Dalla parte della Resistenza palestinese, senza se e senza ma

Dalla parte della Resistenza palestinese, senza se e senza ma

 

Non è certo semplice, men che meno immediato, riuscire a spiegare le ragioni per cui oggi qualsiasi opera di distinguo, di presa di distanza all’interno della Resistenza palestinese, sia giocoforza complice della carneficina israeliana. Eppure, oggi come in altre circostanze, è necessario portare avanti qualche posizione scomoda, non precostituita, fuori dal normali canoni del dibattito politico a sinistra.

Non c’è dubbio che Hamas non sia il nostro punto di riferimento politico nel mondo arabo. Le sue posizioni, che possono per (troppa) comodità essere sintetizzate nell’esasperato radicalismo religioso, la rendono una formazione politica distante dalla nostra ideale visione delle cose del mondo. Se il tentativo di capire la situazione mediorientale, per molti versi paradigmatica dell’evoluzione politica che potrebbe avvenire anche in altri contesti, terminasse qui, avremmo già la nostra sentenza: con una forza intimamente teocratica e anticomunista si può condividere molto poco, quasi niente, neanche singoli passaggi tattici contro eventuali nemici comuni. Questa però sarebbe una visione a dir poco superficiale e sclerotizzata dei rapporti politici esistenti nel contesto palestinese, e che soprattutto risentirebbe del punto di vista eurocentrico del modo di guardare le cose altrui.

Per chiudere tale premessa, siamo anche consci e intimamente convinti che organizzazioni come Hamas siano state, negli anni Ottanta, allevate e finanziate proprio da quelle strutture di potere che oggi si dicono suoi nemici mortali. Esattamente come le formazioni talebane furono organizzate in funzione anticomunista, così Hamas è stata creata per la medesima funzione, quella di spezzare la Resistenza palestinese laica e comunista, costruendo un nemico di comodo difficilmente difendibile dall’appoggio internazionalista. Bene, se tutto questo concerne la premessa dei fatti, questa non ci aiuta però a capire l’esistente e soprattutto la tendenza in atto.

Se Hamas, così come Hezbollah, hanno potuto imporsi e costruirsi quel prestigio popolare che innegabilmente le circonda, non è per qualche oscuro complotto delle “forze del male”, ma perché più coerentemente hanno saputo raccogliere il desiderio di vendetta delle popolazioni arabe sfruttate. Sostituendo la fede in Dio al messaggio socialista o pan-arabista, queste forze hanno contribuito nel corso di questi anni a dare una prospettiva collettiva di liberazione a tali masse, di individuare un nemico concreto (Israele e l’imperialismo statunitense) e di dare la percezione di combatterlo con ogni mezzo necessario, mettendo in gioco prima di tutto la propria vita. E se il messaggio costruttivo di tali formazioni può – e deve – essere oggetto di critica, non possiamo svalutare il bisogno da parte delle popolazioni colonizzate di organizzare la propria Resistenza. Come europei-eurocentrici possiamo disquisire all’infinito sulle reali necessità della popolazione palestinese, sul bisogno di ricostruire un’opzione politica di sinistra in quelle terre, che porti avanti un discorso laico e progressista, ma continueremmo a non tenere in conto il bisogno primario di quella gente, che rimane, oggi come da sessant’anni, quello di liberarsi dal dominio israeliano. E tutto ciò che viene percepito come più adatto a portare avanti questa lotta riceverà sempre il consenso maggiore, e soprattutto lo riceverà dagli strati più poveri di quelle popolazioni, quelli più direttamente impoveriti da tale sistema coloniale. Non serve a nulla dirsi oggi né con Israele né con Hamas, parafrasando l’infelice motto di qualche dissociato degli anni Settanta. Sarà con una Palestina libera che potremmo analizzare la propria situazione politica, combattere se necessario Hamas, e sempre tenendo a mente che tale lotta sarà efficace non se scenderà a patti con l’imperialismo dal volto buono, ma se saprà togliere alle formazioni religiose la coerenza della propria lotta, o almeno la percezione di tale coerenza e intransigenza, dando una prospettiva politica alle popolazioni sfruttate diversa dall’integralismo religioso ma sempre resistente verso il dominio liberale-liberista.

Ogni singolo razzo lanciato da Hamas verso Israele fa parte di una lotta di Resistenza che non può essere svalutata da propositi moraleggianti. E’ evidente anche per noi che il nemico politico da colpire non è il cittadino qualsiasi di Tel Aviv, ma noi non viviamo in un contesto di guerra permanente, non viviamo sotto occupazione eterna, non abbiamo tra i nostri familiari dei morti per mano nemica, non rischiamo la vita ogni volta che usciamo per strada. E quando vivevamo in prima persona questi drammi, come durante la nostra Resistenza, non ci sembra che i partigiani, italiani come di tutta Europa, si siano mai fatti scrupoli nel colpire il nemico ovunque questo mostrasse il suo lato debole. E la nostra iniziativa politica quotidiana sul tema della Resistenza si è sempre caratterizzata dal difendere con forza quegli atti, perché andavano – e vanno – sempre contestualizzati nel preciso momento storico-politico in cui venivano compiuti. E soprattutto, perché la loro condanna esprime sempre un attacco politico non al fatto in sé, ma al senso generale della lotta di Resistenza.

Quando siamo andati a dire in faccia a Pansa che non avevamo alcun rimorso per le vicende inerenti al cosiddetto Triangolo Rosso, cioè l’onda lunga del regolamento di conti tra partigiani ed (ex)fascisti, non lo abbiamo certo fatto per qualche macabro istinto omicida contro il cittadino inerme, magari iscritto a forza al regime fascista, e per questo portatore di colpe a volte non direttamente collegabili alla propria persona. Ma per difendere un discorso politico, quello della sacrosanta giustizia contro il recente dominatore fascista, che non poteva concludersi il giorno dopo il 25 aprile, e che lasciava strascichi nella popolazione impossibili da anestetizzare a 24 ore dalla Liberazione. Perché la guerra di Resistenza, essendo anche una lotta di classe, portava avanti dei discorsi politici che non si limitavano alla rappresaglia contro “il fascista”, ma alla giustizia sociale contro lo sfruttatore, qualsiasi esso fosse.

Come allora, oggi è necessario ribadire che le azioni palestinesi contro Israele fanno parte di una strategia di Resistenza che sta ai palestinesi decidere, perché sono loro che vivono sulla propria pelle la politica di violenza israeliana, che ragionano ogni giorno sulle modalità di Resistenza, e che dunque hanno chiaro il quadro della situazione. Questo non significa giustificare gli errori politici o l’intima diversità tra noi e tali formazioni politico-religiose, quanto operare una contestualizzazione degli eventi imprescindibile per poterli capire e inquadrare nei loro corretti termini politici.

Riguardo infine alla questione religiosa, non possiamo fare a meno di notare come in questi anni la sinistra abbia completamente ignorato che questa non è esclusivamente “l’oppio dei popoli”, ma anche, sempre seguendo Marx, il gemito della creatura oppressa. Attraverso l’afflato religioso le popolazioni arabe sfruttate hanno in questi decenni ricostruito un loro punto di vista, hanno utilizzato la chiave religiosa per opporsi alla loro condizione di sfruttamento, l’hanno distorta fino a renderla strumento del proprio antimperialismo. Uno strumento chiaramente inservibile, in ultima analisi complice di quell’imperialismo. Nessuno lo nega. Ma in assenza di strumenti politici adeguati alla situazione, in presenza della scomparsa storica di una sinistra coerentemente internazionalista, non possiamo certo imputare a quelle masse la colpa della propria visione del mondo. E’ un risultato storico che dovrebbe parlare molto più a noi che a quelle popolazioni.