di loro morissero. Poi, però, per pulirsi la coscienza li hanno chiamati martiri, quando in realtà sono morti sul lavoro.
Ebbene, nei mesi che ci si profilano davanti dovremo avere la capacità di porre all’ordine del giorno lo lotta contro questo “stato di cose presenti”, per chiedere l’abolizione della regionalizzazione del sistema sanitario, la fine delle privatizzazione e la requisizione degli istituti privati, l’abolizione dell’aziendalizzazione della sanità pubblica, il potenziamento delle piante organiche attraverso la stabilizzazione, l’internalizzazione e l’assunzione dei lavoratori e delle lavoratrici della sanità. Tutte cose che possono sembrare perfino banali agli occhi di un militante politico o sindacale, ma che oggi, alla luce del disastro sanitario che abbiamo vissuto, possono però suonare come “ragionevoli” o addirittura “indispensabili” anche a quei pezzi di classe e di società con cui da tempo fatichiamo a interloquire.
Anche perché la lotta per il diritto alla salute ci permette di andare oltre la singola vertenza, la singola rivendicazione, per quanto importante, e di rimettere in circolo un’idea stessa di società antitetica a quella dominata dal profitto e dal mercato. E lo stesso ragionamento può essere fatto per il diritto allo studio, per quello alla casa o per quello al lavoro. Se non saremo in grado di cogliere questa occasione il rischio, nemmeno troppo lontano nel tempo, è che a pagare il conto della crisi economica che si profila all’orizzonte saranno ancora una volta i salariati di questo paese, attraverso l’aumento del livello di sfruttamento e di precarietà, magari condito con la retorica del sacrificio collettivo e dell’unità nazionale.
Per questa ragione domani pomeriggio scenderemo in piazza, e come noi lo faranno migliaia di lavoratrici e lavoratori in decine di città italiane, con la consapevolezza che si tratta solo di un inizio, che il percorso che porta alla costruzione di un unico fronte di lotta va allargato e approfondito, ma anche con la determinazione di chi sa che da qualche parte si deve pur cominciare. In questo momento, in questo paese, nessuno può pensare di essere autosufficiente o di poter fare in proprio, tutti però possono (e devono) essere utili. Ma perché questo accada occorre avere la forza e la maturità di superare la balcanizzazione di cui da troppo tempo è vittima la sinistra di classe, buttare giù chiesette e parrocchie che davvero non servono più a nessuno e, senza per questo dover rinunciare alla propria specificità, provare a riunire tutte le lotte in un unico fronte di classe. Altrimenti tra qualche mese ci ritroveremo qui a discutere di come, collettivamente, avremo perso l’ennesima occasione per tornare ad essere un’opzione politica e sociale concreta e non più una curiosità folkloristica che sopravvive negli interstizi della società.