Declino della parabola populista?
A Cernobbio è andato in scena il ritorno all’ordine neoliberale? Di certo la conversione politica di Lega nord e Cinque stelle è un fenomeno che pone dei quesiti dirimenti. Partiamo da un dato di fatto spesso ignorato: partiti di queste dimensioni stipendiano professionisti delle dinamiche elettorali. Spostamenti così significativi non avvengono mai per caso, sono al contrario frutto di analisi accurate (molto più accurate delle nostre) delle sensazioni del corpo elettorale. Quale allora la ragione politica di un capovolgimento così evidente delle proprie retoriche? Siamo forse in presenza di un declino di quella traiettoria populista che ha avuto il suo apice con l’elezione di Trump? Da Trump in poi, valutando le diverse competizioni elettorali , i sondaggi dei principali movimenti anti-liberali in Europa, nonché il livello (piatto) di mobilitazione sociale, molti segnali indicano una costante flessione del cosiddetto populismo. Il caso italiano, in questo senso, è davvero interessante, per almeno due motivi. In primo luogo, perché da noi ci sono ben due forme di populismo, l’una apertamente reazionaria (la Lega), l’altra al contrario attenta a smarcarsi da qualsiasi posizionamento politico (M5S). L’altro motivo è che queste due forze rappresentano, elettoralmente, quasi il 50% dei voti potenzialmente espressi dagli italiani (secondo i sondaggi il M5S sta tra il 25 e il 30%, la Lega tra il 10 e il 15%). Il populismo in Italia è davvero un caso di studio. Oltretutto, mai dimenticarlo, l’Italia è da sempre terreno di sperimentazione politica: dal Fascismo alla Democrazia cristiana a Berlusconi, nel nostro paese si elaborano modelli della politica validi anche all’estero. A Cernobbio ha preso forma un riposizionamento che viene da lontano. Di Maio, il candidato in pectore del M5S, ha dichiarato che «il suo modello è il governo Rajoy». Salvini, come se niente fosse, ha detto che la Lega non proporrà un referendum sull’euro, «perché non si può fare». Conviene ricordare che il governo Rajoy è un governo schiettamente di centrodestra, quindi costringe il M5S a un posizionamento lungo l’asse destra/sinistra. Altrettanto utile rammentare che anche il referendum sull’autonomia del nord previsto in autunno ha più di qualche dubbio di costituzionalità: se la motivazione è il «non si può fare», sarebbe valso anche per l’imminente consultazione farlocca. I due front man (ex?)populisti imbrogliano malamente le carte, ma per quale motivo?
Siamo in presenza di un cambiamento di scenario economico, sociale e politico di non poco conto, e la politica sta reagendo come può alle mutate condizioni. Dal punto di vista economico, siamo – ci dicono – all’inizio di una stagione di forte ripresa economica. Inutile evidenziare la natura artificiosa di questa ripresa, che nella realtà materiale non esiste perché fondata sull’export, sulla disoccupazione e sul working poor. L’importante, in questo caso, sono i titoli dei giornali, il discorso pubblico, le retoriche mainstream: siamo tornati alla grande espansione. L’unico dato reale prodotto dall’1% di crescita sarà l’abbassamento del rischio finanziario, dunque la stabilizzazione dell’Euro e della struttura europeista. Il quantitative easing può declinare senza traumi, e con esso anche l’approccio “keynesiano” della Bce. Dal 2019 si cambia regime, e la Germania già ha fatto capire di volersi riprendere la guida della direzione finanziaria europeista.
Alla stabilizzazione economica sta corrispondendo la pacificazione sociale. Il Partito democratico è riuscito nel capolavoro politico di sottrarre alla destra la questione securitaria, “risolvendo” la questione migrante e intestandosi la lotta contro l’illegalità sociale prodotta dalla crisi. Come fare opposizione, allora, se “la crisi è alle spalle” e i migranti “finalmente bloccati fuori dai confini nazionali”? E infatti le due stabilizzazioni (economica e sociale) producono la chiusura dello scontro politico: il neoliberalismo, messo (parzialmente) in discussione dal populismo, torna ad essere l’unico orizzonte entro cui pensare la propria opposizione. Da questo, probabilmente, discende il cambio di paradigma leghista e grillino. A Cernobbio Salvini e Di Maio hanno puntato l’uno sulla flat tax, l’altro sulla “flessibilità”. Temi stancamente agitati da chi non sa più cosa dire e si pone come alternativa amministrativa, più che politica, all’esistente. Molto più semplice, così, da una parte l’alleanza tra Forza Italia e Lega nel resuscitato “centrodestra”, dall’altra il recupero del Pd a scapito di quanti erano temporaneamente migrati verso il Cinquestelle. Questo rispetto al quadro politico generale. Ma se la parabola populista è effettivamente in crisi (cosa però ancora da verificare), come influisce questo sulla sinistra alternativa al consociativismo neoliberale presente in Parlamento? Il declino del populismo non sembra lasciare dietro di sé margini di recupero a sinistra, almeno nel breve periodo. E’ però ancora troppo presto per capire cosa ci sarà dopo il populismo. A prima vista, però, niente di buono. Il populismo infatti nasce nel vuoto della sinistra e nel deserto della partecipazione politica. Lungi dal costituire “l’argine” alle “soluzioni progressive”, ha espresso piuttosto una mistificata forma di opposizione all’ordine sociale liberista che quelle stesse sinistre non riuscivano più ad intercettare, organizzare o solo suscitare. Se il populismo sembra (temporaneamente?) declinare, rimane inalterato quel vuoto sempre più sinonimo di rassegnazione.