Dalla rivoluzione sociale a quella “social”?
Ieri il Corsera è tornato a parlare di Venezuela dedicandogli ben dieci pagine del suo inserto settimanale e un titolo che da solo basterebbe a dirimere i dubbi su quanto sta (secondo i media) avvenendo laggiù: una rivoluzione borghese. In un “reportage” di taglio ovviamente antichavista e intriso di termini denigranti come regime, squadracce, ecc ecc, Rocco Cotroneo è pero costretto ad ammettere a denti stretti che <il chavismo ha ancora un forte appoggio, i programmi sociali funzionano e la protesta non è ancora penetrata nelle grandi favelas delle città, nè nelle zone rurali, cioè nei bastioni rossi>. Di più. Dopo aver sostenuto che la penuria di alcune merci non abbia nulla a che vedere con la speculazione e il boicottaggio da parte degli stessi soggetti sociali che oggi protestano, il giornalista, forse senza accorgersi di contraddirsi, descrive per filo e per segno come prodotti destinati ad essere venduti a prezzi calmierati vengono invece accaparrati e rivenduti in Colombia a prezzi di mercato. Scene di lotta di classe nella patria di Bolivar, diremmo, se non fosse che la presunta rivoluzione oltre a coinvolgere la classe abbiente è in realta estesa a soli 18 dei 335 municipi venezuelani, tutti già governati dalla destra. E’ però il secondo articolo del Corriere, quello a firma di Carlo Lodolini e Marta Serafini, a suscitare particolare curiosità perchè interamente dedicato al ruolo svolto dai social network in questa operazione. Con buona pace di quanti credevano o continuano a credere nella rete come strumento di ampliamento della democrazia, i cosiddetti new media si stanno dimostrando invece un elemento chiave in operazioni come quella venezuelana che segue pedissequamente i passaggi delle rivoluzioni colorate indicati da Gene Sharp,”il Clausewitz della guerra nonviolenta” già collaboratore della Cia. In queste settimane su facebook, instagram ma sopratutto su twitter si è potuto assistere ad una manipolazione mediatica senza precedenti finalizzata a delegittimare il governo bolivariano (ricordiamolo, eletto secondo gli stessi standard democratico-borghesi non più di un anno fa) dipingendolo come brutale e intento a violare sistematicamente i diritti umani nonchè la liberta di espressione. Foto di processioni religiose sono state tramutate in manifestazioni antichaviste, brutalità poliziesche perpretate in Egitto o in Cile sono state addebitate alla polizia venezuelana, persino fotogrammi di film porno sono stati adoperati per dimostrare che i chavisti toruravano gli oppositori. Il tutto in un gioco di rimando con gli old media che hanno poi provveduto ad amplificare la “realtà” creata ad arte dal “popolo della rete”. Il paradosso, almeno apparente, è che soli davanti ai monitor, individualizzati e atomizzati, investititi da una mole di informazioni che non si riesce ad elaborare o verificare, spesso privi degli strumenti analitici per interpretarle, i singoli utenti finiscono col diventare inconsapevoli ripetitori di strategie decise altrove. Magari da qualche “influencer” capace di indirizzare i flussi della comunicazione verso dove più gli aggrada. Non stiamo ovviamente facendo professione di luddismo informatico (abbiamo un blog, una pagina FB, saremmo quantomeno incoerenti) ma occorre avere sempre ben presente che nessuna tecnologia è neutra e che l’unico antidoto stà nel pensare e nell’agire in maniera collettiva. Altrimenti si finisce davvero col credere che sia possibile sostituire la rivoluzione sociale con quella social.