Democrazia senza potere
L’eroica difesa della propria terra da parte dei curdi merita rispetto. Purtroppo, nella sinistra occidentale, questa esperienza travalica l’episodio concreto per divenire modello politico. Molti anni fa, ingenui, credevamo nell’errore di prospettiva, ad esempio quando si tentava di replicare modelli assai peculiari, vedasi la resistenza Maya in Chiapas, nella metropoli capitalista. Da qualche tempo – ancora una volta: colpa nostra – abbiamo capito che non c’è errore, quanto una coerente visione d’insieme che mette in relazione le lotte di talune resistenze locali con una prospettiva politica generale. Il confederalismo curdo serve a rafforzare la teoria municipalista in Europa. E’ la pezza d’appoggio concreta (“lo vedete? funziona!”) a una serie di posizioni ideologiche che da molti anni combattono l’economia privata sottraendosi all’abbraccio (mortale?) dello statalismo. Fin qui, il tutto rientra nella normale dialettica politica, e sbaglierebbe chi, polemicamente, si trincerasse nella difesa ad oltranza dello Stato quale alternativa al “privato”: in primo luogo, perché finirebbe inevitabilmente per mitizzare epoche che in realtà erano già oggetto di decostruzione rivoluzionaria. Quale Stato mitizzare? Quello degli anni Sessanta-Settanta? Ma era proprio contro quello Stato che muoveva la sinistra comunista, inconsapevole, a cogliere certi ragionamenti, del bengodi contro il quale si stava scagliando. In secondo luogo, perché perderebbe di vista uno dei caratteri fondamentali dell’ordoliberalismo, che in questi anni ha comportato il rafforzamento progressivo dello Stato e non il suo svuotamento. Anche se, è bene specificarlo, questo rafforzamento complessivo è avvenuto a detrimento del proprio ruolo economico-redistributivo, fattore questo non proprio secondario e ininfluente.
L’antistatalismo municipalista sembra però entrare puntualmente in crisi di fronte ai rapporti di forza materiali che una linea politica credibile dovrebbe sempre tenere in considerazione. L’ultimo esempio utile in questo senso è l’incontro internazionale tra Russia, Turchia e Iran sul destino della Siria, avvenuto lo scorso 4 aprile. Dubitiamo che i leader politici dei tre paesi avessero a cuore il destino del confederalismo curdo. Oltretutto al tavolo mancavano gli Usa, principale alleato militare dei curdi nella regione (oltre che Assad, ma questo non può essere scritto).
I curdi, insomma, si sono trovati – come sempre – oggetto di discussioni altrui e non soggetto di cui tenere conto. Peraltro, se non fosse stato per l’importante appoggio americano, non tanto l’Isis quanto la Turchia avrebbe da tempo liquidato l’affaire curdo a suon di bombardamenti, arresti, uccisioni mirate e tutto l’armamentario storicamente messo in campo contro quella popolazione. E’ proprio in virtù di questa tenaglia che i curdi hanno sagacemente stretto accordi militari con gli Usa che hanno reso possibile la difesa di quell’esperienza. E, sempre in questo senso, va interpretato l’incontro tra Ypg e Macron lo scorso 30 marzo: i curdi vedono la tenaglia che gli si sta stringendo attorno (con la Russia pericolosamente riavvicinata alla Turchia e il progressivo isolazionismo trumpiano), e cercano sponde altrove. Il problema è che anche gli Usa si servono dei curdi, per loro esclusivi interessi geopolitici, come fonte, cioè, di indebolimento di Assad da una parte e di Erdogan dall’altra. Così come la Francia, a parole solidale con la causa curda, si serve temporaneamente di quella causa per interessi più complessi, che prescindono dai curdi stessi. L’interesse americano e francese è insomma, ovviamente, condizionato: oggi c’è, domani potrebbe non esserci più.
Tutto questo per dire che l’esperienza confederale (r)esiste finchè rimane funzionale agli interessi di qualcun altro, oggi gli Usa, ieri la Russia, domani magari la Francia. Al netto del suo eroismo, della sua capacità di lotta, della sua sapienza tattica di appoggiarsi ora agli Usa ora ad Assad, il non essere e non volersi costituire in entità statuale costringe quel tipo di esperienza a dipendere da Stati terzi. A prescindere dal caso curdo, che, ripetiamo, vive di una sua specificità di cui tenere conto, la domanda è invece un’altra: come può fondarsi una prospettiva politica universale sulla dipendenza da attori terzi, più prosaicamente, sull’appoggio di altri Stati? E’ possibile una democrazia reale, cioè partecipata e solidale, senza porsi il problema del potere e dunque della forza?
Se a garantire per questa democrazia fosse una qualche altra entità statuale capitalistica, non si starebbe solamente aggirando un problema d’altronde annoso nella storia del movimento comunista? Mutato quel che c’è da mutare, è lo stesso ragionamento posto alla base del militarismo sovietico: garantirsi l’indipendenza militare, presupposto di ogni concreta indipendenza politica. E, anche qui fatte le debite proporzioni, è lo stesso ragionamento che soggiace alla strategia nordcoreana di dotarsi della bomba atomica: che fine hanno fatto gli “stati canaglia” privi del deterrente atomico, dai Balcani all’America Latina, dall’Asia al Medioriente? Al netto della simpatia che può suscitare Kim Jong-Un, come non riconoscere che il problema è reale e non immaginario, e questo problema non può mettere sullo stesso piano della bilancia lo storico aggressore (gli Usa in questo caso) con gli aggrediti (i paesi poveri e militarmente sprovvisti di deterrenza).
I curdi hanno risposto sul campo attraverso una mobilitazione di massa in un contesto di guerra permanente. Come detto all’inizio, la loro resistenza è motivo d’onore per quel popolo di cui non si può prescindere nella valutazione complessiva degli eventi. Ma teorizzarne una replica generalizzabile nel resto della società, e soprattutto in Occidente, è credibile? Teorizzare l’inutilità di uno Stato sovrano, entro cui esercitare la propria democrazia avanzata, solidale, partecipativa, insomma la propria democrazia socialista, non significherebbe aggirare il problema, delegando ad altri, altri Stati, altri interessi geo-politici, la presenza stessa di questa democrazia? Insomma, il socialismo può fare a meno di ragionare sul potere e sull’organizzazione della forza, o ne va della sua concreta indipendenza?