Cuba: 50 anni di rivoluzione. Il Manifesto: 38 anni di ambiguità!
Come già detto in questo blog, alcuni compagni sono a Cuba per festeggiare i cinquanta anni della Rivoluzione. A chi è rimasto in Italia, è toccato un compito – a dire il vero – non meno rivoluzionario: sopportare quanto scritto e detto dalla stampa borghese a ridosso del 31 dicembre – 1 gennaio, a proposito della ricorrenza cubana. Se ci aspettavamo gli articoli del Corriere della Sera e i servizi del TG 2 (ormai divenuto il telegiornale di quella che una volta era Alleanza Nazionale), è piuttosto inquietante il modo con cui un quotidiano “di area” – il manifesto – abbia parlato dell’argomento. Intanto premettiamo che il manifesto ha scritto su Cuba il 31 dicembre, alla vigilia delle celebrazioni, e solo il 31 dicembre, continuando, durante gli altri giorni, a ignorare la “questione cubana”, come se Cuba non esistesse (evidentemente, “occhio non vede…”). In quel giorno, il quotidiano che, per astrusi motivi, ancora ha scritto “comunista” sulla testata, ha dedicato ben quattro articoli e un editoriale all’argomento: tutti molto interessanti, se si vuole capire come è costruita la “disinformazione di sinistra” su Cuba. Iniziamo da Cristina Riccardi, che si è presa la briga di andare a L’Avana. Il suo articolo si intitola “Bandiere, musica e preoccupazioni” e inizia in modo emblematico: “Patria o muerte e un effluvio di salsa”. Già si capisce come una modalità consueta di presentare la Rivoluzione cubana sia quella folkloristica: Cuba non è il Paese dell’assalto alla caserma Moncada, dell’impresa del Granma, della pluriennale guerriglia che sfiancò un esercito regolare foraggiato dagli Usa come quello di Batista, delle lotte al fianco dei contadini…Cuba è il Paese della salsa, del mojito, del Cuba libre… Per coerenza, allora, quando descrive episodi del movimento comunista italiano, il manifesto dovrebbe parlare di pizza e mandolino…
Andiamo avanti: per la Riccardi, la Rivoluzione è cristallizzata, le celebrazioni sono attese più all’estero che in patria (come mai, allora, gli ospiti stranieri sono stati pochissimi?!), i giovani sono disillusi. Bene, ne approfittiamo per dire che un altro luogo comune della vulgata anti-castrista consiste nel descrivere un Paese dal quale i giovani vogliono solo fuggire. La Riccardi, a confermare le sue teorie, cita ben due interviste (anche perché altrimenti per quale motivo sarebbe andata a L’Avana?): peccato che una sia fatta a una giovane che, dopo aver criticato le mancate riforme (in caso contrario, dubitiamo che sarebbe stata citata dalla giornalista…) chiude orgogliosamente con un “Non saremo come Portorico”. La seconda intervista viene fatta a un tassista: si ripetono, in questi casi, le famose modalità giornalistiche note come “Nocioni-style”, dal cognome della pessima pennivendola del quotidiano “Liberazione” che due anni fa scrisse articoli offensivi contro Cuba e i cubani, provocando un vespaio di polemiche. Dunque: la Nocioni…pardon, la Riccardi vuole dimostrare che Cuba ha bisogno di ulteriori aperture al turismo? Bene, intervista un tassista, cioè il rappresentante di un ceto che è direttamente collegato all’industria turistica e che avrebbe tutto l’interesse ad aumentare il numero di turisti sull’isola (peraltro già ingente, se pensiamo che agli statunitensi è proibito, per via del blocco economico, raggiungere Cuba). Ecco, il blocco economico: sono cinquant’anni che condiziona in maniera assurda l’economia cubana, facendo mancare molti beni, rendendo costose per lo Stato tante materie prime, impedendo a navi e aerei che fanno anche solo tappa a Cuba di proseguire per gli Usa (così da costringere i cubani a organizzare spedizioni di merci apposta per Cuba, con tutto quello che ne consegue in termini economici). Eppure, l’articolo della Riccardi non parla mai del blocco economico: cita i danni dei cicloni e l’economia in crisi (ma come in crisi, se per il 2007 gli osservatori internazionali – assolutamente non comunisti – si aspettavano un PIL al + 12,5%?!!) e soprattutto si rammarica per le mancate riforme. Ma quali riforme? E’ evidente che ciò che infastidisce i commentatori del manifesto è il mantenimento del carattere socialista dell’economia cubana, con lievi deroghe per piccole attività turistiche. Le riforme auspicate vorrebbero invece una maggiore apertura all’imprenditoria privata e al libero mercato – dietro il paravento dell’abolizione di divieti che non sono mai esistiti (da quando i cubani non possono possedere un cellulare o un computer? Come fanno a non possedere computer se hanno una delle più solide tradizioni di studi informatici di tutto il Latino America?) – e il rammarico per l’assenza di queste riforme induce i giornalisti a parlare di presunti contrasti tra Fidel e Raul, come pure, nel passato, tra Fidel e il Che. Ovviamente, la Riccardi non parla del grande dibattito presente nell’isola a tutti i livelli (come pure ricordato dall’articolo di Habel nella pagina precedente, che lo riassume però a suo uso e consumo), né cita i tentativi che il governo cubano sta compiendo per emanciparsi dalla tirannia del turismo – che fu utile per fornire liquidità immediata negli anni del dopo Urss ma che è un’attività troppo volatile – e rilanciare un’economia produttiva, soprattutto nei comparti chimico ed estrattivo. Né si sofferma sulla razionalizzazione dell’agricoltura, necessaria soprattutto adesso che le derrate agricole hanno subito notevoli aumenti nel costo. Al manifesto tutto questo non interessa: Cuba è un’isola che vive nel passato, è descritta come se fosse la Corea del Nord, un dinosauro del socialismo reale. Troppo presi a descrivere l’altro mondo possibile (senza ancora averci spiegato come verrebbe organizzato), gli inviati del manifesto guardano con sufficienza uno dei pochi Paesi in cui l’alternativa (al neoliberismo, all’imperialismo, allo sfruttamento del lavoratore) è stata effettivamente edificata. Da cinquanta anni. Invece si sorvola sul ruolo di Cuba come spinta per il socialismo del XXI secolo, capace di legare la dialettica capitale/lavoro alla competizione nel mondo globale e al riscatto di minoranze (etniche e razziali) oppresse. A dire il vero, tutto questo nell’editoriale di Maurizio Matteuzzi è presente: troppo esperto per cadere nella trappola della polemica pressappochista, Matteuzzi inizia il suo articolo con un lungo riconoscimento ai meriti della vittoria cubana. Peccato che sia tutto funzionale a una conclusione drastica: “il socialismo cubano deve reinventarsi perché perfezionarsi non basta più”. Come si può re-inventare il socialismo? Prendendo a esempio le socialdemocrazie della tradizione europea? Cercando tristi e già fallimentari coabitazioni tra intervento statale nel mercato e ampie concentrazioni industriali private? I modelli quali sono: la Scandinavia (tanto cara ad Aldo Garzia, altro “cubanologo ravveduto”), l’Italietta del boom degli anni Cinquanta? L’America di Obama? Nell’attesa di saperlo, ingoiamo bocconi amari e ci teniamo questi magnifici reportage dall’Avana, con il solo sollievo che la prossima volta che manifesto si occuperà di Cuba sarà per il centenario della Rivoluzione. A quel tempo, Cuba sarà ancora un Paese socialista, ma il manifesto sarà ancora comunista – almeno a parole? O meglio: il manifesto sarà ancora qualcosa?