Curve e “distinti”
Più di un anno fa, dalle colonne del blog, prendemmo parola su quanto accadde in occasione della partita Genoa-Siena (leggi QUI). Un match che vide una dura contestazione da parte della gradinata Nord rossoblù e che, soprattutto, fu oggetto di un’accanita campagna stampa diffamatoria contro i tifosi che l’avevano promossa. Pur non entrando nel merito della questione, avevamo sottolineato con forza come i tifosi avessero il sacrosanto diritto di intervenire a gamba tesa nelle questioni che riguardavano il proprio club, con contestazioni o manifestazioni che osannassero i calciatori, e questo perché – ed è una regola che ci porta ai fatti di questi giorni – i tifosi sono i veri “proprietari” delle squadre. Il tifo organizzato, croce e delizia della nostra stampa, è il meccanismo senza cui il grande buffet domenicale non potrebbe essere servito. Contratti e diritti, manager e procuratori, sponsor e transazioni finanziarie: nulla di tutto ciò potrebbe esserci se non ci fossero i tifosi, “coccolati” quando serve e dipinti come facinorosi che urlano per 22 persone che rincorrono una sfera quando scatta la caccia. Una premessa doverosa, questa, per capire bene il vero spirito di quanto oggi i media raccontano a proposito di quello che Il Corriere dello Sport ha chiamato, titolando l’edizione del 10 ottobre, “il patto degli ultrà”.
Molti, se non tutti gli addetti ai lavori, hanno parlato dello stadio (e delle curve in particolar modo) come dello “spaccato della società”, “megafono e cassa di risonanza” della variegata composizione sociale che abita le gradinate italiane. Non è certo grazie alla campagna “Respect” promossa dalla UEFA (adottata anche dalla FIGC) che si scopre oggi il fenomeno del razzismo, negli stadi come nella società. Eppure, partendo da campagne di sensibilizzazione contro il razzismo, si è arrivati ad una vera e propria restrizione dei codici comportamentali cui il tifoso deve ottemperare. Badate bene, non siamo qui a dire che i “buu” ai giocatori neri fanno parte del folklore calcistico; o tanto peggio che non esiste un problema di razzismo anche nel calcio professionistico. Ma quanto accaduto nel caso della squalifica del campo per il Milan (a causa di cori contro Napoli e i napoletani nel match in trasferta contro la Juventus) sembra avviare l’intero giocattolo calcistico verso un crinale a dir poco scosceso. Come si è evidenziato da più parti, la battaglia contro il razzismo rischia di degenerare e diventare controproducente allorché si risponde con restrizioni arbitrarie che, tra l’altro, non raggiungono minimamente l’obiettivo iniziale da cui traggono origine; il famoso e “democratico” corollario secondo cui due torti non fanno una ragione dovrebbe su questo essere chiarificatore. Militarizzare lo scontro con l’ignoranza, attraverso atti che intervengono non in termini culturali ma di ordine pubblico, crediamo sia un modo consapevole di inasprire i toni. Ma noi crediamo anche che l’operazione messa in atto dai vertici del calcio italiano sia un ulteriore tassello per provare a snaturare il significato della parola tifo nel mondo del calcio. Nonostante sia sorta in relazione alla lotta al razzismo, la stretta repressiva contro il tifo organizzato (e non) è un meccanismo che da tempo agita gli spiriti più questurini della nostra politica: è in atto, per dirla altrimenti, un tentativo di pacificare il concetto di tifo nella sua accezione più passionale, indipendentemente dal livello che esso assume, sia di scontro violento che di mero insulto tra tifoserie (sul rapporto tra tifo e mimesi rimandiamo a questo interessante contributo pubblicato su Contropiano, dove si guarda al fenomeno in esame anche da un punto di vista sociologico ed antropologico). Le tessere del tifoso, le restrizioni dei Daspo, il divieto delle trasferte, le squalifiche delle curve, i divieti d’ingresso per striscioni e coreografie: trovata dopo trovata, la sensazione è quella di un progressivo scivolamento verso la rappresentazione mediata della rivalità tra tifoserie, con una forte accentuazione del carattere teatrale e il conseguente pompieraggio di quella caratteristica, propria delle curve italiane da decenni, di fungere da bacino e catalizzatore sociale, da punto di aggregazione. Su questo punto, in particolare, vorremmo essere chiari – prima che qualche “distinto” benpensante si premuri di instillare il dubbio. In questa contesa, tutt’altro che sportiva e con una accento culturale assai ridimensionato, noi stiamo dalla parte delle curve. Non del movimento ultras, come le sineddochi giornalistiche vogliono rappresentare quanto sta accadendo: perché nelle curve italiane sono differenti e disomogenee le relazioni tra frequentatori casuali, abituali ed organizzati. Utilizzare in maniera strumentale e ipocrita la problematica del razzismo (che pure si pone negli stadi, così come nelle strade e sui posti di lavoro) è un’operazione di basso profilo che va smascherata; agire in controtendenza, entrando a contatto con le contraddizioni che il tifo si porta dentro è l’unico elemento per scongiurare che qualche “distinto” si porti via le nostre curve, trasformandole in balconate o platee per un teatro da quattro soldi.