Dena Izango Gara!
Eccoci di ritorno da Euskal Herria, dove una nostra delegazione ha avuto il piacere di essere stata invitata per una due-giorni molto interessante e che, dopo aver “assolto” ai doveri di discussione e confronto, si è trasformata in una permanenza un po’ più lunga, per riabbracciare vecchi compagni e cercare di capire meglio la trasformazione che il movimento basco sta attraversando, un movimento, vogliamo sottolinearlo, che per noi rimane modello di organizzazione e di lotta. La due-giorni è stata composta da due momenti di discussione seguiti dal concerto dei Nucleo Terco: il primo sull’evoluzione storica delle lotte di classe in Italia e il secondo sulla necessità di una nuova soggettività organizzata in Euskal Herria. Oltre a noi erano stati invitati i compagni di Ibil (Iraultzaileen Bilguneak) e di Reconstrucción Comunista. Si è trattato di discussioni molto vive e che hanno visto la partecipazione di circa 150 compagni nel complesso.
Di ritorno, dicevamo, da una due giorni in cui – in un momento sicuramente non facile per il movimento basco – è stato per noi davvero importante e istruttivo avere modo di confrontarci con compagni che stanno discutendo i nodi più incerti del loro prossimo futuro. Sono dunque vari gli aspetti che ci portiamo dietro qui a Roma, e dei quali vorremmo fare qui breve menzione; alcuni di questi, pur nella differenza di fase e di storia dei movimenti basco e italiano, sono oggi all’ordine del giorno sia lì che qui da noi. Prima di queste brevi riflessioni, però, consentiteci un ringraziamento pubblico e davvero molto sentito ai compagni del Zazpi Katu di Bilbo e ai singoli compagni che hanno contribuito alla realizzazione delle due giornate, per il loro invito e la loro ospitalità.
Sembra essere opinione diffusa, non solo tra i compagni baschi che conosciamo, ma anche tra le realtà plurali che hanno preso parola in questi giorni, che il movimento di lotta per l’indipendenza e il socialismo in Euskal Herria stia vivendo una fase di riflusso. Un riflusso che sa di stasi, e anche un po’ di confusione. La dichiarazione della fine della lotta armata proclamata da ETA nell’ottobre del 2011 e il successivo inizio di un processo di “pace” sembrano aver inflitto un duro colpo al movimento nel suo complesso. Un colpo dovuto non tanto al fatto che l’avanguardia armata fosse l’unica via percorribile – per cui, estinta quella si sarebbe estinta la lotta plurisecolare in Euskadi – quanto al fatto che sul piano simbolico la dismissione dell’opzione armata ha significato qualcosa di più: non una ritirata strategica ma quasi un malinconico ritiro, non un cedimento di fase ma un cedimento strutturale, non la scelta di cambiare tattica ma il dubbio di aver sbagliato strategia. A questo tipo di sensazione – che, ripetiamo, ci è sembrata amaramente condivisa da tante e tanti compagni – fa poi eco un doppio nodo che sembra non poter essere sciolto. Uno riguardo i prossimi passaggi da compiere, l’altro ciò che ci si lascia indietro. Nel primo caso, troppo forte sembra essere la sensazione che il processo di “pace” stia assumendo i tratti di un pericoloso processo di pacificazione. Il rischio, cioè, sembra quello di veder estirpata anche solo nell’immaginario una linea di condotta che, tra mille contraddizioni, ha segnato la storia contemporanea dei Paesi Baschi e che, soprattutto, ha inciso in maniera decisiva nella politicizzazione e nella caratterizzazione socialista della lotta indipendentista. Un processo di pacificazione che inoltre, se da un lato impone l’accettazione di una linea di pensiero esclusiva (una sorta di aut aut, “o così o nulla”), dall’altro sembra non essere stato interpretato con lo stesso spirito conciliativo da ambo le parti. È infatti vero che mentre l’organizzazione armata basca ha iniziato un vero e proprio smantellamento dell’arsenale (con tanto di video diffuso dalla BBC lo scorso 21 febbraio, dove alcuni militanti di ETA posano vicini ad un piccolo arsenale con due membri della CIV – Commissione Internazionale di Verifica), da Madrid non sembrano essere cambiate di molto le politiche repressive contro i militanti baschi, né sono oggi differenti le arzigogolate manovre che la Guardia Civìl e l’Ertzaintza mettono in campo per reprimere sistematicamente la izquierda abertzale. Insomma, la situazione appare peggiore persino rispetto all’Irlanda. Questa considerazione, non propriamente un dettaglio, ci introduce alla seconda questione, ovvero alla gravosa eredità che si porta dietro la lotta per l’indipendenza basca: quella dei prigionieri politici. Il processo di pacificazione non sta dando nessun riscontro in termini di contropartite politiche; sulla questione dei presos, in particolare, sembra che non ci sia nessun tipo di avanzamento in termini di amnistia né tantomeno di depenalizzazione di molti militanti baschi che sono detenuti nelle carceri spagnole e francesi per una supposta appartenenza ad ETA (secondo il ben noto teorema del “tutto è ETA” di Baltasar Garzón). Questo processo, insomma, sembra pendere in maniera esclusiva verso Madrid, vista l’inconsistenza che al momento il movimento basco riesce ad esercitare in termini di rapporti di forza per ottenere un’amnistia generale che, quantomeno, renda meno amara l’attuale immobilità. La questione dei presos, infatti, rischia di essere oggi trattata in maniera meno politica, solo sotto il profilo umano, facendo venir meno quella politicità che aveva contraddistinto il movimento basco in ogni sua forma e articolazione, compresa quella della lotta armata. Anche questo, nel coacervo di discussioni che animano le organizzazioni ed i singoli, è un forte elemento di rottura e di divisione.
Il cambio dell’attuale paradigma, poi, ha imposto nuovamente all’attenzione del dibattito basco il tema dell’organizzazione. Seppur in termini comparativi, anche nel primo giorno in cui abbiamo preso parola il tema dell’organizzazione è stato uno dei nodi centrali del discorso. In particolare, vista anche la tradizione della lotta basca contemporanea, il dibattito è stato molto intenso allorché ci si era confrontati sul rapporto tra organizzazione e avanguardia. La riorganizzazione di un intero movimento, la sua peculiare storia e la sua eccezionale situazione repressiva sono variabili che si intrecciano in maniera indissolubile. Nonostante le incertezze del dibattito in corso in Euskal Herria, è però opportuno segnalare il livello non proprio scontato di tale dibattito, che verte sul modello organizzativo migliore per portare avanti la lotta di classe per l’indipendenza contro il colonialismo franco-spagnolo. Un discorso che riguarda la costruzione del Partito, del ruolo delle avanguardie politiche e il rapporto tra queste e le strutture sociali che contribuiscono a rendere effettivo il consenso popolare verso l’indipendenza socialista di quei territori. Insomma, se il dibattito è serrato e contraddittorio, questo si pone però su un livello notevolmente avanzato rispetto non solo a quello italiano, ma più in generale a quello del resto del panorama europeo.
Quello appreso in questi giorni ci è anche sembrato simile, fatti salvi gli ovvi contesti differenti, a un certo tipo di dibattito prodottosi nella sinistra di classe italiana negli anni ottanta, tra le macerie di una sconfitta politica delle opzioni armate e i tentativi di ricostruire le basi sociali e politiche per una nuova ondata di lotte. Come ne uscì il movimento italiano da quel contesto è storia nota: il superamento dell’avanguardia politica in favore dell’avanguardia sociale, la nascita dei centri sociali come roccaforti da cui strutturare l’insediamento sociale a scapito del momento politico, che inevitabilmente produsse la perdita di una visione politica strategica in favore della de-politicizzazione costante delle proprie istanze, per terminare negli anni duemila col rifiuto politico del “Novecento” inteso come momento storico del prevalere del “politico” sull’”economico”. Da questo punto di vista, i compagni baschi hanno un esempio importante da analizzare, coscienti della propria forza ma anche del contesto difficile nel quale operare e immaginare un proprio futuro.