Fabrizio De André vent’anni dopo
De André fa parte della grande cultura italiana, nonostante le contraddizioni lancinanti che la sua opera porta con sé. Da decenni è un monumento, per ciò stesso impossibile da affrontare di petto. Cosa si può dire di qualcuno su cui è già stato scritto e detto di tutto, nel bene come nel male? Meglio tacere evitando la certezza del già sentito. Inutile tanto la rimasticazione di temi altrui quanto la provocazione fine a se stessa. De André va salvaguardato dalla sua normalizzazione, un processo d’altronde avviato con lui ancora aggrappato alla vita, e anche questo fa parte delle controversie umane di un uomo d’altri tempi e d’altre tensioni morali. E nonostante ciò, a vent’anni esatti dalla sua morte, mentre il coro mediatico fa gara a ricordarlo, è giusto non lasciare solo ai poveri di spirito la sua memoria.
Fabrizio De André è uno dei pochissimi autori del secondo Novecento italiano in grado di essere “monumentalizzato” senza passare per il nazional-popolare. Fatto questo di per sé significativo della sua grandezza. Una grandezza sempre controversa, in malfermo equilibrio tra cuore e ragione, politica e disimpegno, libertà e religione, intellettualità e popolo. Un uomo che viveva su di sé, rispecchiandola nella sua poetica, tale lacerante incompiutezza. Il senso di colpa è la sua cifra della poetica. L’essenza piccolo-borghese, da cui non si libererà mai, che saprà cogliere lo spirito dei tempi nelle forme ereticali tipiche dei grandi uomini di cultura. Non per forza, o non sempre, condivisibili. Eppure sempre vive, vivificanti, seducenti, spiazzanti. Oggi possiamo dire che la poesia sopravanza la sua musica, i suoi arrangiamenti, le (discutibili) collaborazioni musicali, addirittura la sua voce, però così caratteristica. De Andrè è anzitutto un poeta, poco italiano, più vicino ad altre tradizioni, quella francese ad esempio.
E se dunque non si può ignorare De André a vent’anni, innamorandosene come se avesse già cantato tutto quello che volevamo sentire di decisivo sul mondo e sull’uomo, è oggi che dobbiamo avere il coraggio di non banalizzarlo. Perché è troppo facile. E’ dall’avamposto di una comodità intellettuale costruita anche su “quelli come De André” (sui suoi sbagli, sui suoi limiti) che oggi potremmo agevolmente liquidarne le aspirazioni cristiane, i dilemmi borghesi di fronte alla rivolta, le pericolanti fascinazioni del rischio, il fortissimo moralismo, il pacifismo intellettuale, la bolsa retorica sottoproletaria, e molti altri eccetera. Oggi è facile, era ieri che era difficile. Rimane deluso chi cerca in De André una sponda politica: troppi i limiti. Rimane ancora giustamente folgorato chi ne vede il poeta che riflette su un mondo che fatica ad afferrare, perennemente fuori posto, unico avamposto in grado di forgiarne la poetica. E quindi non ci resta che ricordarlo, lui più di altri perché lui più controverso di tutti. Rimane, ancora oggi, il poeta del conflitto interiore al suo massimo grado. Visto da questa prospettiva, la sua morte è quella di un Italia e di un mondo che davvero, senza retorica, sono venuti meno. C’è qualcosa d’altro, che fatica a trovare una sua profondità, una sua etica conseguente. Gli anni Sessanta e Settanta erano anch’essi, fuori di nostalgia, tempi incerti, sebbene sorretti dal rapporto con i padri (spirituali, culturali) e da un’etica nuova e vecchia allo stesso tempo, prodotta dalla lotta politica e culturale. De André incarna tutto questo e per questo va ancora oggi ricordato. Sottratto al ricordo pacificato e volgarizzato del mainstream, e restituito alla sua dimensione autoriale radicale. Vent’anni che sembrano un secolo.